L’ultimo capitolo della saga di Heimat, il primo dal punto di vista cronologico, è forse il meno riuscito della serie: la “patria” dei sogni prende il posto della “patria” reale, fatta di miserie e di conflitti tra contadini e signori che vengono nel film solo superficialmente rappresentati
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 4
Ancora il borgo immaginario di Schabbach, nella regione dell’Hunsrück (questo invece reale, luogo di provenienza del regista ottantenne Edgar Reitz, fra i padri del Nuovo cinema tedesco) e ancora la famiglia Simon protagonisti dell’ultimo capitolo della popolare fra i radical chic saga di Heimat, dal titolo L'altra Heimat - Cronaca di un sogno (titolo originale Die Andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht). Il film è ambientato nell’Ottocento, tra il 1842 e il 1844, in un paesino sperduto della Renania prussiana, abitato da contadini poveri che vessati da fame, miseria e carestie sognano un’altra “Heimat”, un’altra “patria” che è sia un luogo fisico ovvero il Brasile, dove molti tedeschi emigrarono nell’Ottocento, sia il luogo delle loro aspirazioni che consiste nel miglioramento delle loro condizioni di vita attraverso una rivoluzione che non arriva (almeno nel film), ma che essi desiderano.
È in questo contesto che conosciamo, quindi, i progenitori della famiglia Simon, protagonisti delle tre serie successive: abbiamo, in primo luogo, Jakob, il sognatore e divoratore di libri che parlano di terre lontane e di idiomi dei popoli indigeni, suo fratello Gustav che gli ruberà tutti i suoi sogni, il padre fabbro scontento del figlio “nullafacente”, la madre complice nel suo realismo dell’idealismo del figlio, l’amata Jettchen e la sorella allontanata da casa perché protestante sposata con un cattolico.
Il film è in bianco e nero con improvvisi dettagli di colore. Il bianco e nero della fotografia, come anche la musica, risultano un po’ troppo leziosi e l’uso del colore è troppo rimarcato, sottolineato tale da rendere il tutto piuttosto artificioso e lezioso. Le immagini ci riportano al cinema del passato: soprattutto gli esterni, le scene iniziali delle campagne e del lavoro dei contadini ricordano il cinema sovietico degli anni trenta, mentre gli interni appaiono un po’ troppo televisivi.
Il film dura circa 4 ore e nonostante sia la serie più corta della saga Heimat, risulta piuttosto prolisso e a tratti noioso, tanto che se si vuole proprio avventurarsi nella sua visione meglio evitare le ore serali e assumere una sana dose di caffè.
L’idea di fare un film storico narrando il microcosmo di una famiglia contadina è sicuramente interessante e ha validi predecessori anche in letteratura, pensiamo ad esempio a I promessi sposi, ma non è qui bene sviluppata: l’arco temporale in cui si svolge il film, un film di circa quattro ore, è limitato a soli due anni: dal 1842-44, anni non particolarmente significativi, soprattutto in un villaggio sperduto, dove prevale la storia di lunga durata. Del tutto assenti sono i rapporti con la città, appena sfiorato il riferimento alla stagione rivoluzionaria della Giovane Germania, che peraltro si concluderà nel 1848, la primavera dei popoli, che resta colpevolmente inesplorata dal regista.
Jakob, il personaggio principale, infatti, è intellettualmente molto distante dalla cultura rivoluzionaria e hegeliana della Giovane Germania. La sua adesione, per altro esteriore, a quest’ultima è di breve durata e viene mostrata in modo alquanto ridicolo. Egli è presentato come un intellettuale autodidatta completamente disinteressato alle allarmanti sofferenze della classe sociale di cui fa parte e in mezzo a cui vive e che tende addirittura a disprezzare in quanto intenta al lavoro manuale. Sebbene, dunque la sua classe sociale e la sua stessa famiglia vivano in una situazione spaventosa, il giovane intellettuale è tutto dedito ad apprendere le lingue della sua patria spirituale: l’orientalismo esotico della foresta amazzonica. Sebbene dunque la sua stessa famiglia, come del resto l’intera classe sociale, sia stretta fra la tragica alternativa fra morte per inedia e disperata emigrazione, il protagonista sviluppa una cultura del tutto astratta, priva di qualsiasi fine preciso. Appare, quindi, del tutto dimentico del monito che il Me-Ti di Brecht rivolgeva agli artisti figli della classe operaia/salariata: «gli sfruttatori parlano di mille cose, ma gli sfruttati parlano dello sfruttamento» [1]. Costante è, così, il conflitto con il padre, un lavoratore con i piedi per terra, da cui Jakob non si lascia imprigionare, rimanendo nel mondo incantato dei sui sogni.
Il tema in sé sarebbe stato anche interessante per mostrare, gramscianamente, gli enormi limiti degli intellettuali tradizionali, facendo così emergere l’esigenza della formazione di intellettuali organici, per quanto in un ambito arretrato e rurale sia una fatica di Sisifo, non a caso la classe potenzialmente rivoluzionaria nel modo di produzione capitalistico è la classe operaia. Al contrario il regista esalta l’assoluta separazione fra teoria e prassi, l’intellettuale tradizionale che vive chiuso nella sua sfera di cristallo, disprezzando i lavoratori della sua stessa classe, della sua stessa famiglia, in nome di una concezione ultratradizionalista e iperformalista dell’arte. È evidente, infatti, come al solito il regista si impersoni completamente nel protagonista delle sue telenovelas per ceto medio riflessivo, assolutamente incapace di una narrazione epica, di uno sguardo critico e straniato. Da qui il suo successo fra il pubblico, necessariamente limitato, dei radical chic della a-sinistra sempre in cerca di una fuga alienante dalla realtà e dalle proprie responsabilità, mascherata da prodotto culturale d’élite. La posizione del regista, apertamente reazionaria, è ideologicamente sottolineata al punto da esaltare persino la vena di follia e di autismo dell’intellettuale tradizionale che disprezza il realismo, il lavoro, la sua classe e persino suo padre, suo fratello e la stessa donna idealisticamente amata, quando con tale mondo si contamina. Da questo punto di vista il film è certamente osceno e vomitevole, come la critica radical chic che lo ha vergognosamente esaltato [2].
Nel complesso i personaggi non sono dialettici e, dunque, sono poco credibili e assolutamente non realistici, soprattutto l’attore principale su cui pesa anche la palese incapacità a recitare. Certo si dirà, il regista si è servito di un attore non professionista, il che però non fa che aggravare le responsabilità di Reitz, perché per non far sfigurare attori assolutamente privi di esperienza e tecnica recitativa vi è bisogno di grandi capacità registiche oltre che da parte del montatore, sia detto per inciso assolutamente incapace, o impossibilitato a tagliare il superfluo, che rende il film noiosamente naturalista per la sovrabbondanza di particolari superflui, ridondanti e inutili.
Il tema unico, ripetuto in modo ossessivo nel film, con tutta una serie di tanto banali quanto scontate variazioni, è quello della fuga nell’esotismo da parte del protagonista, questo suo sogno di un Brasile totalmente irreale che poi non trova riscontro nelle lettere di chi ci è arrivato, piuttosto che l’analisi della miseria reale dovuta ai rapporti di classe e allo sfruttamento selvaggio dei contadini da parte dei latifondisti. Il conflitto di classe, quindi, non emerge più di tanto e la miseria viene così naturalizzata, sembra quasi una fatalità dovuta al clima o a pestilenze di origine naturale. Addirittura il tema degli immigrati, veri e propri deportati da mettere sul conto della classe dominante, è qui idealisticamente stravolto nel sogno di evasione di un intellettuale da strapazzo che maledice il destino cinico e baro che gli impedisce di abbandonare i genitori vecchi e malati. Siamo a metà strada fra America, America, di Elia Kazan e Un americano a Roma. Interessante il tema della tubercolosi che affligge l’amata madre e che si comprende dovuto alla miseria, ma nel protagonista, pur presentato come un intellettuale, non emerge mai una riflessione su tale tragica connessione, né tanto meno una presa di posizione al riguardo. Più evidente è, invece, la critica alla religione e al clero, con il suo portato di intolleranza e qualunquismo, ma lascia il tempo che trova, visto che tale critica non apre ad un’alternativa valida e credibile.
Note
[1] B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1965], trad. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970, p. 76. Tutto l’apologo, da cui è tratto il passo citato, Della pittura e dei pittori è illuminante dal punto di vista della critica brechtiana agli intellettuali tradizionali sub specie artisti formalisti. Sul tema sono particolarmente interessanti, nella medesima opera, gli apologhi: Dell'arte pura pag. 103 e Il medico apolitico, p. 95.
[2] Indubbiamente se gravi sono le responsabilità della maggior parte dei lavoratori manuali occidentali, per la loro passività che li ha portati a farsi egemonizzare dal proprio nemico, decisamente più grandi sono le responsabilità dei lavoratori mentali. Anzi in molti casi questi intellettuali tradizionali sono proprio avanguardie della reazione e vere e proprie mosche cocchiere dell’imperialismo, si pensi, per limitarsi a qualche esempio, al ceto politico e sindacalista della asinistra, alla quasi totalità dei giornalisti, o dei “filosofi” invaghitisi di autori ultrareazionari da Nietzsche a Heidegger.