JACKIE di Pablo Larrain Usa 2016, valutazione: 5/10
Anche Pablo Larrain, dopo aver dimostrato pienamente la sua adesione all’ideologia dominante, sbarca a Hollywood, dove continua a confrontarsi con temi ambiziosi. Dopo aver realizzato un pessimo biopic su Pablo Neruda, ora si confronta con Jackie Kennedy e con la sua rielaborazione del lutto dopo l’omicidio di JFK.
Passando a lavorare per l’industria culturale più potente del mondo deve abbandonare i vezzi stilistici postmoderni e irrazionalisti che avevano caratterizzato la sua precedente opera. Si tratta ora di confezionare una merce da distribuire a un numero ben più ampio di consumatori, che richiede un surplus culinario che renda l’opera più facilmente fruibile e godibile esteticamente. Ciò è certamente un bene in quanto l’opera perde il carattere elitario. Inoltre il sano buon senso umano è certamente più avanzato, più razionale rispetto all’ideologia degli intellettuali tradizionali, dei moderni Tui. Questi ultimi da una parte devono il loro prestigio alla capacità di impressionare le masse con un linguaggio a esse difficilmente o del tutto incomprensibile. Dall’altra esasperano gli aspetti soggettivisti, le citazioni colte, sono generalmente impegnati ad ammirarsi la lingua e a farla ammirare con continui ammiccamenti agli altri adepti al club esclusivo dei cinéphiles. Infine, hanno crescenti difficoltà, considerando la crescente irrazionalità dell’attuale società capitalista, a farne una apologia diretta e, dunque, procedono in modo indiretto o attraverso l’apologia dell’irrazionale o mediante una sua naturalizzazione. Se, infatti, la realtà stessa non può che essere irrazionale, perde senso criticare l’attuale società per la sua irrazionalità e battersi per un assetto sociale maggiormente razionale.
L’arte propinata al grande pubblico deve invece essere, nella forma più dozzinale – rivolta in generale ai lavoratori talmente sfruttati nel corso del giorno che hanno bisogno unicamente di rilassarsi ed evadere, per poter continuare il giorno dopo a produrre plusvalore – arte culinaria, di puro intrattenimento. Nella sua forma più elevata, rivolta al ceto medio riflessivo, agli studenti e alla stessa classe dominante, assume generalmente le forme dell’arte naturalista, volta a riprodurre, naturalizzandoli, gli aspetti fenomenici della realtà. Questi ultimi, però, nel mondo capovolto, a causa del feticismo, dell’alienazione e della reificazione del capitale, ne cela l’essenza. In tal modo non si comprende la razionalità profonda del reale e in tal modo non si risale alle cose profonde, strutturali di ciò che avviene alla superficie. Ciò è funzionale a non far comprendere le ragioni delle contraddizioni reali, facendole apparire o frutto del caso, del destino, o naturali e, dunque, necessarie.
Quest’ultima è la forma di Jackie, film in cui si affronta la tragedia storica dell’omicidio di JFK in una prospettiva del tutto fenomenica e soggettiva, ovvero come viene vissuta e soprattutto rielaborata e narrata al grande pubblico dalla vedova del presidente. Da questo punto di vista ciò che colpisce è l’assoluto cinismo che coincide con l’assoluta superficialità del punto di vista di Jackie, e del regista che lo fa proprio, unicamente interessata a come può gestire per i proprio fini, per le proprie piccole ambizioni personali la grande tragedia della storia.
La vedova non ha scrupoli ad ammettere in privato che il suo è stato un matrimonio di pura convenienza, utile unicamente alla sua affermazione personale. A quest’ultima Jackie è stata pronta a sacrificare completamente la propria dignità di moglie, accettando senza colpo ferire il maschilismo del marito che non si fa scrupoli dal tradirla in modo aperto e costante.
Essendo interessata solo all’interesse immediato che può ricavare da questo tragico evento storico, come il regista appare interessato unicamente a rappresentare gli effetti più immediati sulla moglie, non fa il minimo sforzo per indagare e mettere in discussione la verità di comodo, che è poi il prodotto della macchinazione che ha portato all’omicidio del presidente, ossia che ha realizzare questo grande delitto sia un comunistello isolato, un borderline divenuto facile preda dell’ideologia criminosa del comunismo. Al punto che Jackie lamenta il fatto che il marito sia morto in modo così poco eroico e tanto poco sfruttabile sul piano mediatico, l’unico che a lei interessa, in quanto come il regista ritiene che sia l’unico che veramente conti.
Paradossalmente, così, Jackie nel lamentare che il marito non sia stato ucciso nella difesa dei diritti civili, ma da un comunistello senza arte né parte, si avvicina alla realtà profonda che si cela dietro l’apparenza ideologica. Tuttavia, come il regista, appare del tutto disinteressata a scavare in profondità, a risalire al fondamento del fenomeno, visto che l’unica cosa che davvero importa è proprio quest’ultimo. Così tanto alla protagonista, quanto al regista che in essa si immedesima senza remore, interessa soltanto poter sfruttare a proprio vantaggio la verità di comodo che l’ideologia dominante e gli stessi assassini del presidente hanno, per altro in modo maldestro, architettato, per non far emergere tutto il marcio e la rete di complicità che coinvolge i livelli più alti dell’establishment.
La grande capacità che ha Natalie Portman nell’immedesimarsi completamente nel proprio personaggio, è abilmente sfruttata da Larrain, per conto della società dello spettacolo, per far immedesimare lo spettatore, sprovvisto di una profonda coscienza critica della storia, nel punto di vista cinico e al contempo superficiale di Jackie. In tal modo il grande pubblico, cui il film si rivolge, non apprende nulla della tragedia storica, al di là dell’ideologia postmoderna, funzionale al partito dell’ordine costituito, per cui “il medium è il messaggio”.