Gli Uccelli di Alfred Hitchcock (1963) è certamente un ottimo prodotto dell’industria culturale cinematografica statunitense, ma per quanto godibile possa essere resta essenzialmente una merce per quanto raffinata d’intrattenimento e un prodotto culinario, sebbene confezionato a regola d’arte, in quanto lascia ben poco su cui riflettere allo spettatore. Si tratta, quindi, di un esemplare film di genere. Dunque, per quanto geniale e raffinato possa essere nei limiti del suo genere, non può esser considerato, a tutti gli effetti, una grande opera d’arte, in quanto il suo contenuto ha ben poco di sostanziale. Nel film vi è, dunque, un contenuto modesto, ma perfettamente adeguato ai limiti del genere e del prodotto di successo dell’industria culturale, mentre del tutto sproporzionata appare la grandezza dell’opera dal punto di vista formale, che avrebbe meritato un contenuto ben più sostanziale. Per cui, rivedendolo in modo distaccato, non si può che cogliere tutta l’abilità stilistica del regista che, però, tanto più contrasta con un plot tutto sommato modesto. Quindi il film da una parte genera in noi ammirazione e ci provoca un certo godimento estetico, anche se non può che lasciarci con l’amaro in bocca in quanto non possiamo che costatare come i presenti rapporti sociali di produzione, improntati a massimizzare il profitto individuale, finiscano con l’essere progressivamente un oggettivo ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. In altri termini, gli angusti limiti dell’industria culturale impediscono anche a un grande regista di realizzare un’autentica opera d’arte, ovvero un capolavoro.
Tale contraddizione è sapientemente occultata dall’ideologia dominante che – per occultare che la natura culinaria e mercificata imposta ai film dall’industria culturale ne impedisce la piena riuscita – esalta come capolavori e memorabili opere d’arte proprio questi prodotti mirabilmente realizzati dal cinema di genere, nonostante i limiti angusti che concede alla necessaria libertà dell’artista.
Tale operazione volta a occultare, più o meno consapevolmente, le contraddizioni reali è stata realizzata in primo luogo dalla critica cinefila francese, che aveva come principale punto di riferimento i “Cahiers du cinéma”, una rivista anch’essa decisamente sopravvalutata. In quanto l’ideologia dominante era interessata a far apparire le sue tesi – volte in realtà a conservare l’esistente, occultandone le contraddizioni strutturali – come rivoluzionarie. Del resto i suoi redattori non solo non avevano posizioni politiche neanche vagamente progressiste, ma erano sostanzialmente dei qualunquisti, conservatori e individualisti, opportunisticamente sostenitori del potere costituito, ossia del bonapartismo regressivo del generale De Gaulle, almeno sino all’esplosione del 1968 che comportò una politicizzazione di massa anche fra i più inveterati cinefili. Anche dal punto di vista culturale, prima del 1968, si trattava dei tipici intellettuali non impegnati, ovvero del prototipo dell’intellettuale tradizionale che si opponeva alla critica marxista e agli intellettuali politicamente engagé capeggiati da Jean Paul Sartre. Inoltre, rappresentavano il prototipo dell’intellettuale ultra-specializzato, prodotto dalla divisione del lavoro portata alle estreme conseguenze dalla società capitalista. Un intellettuale dunque – al di là delle pose giovanilistiche e ribelli – del tutto tradizionale, senza nessun rapporto con il proprio popolo. Un intellettuale talmente specializzato che si è formato quasi esclusivamente guardando un numero enorme di film, in modo del tutto privo di un criterio, di un qualche spirito critico e di una qualche coscienza di classe.
Si tratta di una tipologia di (a)critica cinematografica, per molti aspetti influenzata dal post-moderno, di cui sono generalmente ancora più espressione i film da essa prodotti, altrettanto assurdamente sopravvalutati, se non fossero in realtà campioni della corrente culturale antirealista – espressione della parte filo-imperialista della guerra fredda – che si potrebbe considerare come un capitolo di critica cinematografica da aggiungere in appendice alla Distruzione della ragione.
Ora questa (a)-critica cinefila postmoderna ha avuto l’indubbio merito, per il proprio campo filo-imperialista, di far perdere di vista la differenza fra un’opera d’arte e un prodotto puramente culinario, una merce dell’industria culturale. Ciò ha consentito anche la rivalutazione di quelli che erano considerati abili artigiani del cinema di genere, non autori o artisti ma, appunto, validi mestieranti. D’altra parte anche l’opposta critica purista e crociana – che condannava come non arte ogni prodotto dell’industria culturale, ogni opera culinaria, ogni film di genere – era unilaterale e non era in grado di distinguere un grande regista come Alfred Hitchcock (sebbene fosse un ultraconservatore e ultra-anticomunista cattolico inglese), che ha mirato al successo e alla ricchezza lavorando al soldo dell’industria culturale. Ciò nonostante Hitchcock ha realizzato film di indubbio valore anche artistico come La donna che visse due volti o Rebecca, la prima moglie e opere comunque notevoli, sebbene non si possano considerare dei capolavori, come Gli uccelli.
Decisamente più sopravvalutato e sostanzialmente inutile, se non a fini puramente ideologici di lotta all’intellettuale impegnato, al realismo e alla ragione è il film Jules e Jim di François Truffaut (Francia 1962). Detto film è, non a caso, considerato uno dei film più importanti della Nouvelle vague, ovvero di quella altrettanto ingiustamente sopravvalutata corrente cinematografica fra i cui massimi esponenti figurano proprio i “critici” cinefili dei “Cahiers du cinéma”. Truffaut è il principale esponente dell’anima più conservatrice e apolitica della Nouvelle vague. I suoi film sono certamente meno irrazionalisti di quelli del primo Godard – prima della politicizzazione (per altro anch’essa decisamente irrazionalista) negli anni del 68 – sia dal punto di vista della forma che del contenuto. Perciò, risultano meno ideologici e più tollerabili di quelli estremi di Godard. D’altra parte la loro compiaciuta apoliticità e antistoricità li rendono egualmente fastidiosi. Anche in Jules e Jim vediamo dei personaggi completamente indifferenti al mondo non solo della politica, ma anche al mondo socio-economico e storico. La loro vita è tutta rivolta alla sfera interiore e tutta incentrata su di un unico interesse particolaristico, quello per l’amore nel senso più romantico e irrazionalista.
Il vero protagonista del film è il personaggio femminile interpretato da Jeanne Moreau, che incarna questo amore puramente passionale, di fondo molto superficiale, antisociale, anti-etico, tanto da distruggere per puro capriccio la vita dei due amici che danno il nome al film. Cosa ancora più criticabile, è che in tale rappresentazione non è ravvisabile una qualche forma di attitudine e/o presa di distanza critica, anzi il pubblico tende a impersonarsi in maniera piuttosto incondizionata nella protagonista del film, che appare il personaggio dominante e più dinamico. Naturalmente, manca qualsiasi effetto di straniamento che consentirebbe di considerare criticamente l’infantilismo capriccioso della protagonista, che va dove la trascinano le sue volubili passioni irrazionali. Anche perché nel suo anarco-individualismo asociale, apolitico e, quindi, fondamentalmente di destra, si riconosce pienamente lo stesso regista.
Ancora più fastidioso è il modo in cui viene rappresentata l’emancipazione femminile dal regista, con lo stereotipo conservatore e maschilista per cui la donna veramente libera e indipendente è quella che va tranquillamente con tutti, senza mai negarsi, tutta passione e niente ragione, eticità, responsabilità storica e sociale etc.
Alla fine finiscono per apparire molto meno ideologici e fastidiosi due film, che apparentemente volano decisamente più in basso dell’opera di Truffaut, ma che in realtà hanno certamente più spessore contenutistico, toccano tematiche maggiormente sostanziali, lasciano più da riflettere allo spettatore e hanno uno sguardo critico e progressista sulla realtà. Si tratta, inoltre, di film sostanzialmente liberi dalla dominante ideologia postmoderna e dall’irrazionalismo e che non pretendono di astrarre completamente dal contesto storico, economico, sociale e politico. Non sono prodotti tardo romantici e decadenti come Jules e Jim, improntati alla concezione conservatrice e snobista dell’arte per l’arte. Né sono pieni del narcisismo dei registi cinefili della Nouvelle vague, che hanno il pessimo vizio di ammirarsi ripetutamente la lingua, piuttosto che considerarla uno strumento necessario per mediare la cosa stessa e, in particolare, un contenuto sostanziale. In tal modo non fanno altro che spostare l’attenzione dalla luna al dito che la indica.
Si tratta in entrambi i casi di film di genere, quindi non di capolavori, realizzati non da grandi autori, ma da ottimi artigiani, certamente privi della raffinatezza stilistica di Hitchcock, ma anche capaci di assumere un’attitudine più critica verso l’esistente sia rispetto a Gli uccelli che a Jules e Jim. Il primo è La gabbianella e il gatto di Enzo d'Alò, film di animazione italiano per bambini realizzato nel 1998. Dal punto di vista del contenuto, per altro capace di trovare un avanzato equilibrio con la forma, il film rappresenta un prodotto di eccellenza nel suo genere, in quanto media un contenuto opposto a quello conservatore dell’industria culturale, anche perché ispirato a un romanzo breve dello scrittore progressista cileno Sepulveda. Il film tocca, senza essere mai pesante e noioso, questioni sostanziali come la distruzione del proprio ambiente da parte dell’uomo, assoggettato all’attuale modello di sviluppo, l’importanza di accettare, di riconoscere e di essere solidali anche con il radicalmente altro da sé e, infine, la significativa e controcorrente raffigurazione delle forze fasciste e reazionari come dei topi di fogna che tendono, con le loro trame e la loro violenza, a uscire dalle fogne e a imporre il loro grottesco dominio sul mondo. Il film riesce, dunque, nel difficile compito di mediare contenuti sostanziali senza rinunciare a produrre godimento estetico per il proprio pubblico. Il quale viene spinto a riflettere divertendosi ed emozionandosi.
Il limite principale del film è di rimanere troppo prigioniero del suo genere, ossia dell’essere un film di animazione essenzialmente per bambini, che può non annoiare il pubblico adulto, senza però offrirgli nulla di veramente sostanziale che sia alla sua altezza.
Discorso in parte analogo si può fare per Maigret e il caso Saint-Fiacre (Francia 1958), opera anch’essa di genere, realizzata da un solido artigiano come Jean Delannoy. Si tratta di un valido prodotto nel suo genere in quanto traspone per il grande schermo l’opera di uno dei massimi giallisti del secolo scorso, ovvero Georges Simenon, che riesce più di una volta a superare i limiti del genere e a realizzare autentiche opere d’arte come, ad esempio, Il cane giallo. Nel nostro caso abbiamo invece un ottimo prodotto del genere poliziesco, in grado non solo di offrire allo spettatore un discreto godimento estetico, ma anche di farlo riflettere criticamente su alcuni aspetti particolarmente regressivi della nostra società.
Da questo punto di vista Delannoy resta troppo scrupolosamente fedele al romanzo alla base del suo film. Realizza così un discreto film giallo che, pur rimanendo dal punto di vista formale piuttosto convenzionale, restituisce alcuni contenuti sostanziali di critica sociale di Simenon, che resta un grande scrittore pur essendo politicamente un conservatore sostanzialmente subalterno all’industria culturale. Tornando al film di Delannoy, pur essendoci un certo equilibrio fra forma e contenuto, la prima non appare sempre all’altezza del secondo. Quindi il regista traduce senza tradire il romanzo, ma senza nemmeno valorizzare adeguatamente lo specifico filmico. La traduzione appare, quindi, sostanzialmente corretta, anche se finisce per mirare più a riprodurre alla lettera Simenon, più che secondo il suo spirito decisamente creativo, critico e anticonformista.
Ciò nonostante il film resta, comunque, valido perché è in grado di restituire una rappresentazione realistica della società, anche se dal punto di vista di un regista e di uno scrittore decisamente conservatori, anche se il secondo quasi esclusivamente dal punto di vista politico. Per cui l’opera non riesce ad andare al di là di una significativa critica sociale, propria di una solida opera di denuncia, ma non è in grado di aprire al pubblico una reale prospettiva progressista, né tanto meno rivoluzionaria, in quanto a risolvere la questione resta comunque un tutore dell’ordine costituito. In tal modo l’opera, pur considerando criticamente l’esistente, non mira a rivoluzionarlo, ma piuttosto a ordinarlo, impresa decisamente utopistica nel senso più deteriore del termine.