I David di Donatello costituiscono il più significativo riconoscimento per i film italiani e sono assegnati da una giuria composita. Dunque, a differenza degli Oscar, assegnati per ogni categoria dagli esperti del settore, nell’assegnazione dei David pesa meno l’aspetto tecnico e più considerazioni di politica culturale nel senso lato del termine.
I premi più ambiti sono andati a La pazza gioia di Paolo Virzì, valutazione 6,5/10, che dopo aver totalizzato ben 17 nomination, ha vinto come miglior film, miglior regista e migliore attrice protagonista a Valeria Bruni Tedeschi, oltre a due premi minori. Il film aveva fatto da mattatore anche nell’assegnazione del secondo più ambito riconoscimento del cinema italiano, Il nastro d’argento assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, dove ha totalizzato il maggior numero di nomination, il maggior numero di premi, fra cui la miglior regia. La pazza gioia ha, oltre a diversi altri premi in festival minori, avuto il riconoscimento di miglior film d’essai, dalla Federazione Italiana Film d'Essai.
Ora i riconoscimenti ottenuti da quello che è forse il più significativo esponente del cinema italiano non può che fare piacere, in quanto dimostra che non è affatto vero che per poter emergere bisogna necessariamente vendersi all’industria culturale. Al contrario Virzì è riuscito a imporsi pur rimanendo uno dei più indipendenti e impegnati cineasti del nostro paese. Da questo punto di vista dovrebbe costituire un valido modello per le giovani generazioni che intendono realizzare film non solo validi dal punto di vista estetico, ma significativi dal punto di vista di una conoscenza critica della realtà del nostro paese, in funzione di una sua radicale trasformazione.
D’altra parte La pazza gioia è certamente il più classico dei film di Virzì, indice che il regista ha ormai raggiunto la piena maturità, ma è al contempo fra i meno incisivi e graffianti lungometraggi da lui realizzati. Rispetto al carattere apertamente antagonistico del suo stesso film precedente, l’ottimo Il capitale umano, La pazza gioia appare, almeno in parte, condizionato dal politically correct e dal rischio da apparire a tratti, a differenza dei suoi lavori precedenti, interclassista.
Perciò, dal nostro punto di vista per il contenuto, per la tematica affrontata, per il punto di vista conoscitivo e per la capacità di dar da pensare in senso critico allo spettatore, avremo incoronato come miglior film italiano dell’anno: 7 MINUTI di Michele Placido, valutazione 7+/10. In questo caso, per quanto il regista non abbia posizioni politicamente avanzate come Virzì, la prospettiva di classe, meglio la lotta di classe quale motore della storia appare nel modo più netto. Il film si presenta come decisamente antagonista non solo all’industria culturale, alla mercificazione dell’arte, ma allo stesso politically correct, riportando l’attenzione su una questione decisiva, che non a caso la classe dominante tende sempre ad occultare, il conflitto all’ultimo sangue che si combatte in ogni posto di lavoro, nel modo di produzione capitalistico, sull’orario di lavoro e più in generale sulle condizioni di utilizzo della forza lavoro.
Le operaie nel film, ispirandosi a un’epica lotta di operaie reali, sebbene in una condizione estremamente difficile, in quanto donne e proletarie in una fase di crisi economica e restaurazione politica riescono a portare avanti una decisiva battaglia contro la strategia di un costante aumento dell’orario di lavoro da parte del padronato, per aumentare con il livello di sfruttamento il plusvalore. Nonostante il potentissimo ricatto del grande esercito di riserva prodotto dalla crisi e sfruttato dal padronato, nonostante la presenza di lavoratrici doppiamente oppresse per motivi di classe e di genere, per le quali un lavoro retribuito è decisivo per sfuggire all’oppressione della schiavitù domestica, nonostante infine la significativa presenza di immigrate, tre volte discriminate, in quanto proletarie, donne e straniere, le operaie prendono progressivamente consapevolezza che il reale problema non è la mancanza di lavoro, ma sono le condizioni di utilizzo e, dunque, di sfruttamento della forza lavoro. Avere un lavoro mettendosi completamente nelle mani del padrone è la cosa più semplice del mondo, la cosa realmente difficile e, perciò, decisiva è essere in grado, nonostante il ricatto del licenziamento, di portare avanti una lotta vincente per mantenere un certo controllo sull’orario di lavoro e le condizioni di utilizzo (sfruttamento) della forza lavoro, contrattualmente venduta al padrone in cambio dei mezzi di sussistenza indispensabili alla riproduzione della forza lavoro.
Il realismo dei personaggi, la loro dialettica e contraddittoria complessità, la loro tipicità è in parte guastata dal loro essere interpretate da personalità di rilievo del mondo dello spettacolo, che pur mantenendo un certo distacco dai propri personaggi, che favorisce l’effetto di straniamento e la riflessione critica da parte dello spettatore, finiscono troppo spesso per andare sopra le righe, per strafare e, questo disturba a tratti il godimento di questa significativa esperienza estetica. L’altro aspetto debole del film è la sua incapacità di tradurre sul piano cinematografico il significativo testo teatrale su cui si basa la sua scenografia.
Così il contenuto apertamente antagonista all’ideologia dominante e la forma non sempre all’altezza hanno favorito la penalizzazione di 7 minuti, che non ha avuto nessun riconoscimento dalla giuria troppo condizionata dall’industria culturale, ricevendo una nomination al David Giovani, da una giuria composta di studenti. Questi ultimi se da un lato hanno dimostrato di avere una più spiccata sensibilità sociale e politica rispetto agli esponenti del mondo dello spettacolo e una maggiore autonomia di giudizio, dall’altro hanno inevitabilmente mostrato l’ancora poco sviluppata capacità di giudizio estetico incoronando come miglior film IN GUERRA PER AMORE di Pif, valutazione: 6. Un film davvero debole dal punto di vista formale, strettamente estetico, anche se decisamente significativo nel contorno storico in cui la insulsa vicenda principale è inserita.
Dal film emerge con chiarezza come gli Stati Uniti abbiano “liberato” la Sicilia mediante la decisiva alleanza organica con la mafia. In tal modo hanno finito per consegnare, a “liberazione” avvenuta, il pieno controllo del territorio alla criminalità organizzata, ben al di là dei margini di agibilità lasciatigli dal fascismo. Anzi dalle carceri sono stati liberati, come presunti antifascisti, tutti i criminali delle cosche incarcerati, e queste ultime sono state riempite dai poveri, considerati inaffidabili dagli statunitensi. In tal modo la Sicilia è stata posta al sicuro, nel caso in Italia si fossero affermate le forze di sinistra, dal momento che il predominio delle cosche affidava il dominino politico al partito indipendentista, pronto a trasformarsi in Democrazia Cristiana nel momento in cui, dopo il 1948 e la strage di Portella della Ginestra, il fantasma del comunismo era strato in parte esorcizzato.
Per il resto il film è inevitabilmente guastato dal suo regista e attore principale, l’intollerabile Pif, non a caso emerso grazie alla televisione, che rappresenta e interpreta un modello di comicità davvero insulso, ai livello di Gianni e Pinotto.
Quale miglior film, nella prospettiva della sintesi di forma e contenuto, il film da premiare sarebbe forse dovuto essere: Veloce come il vento di Matteo Rovere, Italia: voto 7-/10, che ha ricevuto ben 16 nomination e 6 premi, anche se ha perduto i più ambiti. Al centro del film vi è il significativo e realistico contraddittorio rapporti in seno a una famiglia, fra la giovane sorella proletaria, costretta con il duro lavoro a portare avanti la famiglia dopo la morte dei genitori, e il fratello grande sottoproletario precipitato nel tunnel della droga pesante. Il contenuto tragico del film è ben congegnato fra i doveri etici familiari della sorella nei confronti del fratello e il conflitto di classe fra l’attitudine costruttiva e progressista della proletaria e le tendenze distruttive e parassitarie del sottoproletario. La catarsi si raggiunge attraverso il riconoscimento delle cause soggettive, ma anche oggettive, sociali, della tragica condizione del sottoproletario. Ciò, insieme ai legami di parentela, consente il riconoscimento di entrambi e questo favorisce il rinserimento del fratello, un notevole Stefano Accorsi premiato come miglior attore protagonista, nel mondo del lavoro. Tuttavia il prevalere dell’ottica incentrata sull’ambito dell’eticità naturale della famiglia e al massimo in quella individualista della società civile borghese, impedisce una reale presa di coscienza della tragica condizione vissuta tanto dai proletari, quanto dai sottoproletari nella società borghese. Perciò la soluzione, in senso piccolo borghese della vicenda, appare irrealistica e nei fatti mistificatoria, come tutte le soluzioni socialriformiste.
Il terzo film maggiormente quotato e premiato è il decisamente sopravvalutato INDIVISIBILI di Edoardo De Angelis, valutazione 5/10, che ha totalizzato ben 17 nomination e 6 premi, anche se tutto sommato minori. In tal caso, soprattutto per quanto riguarda le nomination in quasi tutte le categorie, comprese quelle di miglior film, ha indubbiamente prevalso l’ideologia dominante, nella fase putrescente dell’imperialismo, ovvero l’irrazionalismo postmoderno. Nel film troviamo tutti gli stilemi e i luoghi comuni così diffusi in questa davvero esecrabile jeunesse dorée di intellettuali tradizionali campani, che nella loro apologia indiretta del capitalismo hanno sviluppato questo insano gusto per il grottesco, che consente di idealizzare le tragiche condizioni venutesi a creare con la questione meridionale. Questo rimestare nel torbido, questo gusto sfrenato per gli aspetti peggiori e più irrazionali prodotti dal capitalismo italiano e più in generale dalla società classista, in Campania è, a dir poco, disgustoso. Da questo punto di vista passano del tutto in secondo piano gli aspetti comunque significativi dal punto di vista formale e contenutistico del film, dalla direzione degli attori alla tragedia naturale della maturazione, mediante il parricidio.
Fra i film più quotati e meno premiati spicca FAI BEI SOGNI di Marco Bellocchio, valutazione 6+. Pur ricevendo ben dieci nomination, anche ai premi più ambiti, il film a ragione non porta a casa neppure un premio. In questo caso il film pur essendo fatto da un regista di grande mestiere ed esperienza, pur indubbiamente significativo sotto diversi punti di vista, in un’ottica puramente formale, non può che lasciare con l’amaro in bocca vista la sostanziale insipienza dei temi affrontati. Al centro del film è, ancora una volta, il rapporto morboso fra madre e figlio, tema ricorrente in diversi film dell’autore. Nonostante le diverse trovate, che rendono a tratti interessante il film, la tematica del classico complesso di Peter Pan non può alla fine che annoiare.
Giustamente ridimensionato dalla premiazione è anche Fiore di Claudio Giovannesi, valutazione 6+/10, che pur candidato a miglior film e miglior regista, ottiene solo un riconoscimento minore al grande Mastrandrea come attore non protagonista. Si tratta di un film che promette molto, ricco di aspetti significativi, ma che finisce inevitabilmente per deludere, in quanto non decolla mai, non riuscendo ad andare al di là di una rappresentazione naturalistica del sottoproletariato.
Infine, mentre non si può che approvare il dovuto riconoscimento all’ottimo I, Daniel Blake di Ken Loach, valutazione: 8+/10, quale miglior film europeo, lascia con l’amaro in bocca il mancato riconoscimento a Le confessioni di Roberto Andò, valutazione: 7/10, che ha avuto 5 nomination tutto sommato minori e nessun premio. Un vero peccato in quanto, a differenza del sopravvalutato Viva la libertà, si tratta indubbiamente di un film significativo, a nostro avviso il secondo più interessante dopo 7 minuti, e il più riuscito come sintesi di forma e contenuto insieme a Veloce come il vento.