Gimme Danger di Jim Jarmusch Usa 2016 documentario, valutazione: 5/10
Il documentario di Jarmusch ha l’indubbio merito di far riscoprire o meglio scoprire al grande pubblico uno dei gruppi più significativi dei tardi anni sessanta, The Stooges. Capitanati da Iggy Pop il gruppo, come sempre avviene per chi è eccessivamente originale e radicale, per chi è troppo avanti con i tempi, ha conosciuto un successo essenzialmente postumo, per l’influenza diretta e indiretta che ha avuto su molti gruppi degli anni seguenti che vi hanno trovato fonte di ispirazione, fino al punk di cui costituiscono certamente uno dei principali antecedenti.
Il film di Jarmusch ha anche l’importanza di rivendicare la coraggiosa e disperata lotta di questo gruppo di giovani e ingenui artisti contro l’industria culturale e più in generale il sistema. Nel ricordare quei tempi si definiscono fra l’ingenuo e il provocatorio addirittura comunisti, nell’accezione più primitiva del termine. Tuttavia, il loro ribellismo anarcoide e certamente antisistemico li porta a entrare in stretta relazione con i MC5, presumibilmente il gruppo più radicale del tempo, al punto da avere come ideologo John Sinclair, il fondatore delle White Panthers, che avrebbe dovuto fare da pendant alle Black Panther. Non a caso vengono entrambi da Detroit, ovvero dal principale centro operaio degli Stati Uniti e gli stessi The Stooges avevano partecipato attivamente alla grande sommossa del 1967 che aveva avuto come centro proprio questa città.
La loro estremistica opposizione al sistema sarà tollerata fino a quando il movimento di lotta negli Stati Uniti sarà in fase ascendente, non appena il vento cambierà saranno da una parte tagliati completamente fuori dalle case discografiche, più o meno tornate sotto il controllo o l’egemonia dell’industria culturale, in parte con la diffusione della droga, utilizzata proprio con il fine di sterminare il movimento rivoluzionario che si era sviluppato principalmente nei ghetti neri.
Il film ricostruisce anche il rapporto di collaborazione e di reciproca influenza con l’altro grande gruppo di avanguardia radicale del tempo The Velvet Underground, con Nico, Andy Warhol e, infine, con David Bowie che scoprendo la grandezza di Lou Reed e di Iggy Pop farà di tutto nel momento decisivo per dargli lavoro e coraggio producendogli i dischi per non farli definitivamente precipitare nel tunnel delle droghe pesanti.
D’altra parte il film risente gravemente del vezzo post-moderno del documentarismo antropologico contemporaneo, con questa tendenza a evitare ogni intervento esterno esplicativo del documentarista, lasciando parlare il più liberamente possibile i protagonisti in carne ossa, in questo caso essenzialmente Iggy Pop. Anzi per rendere ancora più veristico il documentario non vi sono domande, ma si lascia libero spazio al flusso di coscienza di Iggy Pop attraverso cui ricostruisce la sua esperienza soggettiva con The Stooges. Tale flusso di coscienza è solo parzialmente interrotto e limitato dai pochi membri della Band ancora in vita e da un coraggioso produttore che gli aveva dato credito.
Mancano del tutto dei critici o degli storici musicali o più in generale culturali che sappiano da una parte far comprendere meglio il fenomeno degli Stooges nelle loro contraddizione, nella loro grandezza e nei loro limiti, dall’altra che sappia meglio contestualizzarli nella storia della musica, della cultura e più in generale in quegli anni così caldi e cruciali per la storia del paese e più in generale del mondo.
Ci si affida ai ricordi soggettivi di un cantante tutto genio e sregolatezza, che per quanto colga degli aspetti significativi di quegli anni non è naturalmente in grado né di una spiegazione sistematica, né di andare veramente a fondo nel corso degli eventi, risalendo alle dinamiche strutturali, sociali e politiche etc. Tanto più che la sua grandezza è certamente nella sua attività di musicista e proprio questa è paradossalmente sacrificata, al punto che le sue performance artistiche e quelle del gruppo fanno da contorno a un’intervista che finisce necessariamente per annoiare e innervosire l’appassionato che si vede costantemente tagliati i pezzi sul più bello.
D’altra parte, Jarmusch che si presenta come cultore e riscopritore di uno dei gruppi più innovatici e radicali, che si serve di un modo di intendere il documentario altrettanto radicale anche se in senso post-moderno, nei fatti finisce con il realizzare un documentario noioso, ma ultra didattico e scontatissimo. Infatti, per cercare di dare un po’ di verve e di interesse al flusso di coscienza di Iggy Pop che spesso rischia di divenire pesante e noioso, non trova di meglio da fare che illustrare immediatamente con le immagini ogni aspetto che emerge dal flusso di coscienza del protagonista. Finendo così per realizzare un documentario, dal punto di vista formale, del tutto banale.