Per accostarsi alle tesi che Zoja esplicita in Centauri è utile accennare ad alcune premesse concettuali che l’autore ha avuto modo di esplicitare in altri libri e nel corso di interviste, a cominciare dall’interesse dello psicoanalista per le forme ambivalenti dell’identità maschile: il maschio padre e il maschio centauro. In premessa, Zoja dichiara di aver fatto tesoro sia della sua pratica professionale sui pazienti maschi in qualità di analista di matrice Junghiana, sia della lettura delle opere dell’antropologa americana Margaret Mead che fu pioniera degli studi di cultura e personalità e poi degli studi di genere, e fra i primi studiosi a sostenere il carattere di costruzioni culturali dei ruoli basato sul sesso Altro più recente riferimento per Zoja è l’antropologa americana Helen Fischer, tra i massimi esperti contemporanei di comportamento sessuale umano e strategie riproduttive e componente del centro per gli studi sull’evoluzione umana del Dipartimento di Antropologia della Rutgers University, la maggiore università pubblica del New Jersey.
Dagli studi di entrambe le studiose emerge che, analizzando a ritroso i livelli zoologici dell’evoluzione alla ricerca di qualità filogeneticamente ereditate e istintive di contro a caratteristiche elaborate culturalmente solo dalla specie umana, appare evidente la continuità fra “naturale” e identità femminile con riferimento alla simbiosi tra la madre e il piccolo. L’elemento materno è istintuale prima che culturale e affonda nella profondità del tempo “zoologico”, essendosi il ruolo materno sviluppato dal momento della comparsa dei mammiferi, circa 250 milioni di anni fa.
Infatti, per usare le parole di Zoja, “nel corso dell’evoluzione i mammiferi specializzano il rapporto madre-figlio e non quello paterno. Qui possiamo iniziare a introdurre l’ambivalenza fondamentale dell’identità maschile, che contrappone il padre al maschio fecondatore: la natura degli animali si è limitata a predisporre nel maschio solo la capacità di fecondare la femmina, non quella di accudire e proteggere la prole”. Come la maggior parte dei mammiferi e delle scimmie, anche i grandi primati più vicini all’uomo come i gorilla o gli scimpanzé non conoscono ancora la funzione paterna e la famiglia nucleare monogamica; infatti la fecondazione e, dunque, il ruolo sociale del maschio, avviene solo per competizione e non attraverso un rapporto stabile fra i due sessi. Fra le scimmie più evolute troviamo un maschio alfa – o comunque in buona posizione nella gerarchia sociale – che si riproduce ed è quindi genitore biologico, ma esso vive in un gruppo con diverse femmine senza avere un rapporto diretto con la sua prole. Solo molto più tardi, due milioni e mezzo di anni fa, con la comparsa della specie Homo si verifica un salto: nelle società umane più semplici della preistoria e nei cosiddetti fossili antropologici – cioè quei gruppi di umani con organizzazioni tribali ancora primitive – ci si imbatte subito nella comparsa del ruolo paterno – sia esso esercitato dal vero padre biologico o dallo “zio materno”, come avviene nelle società ipotizzate matrilineari – vale a dire si incontra un maschio che riconosce la propria discendenza e la protegge.
La funzione paterna è, dunque, un portato recente nell’evoluzione animale e tardivo rispetto alla funzione materna. Zoja segnala come la paternità non sia un semplice atto istintuale, ma un complicato costrutto culturale che porta il maschio a prendersi cura dei figli in maniera intenzionale e consapevole, attraverso una sorta di “adozione”, come sostiene nel suo libro “Il gesto di Ettore” e come stanno ad attestare i vari riti “battesimali” delle varie culture o ancora il diritto romano che imponeva un rituale in cui il padre deve innalzare il figlio verso l’alto, “adottandolo”così davanti alla società.
Secondo gli antropologi evolutivi l’invenzione della famiglia come nucleo monogamico stabile risalirebbe al Paleolitico più recente, probabilmente a 200-100 mila anni fa, ed è in questo lasso di tempo che si è venuta costruendo la funzione paterna. Questa specializzazione monogamica attuata dalla specie Homo avrebbe trascinato con sé lo slittamento dell’aggressività dalla competizione fra maschi per il possesso delle femmine nel branco. alla “conquista dello spazio esterno e del tempo”, concorrendo allo sviluppo di competenze evolute sociali e “civili” e connotando per l’uomo il passaggio dalla zoologia all’antropologia. E, ancora, per Zoja il tratto maschile “non paterno” apparterrebbe allo stadio animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte che l’educazione culturale si sfalda.
L’identità maschile paterna è recente, squisitamente culturale, molto meno definitiva e assai più fragile: va insegnata, ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente. Lo sosteneva già Margaret Mead: non è come l’istinto che non ha bisogno di pedagogia perché è una forza innata, essendo stata selezionata in milioni di anni. Il “maschio paterno” è un addomesticamento precario del “maschile animale”, attraverso un’educazione che è tutta culturale. Al contrario, lungo l’evoluzione, l’identità femminile è relativamente stabile: così quando comincia ad apparire una società non più animale ma umana, nelle femmine biologia e cultura si fondono in un ruolo collaudato, stabile e poco contraddittorio, dove le due polarità della femmina compagna animale e della madre si avvicendano naturalmente in modo armonico. Dunque, il padre civile e il maschio animale sono due polarità recenti, in equilibrio precario l’una sull’altra e alcuni ritengono che uno dei motivi che può avere portato al dominio maschile – attraverso le strutture del Patriarcato che si è sviluppato con pochissime eccezioni in tutte le società umane – è il bisogno di negare questa precarietà e riorganizzarla, dandole l’apparenza di una solida superiorità che esiste da sempre.
Nel mondo postmoderno, con lo sgretolarsi della famiglia e dei suoi valori tradizionali, l’equilibrio si altera: se è la Storia che ci ha consegnato il padre, la Storia se lo può riprendere. Zoja sostiene che “quando la convivenza civile si spacca, sotto la spigolosa crosta del patriarcato occidentale – in cui ci piaccia o no, abbiamo vissuto – non compare il mondo più rotondo della Grande Madre, che antropologia, psicoanalisi e femminismo hanno rivestito di seni nutrienti e condotte affettive: riemerge invece direttamente un maschio animale”.
All’orizzonte della nostra storia di occidentali sta la Grecia: nei suoi statuti democratici, nella sua filosofia e nel suo mito si collocano le radici del nostro pensiero. La famiglia della Grecia antica è già la famiglia patriarcale dell’Occidente. Storicamente possiamo risalire fino ai tempi dei testi di Omero, intorno al 700-850 a.C., ma alle loro spalle non c’è scrittura, e lo sfondo storico si appiattisce e lì c’è solo il Mito, a cui attingere. Nel neolitico e ancora ai tempi dei Greci gli artigli della “bestia” uomo sono ancora vicinissimi e minacciosi. Il maschio senza legge è lì, in un attimo può far crollare le apparenti fortezze dell’esile costrutto civile e della storia. Con ansia l’inconscio collettivo dei Greci registra questo rischio e cerca di esorcizzarlo, sedimentandolo nei racconti mitologici: nella volontà inconscia di allontanarlo da sé lo attribuisce a un “ramo secco della genealogia umana”, cioè a un popolo mitico, quello dei Centauri, metà uomini e metà cavalli: usciti – letteralmente – solo a metà dall’evoluzione che ha trasformato l’animale in uomo. Il Centaurismo raccontato dai miti greci si presta a descrivere gli eccessi e la violenza sessuale agita dal branco dei maschi umani sulle donne negli stupri di massa, un fenomeno che evidentemente impressionava anche i Greci antichi, pur abituati a condotte maschili violente all’interno di una società patriarcale dove la condizione della donna era abissalmente inferiore e la violenza individuale sulle donne veniva agita regolarmente anche dagli Dei olimpici – come ci raccontano altri miti come il ratto di Europa da parte di Zeus o quello di Persefone da parte di Plutone e la storia di Leda e il Cigno.
I Centauri vivevano in Tessaglia, regione boscosa e selvaggia posta a nord della Grecia – dove il mito greco tentava di esiliare in uno spazio ideale quel mondo senza legge ancora vicino nel tempo. Il loro aspetto di mezzi uomini e mezzi cavalli è molto simile a quello dei Gandharva Vedici – tanto che Borges e Guerrero hanno parlato di figura mitologica indoeuropea. Essi si muovono in branchi e sono dominati dagli istinti: sono violenti, irascibili, selvaggi, rozzi e brutali, incapaci di reggere il vino e dediti a comportamenti sessuali licenziosi. Anche la loro origine oltre che la loro identità è confusa: una leggenda li vuole nati dall'amore sacrilego fra il re dei Lapiti, Issione, e una sosia della dea Era, Nefele, dalla cui unione nacque, appunto, Centauro, un essere deforme che si accoppiò con le giumente del Monte Pelio e originò una razza di creature ibride, metà uomini e metà cavalli. La Centauromachia – raffigurata anche sulle metope del Partenone di Atene – fu la più famosa battaglia dei Centauri contro i Lapiti – loro “cugini” umani civilizzati che abitavano la Tessaglia – in occasione della festa nuziale del re Piritoo: invitati alla festa nuziale e non abituati al vino, si ubriacarono, dando sfogo al lato più selvaggio della loro natura. Quando la sposa Ippodamia – colei che doma i cavalli – giunse nella sala per salutare gli ospiti il centauro Euritione balzò su di lei e tentò di stuprarla. In preda a un istinto collettivo, subitamente anche gli altri centauri si lanciarono addosso alle donne e ai fanciulli. Ma i Lapiti reagirono e sconfissero i Centauri, aiutati dall’ “eroe civile” Teseo – amico di Piritoo – fondatore degli Ioni, mitico re riformatore di Atene e padre della patria e della democrazia. Nella contrapposizione fra questi due modelli, Teseo rappresenta il “padre civile”, mentre il Centauro – come il Toro e il Minotauro sconfitti sempre da Teseo – allude al maschio pre-paterno.
Ma un altro mito greco, quello di Ercole, Deianira e del Centauro Nesso, ci offre altri particolari: anche individualmente il Centauro agisce con la cieca frenesia del branco, è capace solo di una sessualità violenta, non conosce Charis né Eros, è distruttore di amore in un doppio senso, perché aggredisce la donna ma porta anche la morte al vincolo che può legare una coppia. Nesso getta in Deianira i semi di una metaviolenza: nascosti nell’anima essi germogliano lentamente e sono forieri solo di distruzione. Il Centauro è irredimibile, esso dorme nell’inconscio collettivo e in assenza di regole e limiti efficaci può tornare a manifestarsi, annullando in un attimo millenni di civiltà.
Ovidio ci narra nelle Metamorfosi (XII 189-209) le conseguenze sulla donna dell’esperienza dello stupro subito: Ceni, bellissima donna che abitava in Tessaglia – la terra dello stupro – era ambita da molti uomini, ma la giovane non aveva fretta. Poseidone un giorno uscì dal mare e le usò violenza. Forse perché un po’ contrito, il dio cercò subito dopo di ridurre a una logica economica la violenza inflitta offrendo a Ceni la possibilità di esprimere un desiderio per essere risarcita. Ed ecco che Ceni esprime il suo desiderio: che non le avvenga mai più una cosa simile! Con una soluzione autodistruttiva che comporta la rinuncia volontaria alla propria femminilità e sessualità chiede: “Fa’ che io non sia mai più una donna”. Ceni allora venne trasformata da Poseidone nel guerriero Ceneo, invincibile e interessato solo alla guerra. Questo mito insieme ai moderni studi sulle vittime di violenza sessuale ci raccontano come la vittima abusata spesso compia contro di sé una seconda inconscia violenza.
Nella ricerca degli antecedenti mitici e storici, biologici e culturali della pulsione allo stupro non tanto come crimine individuale, ma come potenziale di comportamento presente nei maschi, Zoja ritiene che ci si imbatta in fenomeni che appaiono come delle possessioni collettive, agite sulla base della emulazione e che attingono a dinamiche presenti nell’inconscio collettivo rimosso e sopito. Egli parla di “epidemie psichiche”, in cui la sociologia e la psicopatologia dovrebbero studiare lo smarrimento dell’identità maschile che la comparsa dello stupro collettivo segnala, mettendo a rischio l’esistenza stessa della società. In proposito Zoja segnala un limite culturale della nostra epoca, in cui i principali testi di psicopatologia si occupano dei disturbi mentali individuali, perché la psichiatria si è sviluppata dopo l’illuminismo, nella modernità caratterizzata dall’attenzione all’individuo, ai suoi diritti e ai suoi problemi.
Le psicosi collettive oggi sono considerate cose del passato, soprattutto del Medioevo. L’unico testo a dedicare loro un vero capitolo è il trattato di psicopatologia di Karl Jaspers, psichiatra divenuto poi uno dei maggiori filosofi del XX secolo. La ricorrenza storica dello stupro collettivo starebbe a dimostrare l’esistenza di queste epidemie psichiche. Esse si manifestano in circostanze che favoriscono la rinuncia alla responsabilità individuale: abuso di alcol e di droghe; condizioni di povertà economica e culturale, soprattutto nelle periferie urbane del terzo mondo, ma a volte anche in quello ricco; assenza di uno stato di diritto e di forze di polizia e la presenza di una mafia nei paesi sviluppati, come la persistenza di consuetudini proprie dei clan tribali in quelli più poveri.
Certamente il primo fattore aggravante è lo stato di guerra – che sancisce sempre una moratoria degli usi civili di una società – e qui Zoja si diffonde nell’analisi approfondita di episodi di stupro bellico della storia passata e recente. L’ “Olocausto americano” compiuto dai colonizzatori europei ai danni delle popolazioni indigene del centro e sud America si accompagnò allo stupro sistematico delle indigene, asservite come schiave, generandosi per secoli una società di “meticci bastardi” non riconosciuti dai maschi di origine europea e che in una società coloniale ossessionata dalla “limpieza de sangre” poterono solo sentirsi umiliati e privi di autostima e deprivati di ogni diritto.
Fu Francisco Goya a consegnarci la prima grande denuncia di questi crimini di guerra, nella ottantina di incisioni conosciute come “Los Desastres della Guerra” (1810-159), commessi dai soldati napoleonici durante la conquista della Spagna: cinque fra le incisioni più note mostrano senza morbosità, nudità o sesso, ma con grande drammaticità gli eroi napoleonici all’assalto di corpi femminili. Nel XX secolo lo stupro di guerra, essendo comunque insopprimibile, viene incardinato fra le metodologie militari di “sfondamento del fronte interno” e di politica genocidaria. Dopo gli orrori dei lager nazisti, l’epilogo del secondo conflitto mondiale vede l’Armata Rossa mettere in atto la più vasta migrazione forzata di tutti i tempi: circa 15 milioni di tedeschi vengono risospinti verso Ovest e i soldati si abbandonano a stupri e violenze selvagge sulla gran parte della popolazione femminile. Fuori dell’Occidente in tutti gli ultimi decenni la violenza sessuale come accompagnamento di una strategia militare è stata praticata, anche quando non è stata programmata, in Vietnam, nella guerra di indipendenza del Bangladesh, in Cambogia, nei conflitti civili della Colombia e del Perù, nel genocidio del Ruanda. Delle decine di migliaia di crimini documentati di violenza sessuale commessi durante la guerra nei Balcani meno di 40 sono finiti di fronte ai giudici del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia o dei tribunali nazionali bosniaci e a quasi 17 anni dagli accordi di Dayton, che hanno posto fine al conflitto balcanico centinaia di donne della Bosnia ed Erzegovina continuano a convivere con le conseguenze dello stupro e della tortura.
Storia recentissima di stupro di guerra, nel 2014, è stata quella delle 223 studentesse di una scuola di Chibok, in Nigeria, sequestrate dai miliziani islamisti di Boko Haram e che hanno mobilitato l’Occidente sui social con l’hashtag #bringbackourgirls.
Riferimenti
Luigi Zoja, sociologo e decano degli psicoanalisti junghiani italiani - “Centauri. Alle radici della violenza maschile” edito da Bollati Boringhieri (2016)