Hugo Chávez, così è cominciata

Come è nato il cosiddetto chavismo? Questo piccolo libro edito da PGreco, Milano 2019 ne ricostruisce le basi.


Hugo Chávez, così è cominciata

In questo momento critico e di ebollizione in America Latina mi sembra quanto mai opportuno un libro in cui si raccolgono alcuni documenti, che ci fanno conoscere come è sorto in Venezuela il chavismo, quali sono le sue basi e i suoi programmi politici. Gli autori sono lo stesso Chávez e i suoi collaboratori e seguaci (Rangel, Duno, Vadell) con lettere, interviste, discorsi.

Penso che non si possa comprendere il chavismo se non si fa riferimento al ruolo che le forze armate hanno avuto sempre in America Latina e in particolare a partire dal 900, quando non sono mai state impegnate in guerre significative contro nemici esterni. Sicuramente ciò si deve al contributo che gli eserciti, diretti dalle élite creole, hanno dato al raggiungimento dell’indipendenza con l’aiuto dell’Inghilterra da parte dell’America Latina, che avrebbe dovuto costituire un unico paese, secondo la volontà di Simón Bolívar, governata dal codice boliviano ispirato a quello napoleonico. L’unificazione non si è realizzata anche per le lotte intestine, ma costituisce ancora oggi un obiettivo politico, che va sotto il nome di Patria grande, contrapposta per la sua peculiarità culturale, religiosa, politica all’America anglosassone.

Tuttavia, come è noto, benché si siano sempre ritenute le guardiane della sicurezza e dell’identità nazionali, in America Latina le forze armate non hanno giocato sempre nella stessa prospettiva: vi sono stati eserciti che hanno dato vita a brutali dittature militari, sostenute in funzione anticomunista dagli USA, ed eserciti che hanno sostenuto governi di tutt’altro segno, come quello di Velasco Alvarado in Perù, che attuò significative nazionalizzazioni, e di Torrijos a Panama, che cercò di mettere sotto la sua giurisdizione l’omonimo canale (siamo negli anni ‘70). A differenza dei primi, preoccupati di distruggere il nemico interno annichilendolo (come si fece in Cile, Brasile, Argentina), questi ultimi si preoccuparono di affrontare, non in maniera conseguente, i problemi strutturali della società latinoamericana: la povertà generalizzata, l’informalità, l’esclusione sociale (questioni ancora attuali come mostrano le proteste di questi giorni in molti paesi, e che sono certamente scaturite dalla dipendenza economica e finanziaria di quella regione dal capitale internazionale). Proteste ferocemente represse, cosa non certo sottolineata dai nostri media [1]. D’altra parte, dopo la fuga di Batista, la Rivoluzione cubana non avrebbe potuto avanzare se non fosse stata sostenuta dall’Esercito rebelde, la cui presenza e forza ne favorirono la radicalizzazione.

Come scrive Geraldina Colotti nelle Note per il lettore che si appresta a leggere questo piccolo ma interessante libro, il movimento chavista si è costituito sotto l’influenza del Partito comunista del Venezuela, con il suo particolare simbolo del gallo rosso, del Partito della Rivoluzione Venezuelana, del Movimento della Sinistra rivoluzionaria e del Partito Bandiera rossa di matrice stalinista, che tuttavia ha partecipato alle manifestazioni contro il governo di N. Maduro nel 2014 e nel 2017.

La Rivoluzione bolivariana nasce dalle analisi sviluppate dal PCV sulla situazione politico-economica del Venezuela, dalle quali si ricava, come già aveva sottolineato José Carlos Mariátegui, la volontà di coniugare i metodi e gli obiettivi del marxismo con la specificità della realtà latino-americana. Quest’ultima si esprime in tre figure: quella di Simón Bolívar, al cui progetto si è già fatto cenno, quella di Ezequiel Zamora, altro militare noto per aver sconfitto l’esercito conservatore nel 1859 in una famosa battaglia, ed infine quella di Simón Rodríguez o Robinson, antispagnolo, uomo di grandi esperienze internazionali, che fu anche il precettore di Bolívar.

Nella presentazione il fratello del dirigente bolivariano, prematuramente scomparso, Adán Chávez ricorda che fu lui ad avvicinare Hugo al PRV che intendeva ribaltare le condizioni socio-economiche del paese, prostrato dalla corruzione della classe dirigente e dalla sua subordinazione agli interessi statunitensi, e a spingerlo a dar vita ad “un’unione civico-militare” per la presa del potere. Disegno che si stava delineando tra i militari progressisti venezuelani attratti dal Movimento rivoluzionario bolivariano-200, fondato formalmente da Hugo nel 1983, espressione che evoca il fatto che 200 anni prima era nato Bolívar. Le parole d’ordine del movimento, riprese da Zamora, erano e sono: “Terra e uomini liberi, Scelta popolare, Rifiuto dell’oligarchia”. Secondo Adán fu determinante l’incontro con Douglas Bravo, che a quel tempo dirigeva il PRV, per progettare l’azione rivoluzionaria del 4 febbraio 1992, conclusasi in una sconfitta e con la prigionia del fratello minore nel carcere di Yare, dove Hugo continuò a riflettere e a scrivere sulla trasformazione del Venezuela. Paese che avrebbe dovuto caratterizzarsi per l’aumento delle sue capacità produttive collegato al miglioramento del tenore di vita della popolazione, nel quadro della fratellanza di tutti quei popoli, che si trovano a sud del Rio Grande.

Andando ai testi presentati nel libro, si ricava – da un’intervista del 1992 – che Chávez non aveva in mente una politica riformistica, ma strutturale, la quale si concreta nel Progetto Nazionale S. Bolívar, che enfatizza la specificità dell’America Latina ed osteggia la visione politica neoliberale basata su una falsa democrazia dominante tuttora, anzi in revival. Come risulta dalle inchieste tale Progetto era condiviso dal 90% degli ufficiali giovani e di grado medio, disgustati dalla corruzione amministrativa, dal clientelismo, dal voto di scambio praticati dall’Alto Comando venezuelano. A queste legittime richieste il governo, capeggiato da Carlos Andrés Pérez, aveva risposto con una spietata repressione e assoldato anche militari. Dette vita così a formazioni paramilitari, tratto specifico dei paesi latino-americani, dove spesso lo Stato non è in grado di esercitare il monopolio della violenza e quindi ricorre a vari espedienti, che spesso non è in grado poi di controllare (si veda il caso del Messico).

Nel Progetto di dichiarazione programmatica del MBR-200 Chávez comincia col porsi il problema dell’esercizio del potere, che a suo parere deve restare nelle mani del popolo, al quale spetta il ruolo di forza dirigente. Per garantire il protagonismo popolare ritiene sia opportuno costituire consigli che vadano da quello di quartiere a quello nazionale di governo. I primi saranno creati dalle stesse masse organizzate, i secondi, invece, saranno votati da assemblee elettive, i cui membri non saranno permanenti e non riceveranno uno stipendio. In caso di gravi crisi spetterà all’unione dei civili e dei militari la difesa del paese. È questa la struttura di uno Stato popolare, a democrazia diretta, in cui anche i più alti vertici sono sotto il controllo della base, con il quale si intende sostituire la democrazia oligarchica che ha determinato l’incremento della povertà e le fortissime differenze nella redistribuzione della ricchezza.

Gli obiettivi del nuovo Stato, già indicati in precedenza, saranno possibili accelerando l’industrializzazione del paese, in particolare creando una vera industria petrolchimica, che farebbe superare la cosiddetta economia rentista, basata sul petrolio, purtroppo ancora in vigore anche per difficoltà prodotte dall’esterno. Il Venezuela si sarebbe dovuto trasformare da paese mono-esportatore a paese pluri-esportatore, che avrebbe prodotto al suo interno le risorse necessarie al suo sostentamento e sviluppo, e che si sarebbe dovuto dotare di una manodopera qualificata.

Questo processo di cambiamento si doveva realizzare con la partecipazione del capitale privato, dato che il nuovo Stato prevede e prevedeva la persistenza della borghesia locale. A parere di Chávez, forse troppo fiducioso, quest’ultima non avrebbe generato problemi, a differenza del capitale straniero, di cui tuttavia il Venezuela non può fare a meno, dato che le imprese estere accedono a molti mercati ed hanno creato brevetti di grande utilità. In questa prospettiva, il governo venezuelano ha stabilito rapporti con imprese miste cinesi e russe (come per esempio la russa Rosneft e la cinese Sinovensa), in collaborazione con PDVSA, in base ai quali si realizza uno scambio tra il crudo e la prestazione di servizi da parte dei partner stranieri. Inoltre, queste imprese straniere hanno apportato tecnologia e competenze nel processo di raffinazione del petrolio. Tuttavia, le sanzioni statunitensi creano problemi ai russi e ai cinesi, perché, dovendo pagare i loro fornitori in dollari, debbono lottare con le banche internazionali che pongono ostacoli a tutto ciò che ha a che fare con la produzione e la vendita del petrolio venezuelano. Ovviamente queste presenze costituiscono per gli Stati Uniti una forma di ingerenza in una regione che considerano di sua esclusiva proprietà, soprattutto dopo che il fallimento delle varie guerre orientali e mediorientali ha spinto questo prepotente paese a volgersi un’altra volta verso l’America Latina.

Sempre secondo lo statista venezuelano lo Stato si sarebbe dovuto limitare a gestire le industrie di base, lasciando in piedi un settore manifatturiero privato, la cui produzione sarebbe stata diretta al mercato interno. Un aspetto importante doveva essere rappresentato dalla rigorosa distribuzione del reddito tra la popolazione e dall’azione delle assemblee popolari per contrastare forme di burocratizzazione, tendenze contro cui hanno sempre lottato i regimi di carattere popolare. Tenuto conto del quadro internazionale, che vede un “mondo tripartito a livello economico, unipolare a livello militare” (ma forse le cose in questo ambito stanno cambiando), tali cambiamenti avrebbero dovuto svilupparsi in un contesto favorevole caratterizzato dal rafforzamento della “fratellanza latino-americana” (pp. 75-81). Previsione, che è venuta meno, per gli attacchi riusciti con appoggi interni ed esterni contro i governi affini politicamente al Venezuela, ma probabilmente anche per la mancanza di una più decisa politica di nazionalizzazioni, richiesta dal PCV, che forse non si era in grado di fare. Questa lacuna ha alimentato la gravissima contraddizione tra le forze progressiste e quelle reazionarie, sostenute dall’esterno, che ancora lacera e impoverisce il paese, ora più isolato dopo i cambiamenti politici avvenuti nell’ordine in Brasile, Argentina, Ecuador e Bolivia.

Nel libro sono anche indicati gli elementi più problematici della Rivoluzione Bolivariana, cui prima ho accennato; vi faccio cenno, benché non intendo sostenere che le sue difficoltà derivino solo da questi, convinta che esse siano state ampliate dal dichiarato sabotaggio imperialista, la cui prima significativa espressione sta nel decreto esecutivo di Obama del 2015, in cui senza nessun fondamento realistico il Venezuela è accusato di costituire una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti.

Questi elementi problematici sono indicati da Manuel Vadell, seguace di Chávez sin dagli inizi, editore di testi di analisi politica e rivoluzionaria, in un’intervista del 2012. In particolare, ci sembra interessante il continuo riferimento alla necessità dell’espansione, nella nuova società, dell’etica socialista, fondata sull’alternativa al consumismo capitalistico, che spinge i lavoratori a tenere conto solo del livello dei salari. Questa forma di comportamento, basata sul parossismo consumistico, ha esercitato anche una forte attrazione sulle popolazioni dell’est Europa, le quali non reagirono quasi allo smantellamento dei loro sistemi politici, il cui risultato è stato la perdita di molti diritti sociali, l’impoverimento e la disoccupazione.

Altro punto dolente è rappresentato dal funzionamento delle Comunas, aggregazione di consigli comunali, varate dal secondo governo Chávez, fondamento del potere popolare e che dovrebbero contribuire alla creazione di uno Stato socialista. Secondo Vadell, editore rivoluzionario, le Comunas, che segnano un avanzamento verso il socialismo, non sono definite in maniera adeguata dalla Costituzione del 1999 e secondo alcuni esse si sovrappongono alle precedenti istituzioni, a cui erano già stati trasferiti alcuni servizi per la collettività. La loro istituzione derivò dalla volontà di superare la democrazia rappresentativa e partecipativa prevista dalla Costituzione per costruire un Estado comunal immaginato dal pensatore Kléber Ramírez Rojas (1937-1998), la cui riflessione fornì significativi elementi teorici alla Rivoluzione bolivariana. La loro struttura e le loro funzioni si basano sulla volontà di dar impulso al protagonismo popolare, che si deve concretare nella pianificazione e nella gestione della politica economica, nell’esercizio dell’autogoverno e dell’autorganizzazione implementato dalla decentralizzazione, nell’amministrazione della giustizia a salvaguardia di una pacifica convivenza all’interno dell’area di competenza della Comuna caratterizzata anche dalla condivisione di tradizioni e usanze. Come si vede, le Comunas non sono puri enti economici ed amministrativi, ma dovrebbero costituire delle comunità, i cui membri sono legati anche da forti vincoli culturali e morali.

Altri temi trattati da Vadell sono le difficoltà del PSUV, cui nel 2007 non volle aderire il PCV, che ha il difetto di mettersi in movimento solo nelle fasi pre-elettorali e che non si caratterizza per un significativo dibattito interno, e il tema della corruzione. L’editore chiavista ha denunciato più volte la necessità di epurare tutti quei funzionari pubblici, che si sono avvantaggiati economicamente grazie alla loro posizione e che non hanno alcun interesse alla costruzione del socialismo. L’eliminazione di tali personaggi va di pari passo con il controllo esercitato dal potere popolare, il quale non può che fondarsi su individui preparati da un punto di vista ideologico e questa preparazione implica una cultura di ampio respiro, non solo politica, ma anche letteraria, teatrale, musicale.

Come si vede, Vadell è perfettamente consapevole – come lo era Fidel – che costruire il socialismo è una questione complessa e non si limita alla trasformazione della sfera economica, ma implica anche l’acquisizione di una profonda sensibilità culturale ed etica. A queste riflessioni sul socialismo Fidel aggiungeva anche che bisognava procedere per esperimenti, tenendo conto del contesto storico, giacché nessuno aveva ed ha la ricetta preconfezionata di questa nuova forma di società.

Importante è sottolineare questa capacità di analizzare criticamente i risultati del processo bolivariano, perché essa mostra la lucidità dei suoi dirigenti, ai quali va riconosciuto il coraggio, la coerenza e la costanza nel perseguire i loro obiettivi in una situazione come quella latinoamericana che si fa sempre più grave. Trovo questa lucidità in un’analisi sviluppata da Chávez, che risale al 1993, nella quale respinge l’idea della “convergenza delle volontà di tutti i settori nazionali”, avanzata da un numero consistente di accademici, dato che questa gli sembra impraticabile. Infatti, la classe dominante, non rappresentata esclusivamente dai politici veri e propri, non è certo disposta a lasciare spazio alle forze trasformatrici, né a rinunciare all’impiego della violenza per ostacolarne l’avanzata. Lo statista venezuelano respinge l’idea di essere divenuto un mito, dal momento che – come scrive – il sostegno che ha ricevuto dalle classi popolari venezuelane è fondato su basi razionali e sulla convinzione che una profonda trasformazione sociale è necessaria per dare una risposta concreta alle loro domande.

Note
[1] I quali, attraverso la voce affranta di Giovanna Botteri, preferiscono occuparsi delle manifestazioni di Hong Kong.

08/12/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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