Estate di morte

Una serie che – pur riuscendo a innestare in un, a tratti, intrigante thriller tematiche sostanziali come l’antisemitismo e il maschilismo – non riesce né a garantire un adeguato godimento estetico, né a offrire sufficientemente da riflettere allo spettatore


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Estate di morte, serie creata da Harlan Coben, prima stagione, 6 episodi, Polonia 2020, Netflix, voto 5,5; per essere un giallo-thriller la serie parte in sordina e con il freno a mano tirato. Abbiamo un procuratore impegnato nella soluzione di un caso di presunto stupro, da poco vedovo, che ricorda i tragici eventi di 25 anni prima, che hanno segnato la fine dell’innocenza. Il futuro procuratore, allora guardiano di un campo estivo, non riesce a separare il lavoro dalla vacanza e finisce così per non essere in grado di prevenire l’assassinio di due giovani e la sparizione di un altro giovane con la sorella. Tragici eventi che portano alla separazione della madre dal figlio. Solo 25 anni dopo, il protagonista viene convocato da poliziotti impegnati nella soluzione di un misterioso omicidio, in quanto l’assassinato viene trovato con materiale di archivio che rinvia al procuratore. Quest’ultimo finisce per riconoscere nel morto il giovane scomparso 25 anni prima con la sorella e questo lo porta a sperare che sia ancora viva. D’altra parte la cattiva coscienza che il protagonista sembra avere rispetto ai fatti del 1994 e che vorrebbe dimenticare, è al contempo stimolata dalla minaccia di un reporter di successo di indagare sul suo passato, dal momento che il procuratore non acconsente di archiviare il caso del figlio accusato di stupro. Quest’ultimo caso è trattato, come d’abitudine, come sospetto in quanto la vittima appare una ragazza di facili costumi. D’altra parte il tentativo di corruzione da parte del padre di uno dei due accusati, porta il procuratore a convincersi della necessità di portare fino in fondo l’indagine.

Nel secondo episodio, pur aggiungendosi motivi di interesse, egualmente la serie non decolla, sebbene i misteri si infittiscano. Tra i contenuti sostanziali che emergono vi è, innanzitutto, lo spaventoso antisemitismo ancora ben radicato in Polonia, che sembra attendere solo la prima occasione favorevole per manifestarsi. Significativo è anche il modo in cui viene considerato lo stupro, che denuncia il livello anch’esso allarmante di misoginia presente nella società polacca. Al punto che vengono fatte pesanti pressioni sul protagonista, procuratore distrettuale, che dà l’impressione di volersi rovinare la carriera continuando a portare avanti un’accusa di stupro, denunciata da una giovane ragazza povera e poco istruita nei confronti di due giovanotti figli di uomini potenti e influenti. Al punto che persino la collega del procuratore gli domanda se tale “accanimento” sia legato a presunti rapporti sessuali che avrebbe con la ragazza che ha sporto denuncia. Altrettanto significativo è il fatto che lo stesso procuratore debba difendere la ragazza che denuncia la violenza carnale, sostenendo che non ha provocato i ragazzi accusati di questo grave crimine. Infine, per scagionare i giovani, un superiore adduce come prova un fotogramma di un video dove si vedrebbe che la ragazza aveva un tatuaggio sui glutei. Tanto che la ragazza è costretta a giustificarsi, mentre il procuratore gli intima di confessare tutto, in quanto la presenza del tatuaggio rischia di impedire che l’accusa di stupro possa essere ritenuta credibile. Nel frattempo la protagonista femminile, sebbene venga a sapere che una sua studentessa è stata ripetutamente stuprata dal fratello, non sembra nemmeno indignarsi e tanto meno si interessa del fatto che tale violenza carnale non sia stata denunciata dalla giovane.

Nel terzo episodio i misteri che contornano la vicenda si infittiscono e la serie diviene finalmente intrigante. Anche perché le tematiche sostanziali, che evidenziano una netta critica alla attuale società polacca egemonizzata dalla destra radicale, assumono rilievo e centralità. Da una parte emerge sempre più evidente l’antisemitismo che nella società polacca appare ancora ampiamente diffuso, considerato che offre la possibilità di additare un facile capro espiatorio che, per altro, impedisce di affrontare e provare a risolvere le contraddizioni profonde apertesi nella società a partire proprio dagli anni novanta con il compimento della transizione al capitalismo. Al punto che vediamo famiglie polacche disinteressarsi dell’omicidio del proprio stesso figlio, dal momento che il loro relativo benessere deriva proprio della persecuzione del capro espiatorio ebraico. Acquista anche rilievo il dramma del patriarcato, del sessismo e del maschilismo della cattolica società polacca in cui il procuratore che indaga sullo stupro di una giovane donna – bollata dalla società come di facili costumi, a opera di due rampolli della classe dominante – viene pesantemente attaccato dalla stampa populista, portando il povero protagonista della serie (che non ritiene in nessun caso giustificabile lo stupro come un semplice errore di gioventù) a subire le rimostranze del proprio stesso dirigente.

Il quarto episodio abbandona di fatto le questioni sostanziali e si concentra interamente sulle vicende del giallo-thriller il quale, peraltro, diviene sempre più complicato, quasi si trattasse di un hard-boiled. In tal modo, la possibilità di orientarsi per lo spettatore, in questo intrigo sempre più complesso, diviene nei fatti quasi impossibile. Il che, necessariamente, fa perdere nuovamente interesse alle vicende narrate, in quanto sembra che non resti da attendere che venga “rivelato” il bandolo della matassa necessario per uscire da questo labirinto.

Negli ultimi due episodi cresce finalmente il ritmo e la suspense, in quanto alcuni nodi vengono finalmente al pettine e sono in parte sciolti, anche se in realtà molte questioni restano avvolte nel mistero, a favore di una prevista seconda serie. Le soluzioni proposte sono al quanto insoddisfacenti. Il delitto al centro della vicenda viene infine risolto, ma in modo decisamente scorretto. La dinamica molto poco verosimile risulta essere opera principalmente di uno psicopatico, che appare incarnare un improbabile male assoluto, quasi metafisico. Anche le soluzioni individuate per cercare di mettere in salvo, da una possibile, ma non probabile, imputazione la sorella del protagonista finiscono con il rivelarsi decisamente peggiori del possibile male, con la condanna a vita in un monastero di suore della giovanissima ragazza. Anche i delitti compiuti in modo poco verosimile dal preside ebreo del campo estivo, se non giustificano naturalmente l’antisemitismo nei suoi confronti, non lo fanno più apparire come un capro espiatorio. Inoltre, tutte le nefandezze compiute dai genitori per coprire i figli, talvolta colpevoli di delitti anche pesanti, finiscono per essere giustificate, sulla base dell’inaccettabile massima del senso comune, per cui “cosa non si farebbe pur di soccorrere i propri figli”. Infine, anche le questioni sostanziali, in parte emerse nella puntata precedente, finiscono sostanzialmente in secondo piano. L’unico aspetto di carattere universale presente negli ultimi due episodi sono i metodi utilizzati dalla polizia inquirente interessata esclusivamente a chiudere il prima possibile il caso, scaricando tutte le responsabilità su di un colpevole o presunto tale. Anzi il commissario buono appare quello interessato almeno a individuare il reale colpevole, pur disinteressandosi completamente del contesto generale in cui solo acquistano veramente senso i fatti delle azioni delittuose. Il commissario “normale” è, invece, quello interessato a chiudere il caso ancora prima, arrestando – senza farsi troppe domande – il sospettato più verosimile, in tal modo facendo il gioco dei criminali che tentano di sviare l’attenzione da loro lasciando indizi elaborati appositamente per depistare le indagini. Abbiamo, infine, il poliziotto cattivo che non esita a usare le maniere forti per costringere a confessare un verosimile indiziato, sebbene sia convinto che non sia lui il reale colpevole dei delitti che è stato incaricato di perseguire.

06/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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