Classifica dei film e delle serie italiane del 2021

Recensioni di classe alle migliori alle più deludenti e sopravvalutate serie televisive e film italiani usciti in prima visione.


Classifica dei film e delle serie italiane del 2021

Strappare lungo i bordi serie tv di Zerocalcare 1x6, distribuita da Netflix, voto: 8; Zerocalcare ha l’indubbio merito di far conoscere al grande pubblico un mondo destinato altrimenti a rimanere marginale, come quello dei centri sociali e della sinistra antagonista. Da qui il polverone alzato contro la serie da parte delle classi dominanti che, al solito, temono che in tal modo si possano mettere in discussione i loro sempre più assurdi, irrazionali e ingiusti privilegi. Gli episodi hanno un ottimo ritmo, sono a tratti davvero esilaranti, colgono in modo realistico aspetti della vita apparentemente accidentali, assicurando un non trascurabile godimento estetico allo spettatore. Dall’altra parte non gli lasciano poi così tanto su cui riflettere e questo spiega anche il successo della serie. Certo, evidentemente, per uscire dal ghetto devi scendere a compromessi, ma resta sempre la questione sino a che punto il gioco possa valere la candela. D’altra parte vi è anche il dato di fatto non trascurabile che i settori della sinistra antagonista che, in qualche modo, Zerocalcare rappresenta appaiono decisamente radicali nelle forme, ma hanno contenuti fondamentalmente socialdemocratici. Si tratta di una attitudine, peraltro, tipica della sinistra piccolo borghese, perlomeno dai tempi di Mazzini. Da questo punto di vista, non avendo di per sé poi così tanto di sostanziale da comunicare, i compromessi che ha necessariamente dovuto subire possono sembrare, tutto sommato, accettabili.

La serie prosegue oscillando fra il rischio di scadere, un po’ nel volgare, nel minimal qualunquismo e l’affrontare, in modo fenomenico, problemi e drammi sociali reali e sostanziali come il precariato. Ma anche in tal caso senza una prospettiva, nemmeno utopica, di superamento, se non la miserrima angusta ambizione del piccolo borghese.

Il penultimo episodio tende a svanire come un intermezzo comico, come un divertissement, prima della grande tragedia finale. Con quest’ultima la serie raggiunge il suo apice e sfiora la grande tragedia contemporanea della precarietà. Problematica sociale che resta, in definitiva, lo sfondo tragico dell’intera serie, che affronta la questione fino al gran finale nei toni di una commedia che riesce a essere nello stesso tempo sofisticata e vernacolare.

SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, serie televisiva documentaristica realizzata da Netflix, voto: 7,5; il documentario cerca di essere, a ragione, equilibrato e dialettico e, cosa importante, cerca di inserire la questione di San Patrignano in un quadro generale di più ampio respiro, visto che è sempre il tutto a dare il senso alla parte. Emerge così che con la crisi dei movimenti sociali e l’inizio del riflusso spariscono improvvisamente le sgangherate macchine degli hippy che spacciavano marjuana importata dall’Olanda, sostituiti da strani personaggi con l’alfetta e i capelli corti che – con la scusa di offrire l’erba scomparsa dal mercato – cominciano a distribuire gratuitamente l’eroina ai potenziali consumatori. Quest’ultima presto si diffonde, potenziata dall’industria culturale che esalta i divi del rock che ne fanno uso e dallo Stato che non fa assolutamente nulla per arrestarne lo spaccio, né si preoccupa di curarne le vittime. Queste ultime finiscono per gravare completamente sulle famiglie e la società che, esasperate, finiscono con l’accettare la loro reclusione gratuita nella comunità di San Patrignano. Qui un carismatico pseudo santone, sfrutta il lavoro gratuito dei reclusi, criticando aspramente i mezzi di trattamento scientifici messi a disposizione dalle strutture pubbliche, carenti e spesso poco interessate ad assumersi il carico e le responsabilità dei tossicodipendenti. 

Il documentario riesce a non essere noioso, cosa decisamente complicata per una serie documentaria. D’altra parte rischia di essere un po’ troppo schiacciato sull’opinione pubblica che tendeva a esaltare il privato che pretende di sostituirsi allo Stato, usando metodi autoritari, paternalisti, ritenendo di essere al di sopra della legge. In effetti fra gli intervistati abbiamo molti personaggi del clan di Muccioli o sui congiunti o giornalisti apologeti, con la parziale eccezione del cronista dell’“Unità” del tempo e del sindaco del Pci del piccolo comune in cui era sorta la comunità. In effetti, spaventa vedere un’opinione pubblica (già negli anni ottanta) anestetizzata da molti dei pregiudizi tipici degli attuali elettori di Trump o Bolsonaro. Allo stesso modo non può non stupire il constatare come, già allora, i grandi mezzi di comunicazione erano schierati, unilateralmente, sulle posizioni della destra populista. Colpisce, inoltre, come un personaggio senza nessuna qualifica professionale e con un passato da truffatore da quattro soldi, sia potuto divenire una figura centrale a livello nazionale, a ulteriore dimostrazione di quanto possano essere stati terribili gli anni ottanta. Infine, non può che stupire quanto bisogno di socialità ci sia in una società individualista, egoista e asociale come la liberale, tanto da rilanciare forme decisamente premoderne e reazionarie di comunitarismo.

Fortunatamente, con il terzo episodio, dopo aver descritto l’ascesa di Muccioli fino a divenire l’italiano più stimato dall’opinione pubblica, comincia a poco a poco a emergere il lato oscuro di San Patrignano che – sino a quel momento – poteva intuire solo lo spettatore già provvisto di un giudizio critico autonomo in materia. Fino a metà del terzo episodio il documentario ha un andamento piuttosto naturalistico, che non lascia emergere le contraddizioni e che può essere utile solo per chi ha già una salda convinzione critica sull’argomento, mentre per il pubblico medio finisce per riproporre, grosso modo, la visione in fin dei conti apologetica costruita dall’industria dello spettacolo. Significativa la svolta, anche perché gli aspetti estremamente negativi del personaggio e del sistema di oppressione che aveva costruito emergono proprio quando l’enorme successo gli dà alla testa e lo porta a comportamenti sempre più deprecabili da superuomo nietzschiano. Veniamo così a sapere che vi è un uso sistematico della violenza, della rigida separazione dei sessi, del controllo, della delazione e dell’umiliazione di qualsiasi voce critica. Peraltro vi è un sistema di censura e di coercizione spaventoso coperto dalla società capitalista che vuole rinchiudere in questo vero e proprio lager i tossicodipendenti per non averli più sotto gli occhi. Senza contare che i malcapitati sono sempre più sfruttati, sulla base del principio scritto non a caso sulle porte dei campi di concentramento: il lavoro rende liberi.

Più il documentario va avanti e più vi è uno sviluppo dialettico, in quanto Muccioli più acquista potere e più tende a gestire la comunità come un sostanziale campo d’internamento. Così, per quanto fosse popolarissimo, con enormi agganci politici, istituzionali e con la vergognosa copertura massmediatica delle sue malefatte, queste ultime finiscono per superare il limite della decenza, costringendo la magistratura a intervenire. Così, a poco a poco, anche gli ex tossici del “cerchio magico” di Muccioli iniziano a non coprirne più – sistematicamente – le malefatte, cominciano ad apparire i distinguo e, anzi, qualcuno finisce con il rifarsi sul padre padrone per le ingiustizie subite, vuotando il sacco. Al solito gli unici che nel modo più svergognato continuano a difenderlo a spada tratta sono gli imprenditori, che da sempre lo hanno sostenuto, e un certo numero di fedelissimi giornalisti. Mentre finalmente i giovani reclusi sfruttano la prima occasione valida per abbandonare la comunità, invece di ammassarsi ai suoi cancelli con la preghiera di essere accolti. Particolarmente spaventosa è la gestione dell’Aids. Tutti i membri della comunità vengono sottoposti a controlli senza essere avvisati di cosa si trattasse e Muccioli, dopo essersi reso conto che due terzi degli internati nella comunità erano sieropositivi, non solo nasconde l’allarmante dato, ma impiega anni prima di rivelare, nel modo più cinico, la tragica verità ai diretti interessati, senza curarsi di quanto possano aver, in modo del tutto inconsapevole, nel frattempo diffuso il virus. Senza contare che Muccioli sfrutta la sua comunità per testare anche i più ciarlatani esperimenti per guarire i malati di Aids. Resta infine particolarmente misterioso come possa essersi diffuso in un modo così ampio l’Aids in una comunità dove era proibito qualsiasi contatto fra i due sessi e si usavano i metodi più coercitivi per impedire ai giovani reclusi di uscire e fare ancora uso di sostanze stupefacenti a rischio. Peraltro si accenna appena a delitti a sfondo sessuale e omosessuale, senza mai affrontare direttamente tale tematica. Infine emerge che proprio Muccioli è stato il principale artefice della legge che criminalizza chi faceva uso di sostanze stupefacenti, anche leggere come la cannabis, con il risultato di riempire le carceri di tossici, ai quali era data l’opportunità di scontare la pena in comunità come quella di San Patrignano. Si trattava di comunità nelle quali, sostanzialmente, tutto era permesso a chi le dirigeva, come in un sistema totalitario in miniatura, in quanto lo stesso Stato si lavava le mani del problema e lo occultava, scaricandone i costi, che naturalmente ricadevano sui reclusi in comunità sempre più sfruttati. Mentre i finanziamenti a Muccioli raggiungevano cifre strepitose, che il losco figuro utilizzava per comprare i più cari cavalli o cani d’Europa, naturalmente evadendo le tasse ed esportando all’estero, senza dichiararle, ingenti quantità di denaro.

Nell’ultimo episodio emerge come la gestione di Muccioli era divenuta talmente insopportabile che non solo molti reclusi si convincono a denunciare le sevizie subite, ma diversi esponenti del suo stesso “cerchio magico” lo accusano. Tuttavia, è tale la capacità di mobilitazione popolare del populismo di destra, fomentata dai mezzi dei comunicazione di massa, che alla fine i giudici si vedono costretti a far cadere l’accusa di omicidio e a lasciare in piedi soltanto quella di aver concorso all’occultamento di esso, per cui Muccioli è condannato a una pena detentiva ridotta, che non sconta in carcere, ma agli arresti domiciliari. Stessa sorte tocca al macellaio della squadra punitiva, che sebbene venga riconosciuto colpevole di omicidio ha la possibilità di scontare la pena ai domiciliari. A questo punto la stessa condanna di Muccioli è occultata dai mezzi di comunicazione di massa che insistono, quasi esclusivamente, sull’assoluzione dall’accusa di omicidio. Tanto più che, nel frattempo, con il primo governo Berlusconi, Moratti diviene presidente della Rai. In tal modo, senza nemmeno bisogno di pressioni dirette, la maggioranza dei giornalisti si adeguano al nuovo clima, continuando a realizzare servizi tesi all’apologia di San Patrignano. Così, sebbene quasi certamente, Muccioli si ammali di Aids – anche a causa della sua probabile omosessualità nascosta – tutto ciò viene completamente occultato, per non infangare una figura divenuta vessillo delle legge e dell’ordine. Muccioli sparisce dalla scena, senza giustificare la sua assenza nemmeno al cerchio magico. Così anche i suoi più stretti collaboratori sono convocati solo dopo la sua morte e si impedisce durante la cerimonia funebre ogni foto o ripresa della salma. Riemergono così i sospetti che ci sia qualche cosa che non torni nel numero enormemente elevato di reclusi nella comunità colpiti dall’Aids, tanto è vero che tale scoperta è stata per anni occultata anche ai più stretti collaboratori. D’altra parte è talmente potente “l’eroe di carta” costruito dall’ideologia dominante che gli stessi autori del documentario sono decisamente portati ad autocensurarsi, tanto che l’impressione che si ha alla fine è che sia stato soltanto appena sollevato il coperchio che cela le nefandezze della comunità, da cui esce un fetore talmente insopportabile, da spingere a richiuderlo al più presto, piuttosto che scoperchiarlo. D’altra parte i rapporti di forza attuali fra le classi rendono sempre più difficile realizzare documentari di denuncia come questo, che mettono radicalmente in questione l’ideologia dominante e la sua narrazione accomodante della storia.

1938 – Diversi di Giorgio Treves, documentario, Italia 2018, voto: 7,5; documentario molto efficace di denuncia del fascismo, del razzismo e, in particolare, delle leggi razziali. Finalmente è stato realizzato e distribuito un documentario non revisionista e rovescista che denuncia in modo adeguato tutta la barbarie del razzismo fascista. Il documentario ha il merito di denunciare il profondo razzismo di Indro Montanelli e il fatto che le leggi razziali non furono affatto un pegno da pagare per l’alleanza dell’Italia con Hitler. Unici limiti di 1938 - Diversi sono l’insistere sul fatto che l’emancipazione degli ebrei nel 1848 sarebbe stata merito dei Savoia e il goffo tentativo di salvare la chiesa cattolica dalle proprie responsabilità storiche nella persecuzione degli ebrei.

Qui rido io di Mario Martone, drammatico, Italia 2021, distribuito da 01 Distribution, voto 7+; film certamente godibile e ben realizzato, anche se privo colpevolmente di uno sfondo storico, politico e sociale che consenta di contestualizzare la vicenda. Per il resto narra la interessante e avvincente biografia di Scarpetta, un tema in sé privo di valore sostanziale. Per dare spessore al film il regista si concentra sulla contraddittoria poligamia del comico e sulla causa per plagio della sua parodia di un’opera di D’Annunzio. In quest’ultimo tema vi sono alcuni spunti significativi, critici verso D’Annunzio e un regime che impediva la parodia di un poeta decisamente vicino alle forze conservatrici e reazionarie sempre più forti in quegli anni in Italia.

Tre piani di Nanni Moretti, drammatico, Italia 2021, distribuito al cinema da 01 Distribution, voto: 7; film indubbiamente ben realizzato, godibile, con dialoghi intelligenti, personaggi piuttosto realistici. Peccato che il film sia un po’ debole dal punto di vista dei contenuti sostanziali. I drammi, anche ben affrontati, riguardano sostanzialmente soltanto il piano etico immediato e naturale della famiglia. Mentre Tre piani non è in grado di dirci nulla di significativo sui piani etici più elevati del mondo economico e sociale e dei conflitti di classe

Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi, drammatico, Italia 2020, voto: 7-; caso molto raro di film debitamente curato dal punto di vista del contenuto ed estremamente carente dal punto di vista formale. Dopo che con la guerra fredda si è affermato il formalismo come pensiero unico estetico dominante, in particolare nei paesi imperialisti e filo imperialisti, è davvero difficile imbattersi in film come questo, molto coraggiosi e avanzati nel denunciare gli strettissimi legami fra Democrazia cristiana, fascisti e mafiosi, mentre decisamente sciatto dal punto di vista formale. È, davvero, un peccato perché, come strumento di denuncia, peraltro molto ben documentata, risulta estremamente efficace e istruttivo

La strada dei Samouni di. S. Savona, Palestina, Striscia di Gaza, dic. 2008 - genn. 2009, DocuFilm Italia e Francia 2018, voto: 6,5; importante documentazione degli spaventosi crimini contro l’umanità portati a termine dalle truppe sioniste ai danni di povere e pacifiche famiglie di contadini palestinesi. Questi ultimi – essendo apolitici, molto religiosi, avendo lavorato per anni in Israele e avendo mantenuto rapporti pacifici anche con i coloni – non immaginavano che l’esercito occupante li avrebbe massacrati come monito per tutti i palestinesi. Molto efficaci le ricostruzioni dei tragici eventi, oltre che mediante testimonianze dirette, con efficaci inserti di animazione, molto suggestivi, e attraverso le riprese dirette realizzate da aerei e droni sionisti. Peccato che il film risulta gravemente deturpato dall’ideologia postmoderna che porta il regista a uno sguardo puramente naturalistico che resta necessariamente alla superficie dei fenomeni affrontati e pretende di narrare la storia dal punto di vista del cameriere. Tutto ciò rende insostenibile tutta la prima parte del documentario, con il risultato di allontanare anche i pochi spettatori che avrebbero potuto avere accesso a questa importante documentazione dei crimini di guerra sionisti. Particolarmente negativo è anche il punto di vista, altrettanto ideologico, delle vittime, che vengono spesso – in modo decisamente reazionariocontrapposte alle forze della resistenza.

State a casa di Roan Johnson, commedia, Italia 2021, distribuito da Vision Distribution Luglio 2021, voto: 6,5; film italiano senza pretese, fatto con un budget minimo in piena pandemia, risulta decisamente migliore rispetto alle critiche che lo hanno snobbato. Il film riesce a tenere bene insieme l’aspetto della commedia e quello della tragedia, ci presenta dei personaggi realistici e procura un inaspettato godimento estetico, lasciando al contempo qualcosa su cui riflettere allo spettatore. Rispetto a tanto cinema italiano che ama rimestare nel torbido, il film rappresenta un sano esempio di discreta commedia nera.

Il barbiere di Siviglia di Mario Martone, Orchestra e Coro dell’Opera di Roma, Direttore Daniele Gatti, voto: 6,5; messa in scena ripensata per la televisione, vista l’impossibilità di una esecuzione dal vivo. Si tratta di una messa in scena certamente superiore al livello generalmente molto mediocre del Teatro dell’opera di Roma. Il regista sfrutta bene lo spazio della platea e non sacrifica il canto al teatro, come spesso avviene con un regista teatrale e cinematografico, con l’eccezione forse dell’interprete di Bartolo, inchiodato sulla sedia a rotelle. Peraltro questa scelta è fra le meno riuscite perché rende ancora più inverosimile e poco significativa quest’opera comica, in quanto ancora più assurda appare la sua pretesa di sposare la propria pupilla. Anche gli inserti cinematografici introdotti in due soli momenti dell’opera risultano delle trovate piuttosto estemporanee, che soprattutto nel primo caso tendono a distrarre dalla celeberrima aria con cui entra in scena Figaro. In generale la messa in scena di Martone è senza infamia e senza lode; senza infamia perché non appesantisce l’opera con il gusto reazionario postmoderno dominante, ma al contempo non è in grado di darne una interpretazione produttiva e progressiva. L’opera resta così uno splendido divertissement privo degli elementi rivoluzionari presenti non solo nel romanzo di Beaumarchais, da cui è tratto Il barbiere di Siviglia, ma anche nella – decisamente più profonda – opera di Mozart: Le nozze di Figaro.

Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, drammatico, Italia 2021, Vision Distribution ottobre 2021, voto: 6,5; film indubbiamente godibile esteticamente e ben realizzato, curato nei particolari, ben recitato e piuttosto raffinato. Resta il problema di un plot troppo poco sostanziale e universalizzabile. C’è un tentativo di riumanizzare i detenuti, non considerandoli astrattamente come dei meri criminali. D’altra parte non è per niente analizzato il retroterra socioeconomico dei reati puniti con il carcere, né emerge come la sua popolazione sia composta quasi esclusivamente da povera gente, in larga parte tossici o immigrati. L’aspetto repressivo e fascistoide dei secondini scompare quasi completamente nella raffigurazione dell’ormai scontata poliziotto buono, una sorta di despota illuminato, di cui non si critica a sufficienza l’intollerabile paternalismo.

La volta buona di Vincenzo Marra, drammatico, Italia, Uruguay 2019, voto: 6,5; discreto film italiano che, senza scadere nel postmoderno o nel grottesco, narra una storia minimal, ma non qualunquista, in cui presenta in modo fra il realista e il naturalista dei personaggi piuttosto dialettici e complessi, anche nella loro semplicità. Sfiora anche temi abbastanza significativi, come i meccanismi di sfruttamento che dominano sul gioco del calcio in una società capitalistica e che rendono sempre più difficile a un futuro Totti o Maradona di poter emergere.

The Shift di Alessandro Tonda, thriller, Italia e Belgio 2020, voto: 6,5; film realizzato con pochi mezzi, ma certamente efficace e godibile. Il film lascia anche al quanto da riflettere su come trattare i minorenni radicalizzati dal terrorismo islamico. In casi del genere è essenziale non pensare astrattamente, come tendono a fare gli apparati repressivi di sicurezza e spesso anche i mezzi di comunicazione di massa che vedono solo il terrorista e non, al contempo, la vittima. Peccato che il film non sia in grado e non abbia il coraggio di indagare le ragioni economiche e sociali che fanno sì che un minorenne oltre che terrorista debba anche essere considerato una vittima, da curare piuttosto che da uccidere seduta stante – come purtroppo generalmente avviene – impedendo così di comprendere più a fondo un fenomeno tanto tragico quanto sconcertante.

The Truffle Hunters di Michael Dweck e Gregory Kershaw, documentario, Italia, Usa e Grecia 2020, voto 6+; documentario che ha ottenuto molti premi e riconoscimenti. Dal punto di vista meramente formale il documentario è certamente ammirevole, ma dal punto di vista del contenuto si mostra sostanzialmente inadeguato. Così, The Truffle Hunters per quanto assicura un certo godimento estetico – offre troppo poco su cui riflettere allo spettatore. A rendere stoltamente elitario il film interviene poi l’attitudine postmoderna per cui non solo la vicenda non è per niente contestualizzata, ma il dialetto quasi costantemente parlato nel documentario risulta, in buona parte, incomprensibile allo spettatore. Ci si consola con la mesta consapevolezza che, comunque, non ci si è certamente persi nulla di sostanziale.

Assandira di Salvatore Mereu, drammatico, Italia 2020, voto: 6+; discreto film sardo, con qualche caduta di troppo nel post moderno, ma con alcuni spunti realistici, anche se resta predominante il naturalismo. Il tema affrontato è piuttosto interessante, lo scontro fra diverse generazioni, i valori arcaici travolti dallo spirito del capitalismo che trasforma tutto in merce, compresi i valori. Peccato che, al solito, manchi del tutto lo spirito di utopia e il principio speranza, quasi a dar a intendere che, in ultima istanza, quale unica reale alternativa all’utilitarismo e all’edonismo alienante della società capitalista vi sia – esclusivamente – il distruttivo anelito a un qualcosa di radicalmente altro, in una prospettiva (in ultima istanza) reazionaria.

Carla – Il film di Emanuele Imbucci, biografico 2021, Distribuzione QMI, voto: 6+; interessante, godibile e istruttivo film sulla eccezionale storia di Carla Fracci, che sebbene proletaria e donna riesce ad affermarsi a livello internazionale, grazia alla tenacia e alla mancanza di paura dinanzi anche alle sfide più complesse. Il film mostra come Fracci non rinneghi mai le sue origini proletarie e non dimentichi mai di difendere i diritti della forza lavoro femminile, come quando decide di divenire madre, prima e unica fra le grandi ballerine del tempo, costrette a rinunciarvi per poter far carriera. Il film è stato ingiustamente denigrato dalla critica cinefila in quanto non fa concessioni al postmodernismo, al formalismo e al gusto del grottesco. Certo, dal punto di vista formale Carla non risulta particolarmente curato, appare un po’ scontato e prevedibile. Anche dal punto di vista del contenuto viene completamente omessa la sua scelta politica a favore del comunismo. Al contrario nel film la si fa apparire come contraria al conflitto sociale, tanto da non battersi per i propri diritti quando le viene preferita la decisamente peggiore ballerina aristocratica, accusando di invidia l’unica ballerina pronta a denunciare il classismo dominante anche nella selezione all’interno della Scala. Nel film si esalta, invece, l’amicizia di Fracci con l’ex ballerina aristocratica, mentre si condanna come maligna, arrivista e invidiosa l’unica ballerina della Scala decisa a difendere gli interessi dei ballerini figli del popolo.

Il silenzio grande di Alessandro Gassman, commedia, Italia e Polonia 2021, distribuito da Vision Distribution, voto: 6+; film godibile, in grado di evitare le classiche cadute del cinema italiano contemporaneo nel postmoderno e nel grottesco. Il silenzio grande presenta dei personaggi piuttosto realistici e tipici, assicura un certo godimento estetico e lascia qualcosa su cui riflettere allo spettatore, per quanto concerne il rapporto tra vita contemplativa e vita attiva e sulle relazioni all’interno della famiglia, che analizza con un certo acume psicologico. Peccato che restino, al solito, escluse le problematiche legate al mondo del lavoro e la concezione della storia come lotta di classe. Non cogliendo le problematiche economiche, sociali e politiche il film finisce con il rimanere troppo alla superficie fenomenica dei problemi reali, peraltro affrontati dal punto di vista buonista e ottimista della commedia.

I nostri fantasmi di Alessandro Capitani, commedia, Italia 2021, distribuito dal 30 settembre da Fenix Entertainment, Europictures, voto: 6+; film che riprende spunti da Eduardo De Filippo e da Parasite, realizzando una commediola buonista e pulita, senza cadute nell’irrazionale, nel postmoderno o nel grottesco. Inquadra abbastanza bene le problematiche socio-economiche e la violenza sulle donne. Il limite del film, tipico della commedia moderna, è che la soluzione nel lieto fine appare piuttosto scontata sin dall’inizio, anche se c’è comunque uno sviluppo e non un semplice ritorno alla situazione di partenza.

Beckett di Ferdinando Cito Filomarino, azione, drammatico, thriller, Italia, Brasile, Grecia, Usa 2021, voto 6+; il regista cerca di realizzare un godibile B movie sullo sfondo di questioni sostanziali dal punto di vista politico e sociale, come la lotta del popolo greco contro l’austerità, le trame eversive della estrema destra, coperte, almeno sembra, da parte consistente delle forze del disordine borghese e anche, a quanto pare, da membri dell’ambasciata americana. Alla fine sembra esserci troppa carne al fuoco, ci sono diversi spunti significativi che tendono però a perdersi, anche perché il film non ha il coraggio di portare fino in fondo la sua denuncia sociale e politica.

Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto di Riccardo Milani, commedia, Italia 2021, voto: 6+; al contrario del solito, in questo caso la ripresa di un film di successo riesce a essere decisamente migliore del precedente. Gli aspetti più gretti e quasi razzisti restano qui sostanzialmente sullo sfondo, mentre si mediano messaggi progressisti piuttosto avanzati per un film di cassetta. Resta il consueto problema della commedia moderna in cui la conciliazione è piuttosto scontata e la prospettiva che si apre appare poco realistica. Spicca, anche in questo caso, la cura formale nel montaggio.

Weekend di Riccardo Grandi, thriller, Italia 2020, voto: 6; prodotto di buona qualità dell’industria culturale italiana. Thriller ben costruito, senza cadute ideologiche nel postmoderno, anzi il film demistifica il perbenismo del ricco uomo d’affari e dell’affermato medico, padre di famiglia, come del figlio dell’industriale tutti, in modo più o meno diretto, corresponsabili della morte del loro ricco amico, anche quest’ultimo e la madre tutt’altro che degli stinchi di santo. Resta purtroppo la quasi completa assenza di un personaggio positivo, che possa in qualche modo indicare una possibile catarsi, un qualche riscatto. In tal modo il film resta privo di principio speranza e di spirito d’utopia, dimostra un buon pessimismo della ragione a cui purtroppo non si accompagna l’egualmente necessario ottimismo della volontà.

Trash la leggenda della piramide magica di Luca Della Grotta e Francesco Dafano, animazione, Italia 2020, voto: 6; dal momento che è stato di fatto considerato il miglior film d’animazione italiano dell’anno, era certo lecito aspettarsi qualcosa di più. Indubbiamente nel film ci sono delle trovate significative, a tratti i personaggi sono emozionanti e riesce a mediare in modo semplice, immediato e divertente qualche nozione base di educazione civica. Resta, dall’altra parte, la dimensione minimale che non può che lasciare l’amaro in bocca, visto che lo spirito dell’utopia si riduce alla raccolta differenziata dei rifiuti. Peraltro, con un contenuto sostanziale così scarno, sarebbe bastato un mediometraggio; in effetti, il formato standard del lungometraggio dopo un po’ diviene sostanzialmente noioso.

La traviata di Mario Martone, Italia 2021, voto: 6. La scommessa dell’autore era ripensare l’opera in un film per la televisione in era covid e rilanciare un grande spettacolo popolare del passato. Si può dire che entrambi questi ambiziosi tentativi siano sostanzialmente falliti. L’opera resta sotto tutti i punti di vista piuttosto tradizionale, non riesce a sfruttare a dovere la maggiore libertà nella messa in scena, né riesce a rendere La traviata popolare per l’odierno grande pubblico. Detto questo resta una discreta messa in scena e la funzione didattica di avvicinare l’opera lirica a un pubblico non di nicchia.

Il buco in testa di Antonio Capuano, drammatico, Italia 2020, nomination miglior regia e vincitore per la migliore attrice ai Nastri d’argento, voto: 6-; il film ha diversi spunti interessanti e sfiora una serie di tematiche sostanziali. Purtroppo il vizio di affrontare la realtà con uno sguardo naturalista, non consente di approfondire realmente nessuna questione socio-politica che emerge. Anche le tragiche vicende degli anni settanta sono appena sfiorate. In questo modo si finisce per accontentarsi di aspetti fenomenici della realtà, senza andare mai realmente a fondo.

Gomorra new edition, Matteo Garrone, Italia 2021, voto: 6-; film, romanzo, scrittore e regista assurdamente sopravvalutati, offrono una visione tutto sommato anestetica della criminalità organizzata campana. In effetti nel film non si fa nessuno sforzo per indagare il fenomeno andando un po’ più a fondo del suo manifestarsi immediato, facendone emergere i risvolti politici, economici e sociali. Anzi, da quest’ultimo e decisivo punto di vista ci si limita a sostenere l’aberrante tesi che sarebbe la camorra a costringere il padronato a sfruttare la forza lavoro. Dunque, vi è una presentazione decisamente superficiale della camorra, i cui protagonisti sarebbero poveri sottoproletari dei quartieri più disagiati del napoletano. Di questi ultimi si offre una rappresentazione che tende quasi a naturalizzare i legami tra criminalità organizzata e disagio sociale, senza mai fornire la possibilità stessa di una prospettiva diversa e alternativa a quella offerta dalla camorra. Certamente la nuova edizione è migliore della precedente, anche se a tratti appare troppo pedantemente didascalica, senza peraltro andare mai realmente a fondo nelle problematiche affrontate.

Guida romantica a posti perduti di Giorgia Farina, drammatico, Italia 2020, voto: 6-; commediola che dopo un po’ rischierebbe di stancare, se non ci fosse un sottofondo drammatico, che la fa riprendere e gli dà un minimo di spessore. Fortunatamente nel film si denuncia, in modo abbastanza naturalistico, la piaga sociale dell’alcolismo e le nevrosi prodotte dall’attuale assetto sociale. Il limite è che si rimane sul piano di semplici rapporti fra individui, senza inserirli in un contesto economico, sociale e politico. Stona anche l’ideologia postmoderna alla base del film, ovvero la ricerca di posti a ragione perduti e di nessunissimo interesse.

Il cattivo poeta di Gianluca Jodice, biografico, Italia 2021, voto 5,5; film indubbiamente ben realizzato e a tratti piacevole e interessante. Peccato che tanto impegno e tanti talenti – dal regista esordiente, al montatore, agli attori – siano non solo completamente sprecati ma, per quanto forse inconsapevolmente, latori di un contenuto decisamente revisionista. In effetti il cattivo poeta ribelle aristocratico, esponente della destra più radicale – e chi lo sostiene nel suo delirio di onnipotenza – vengono presentati addirittura come dei valorosi resistenti al presunto unico errore del fascismo, ovvero l’alleanza con il nazismo. In realtà la critica del cattivo poeta è rivolta all’alleanza con il presunto “barbaro germanico! e, quindi, è in realtà animata da nazionalismo e pregiudizi razziali, non contenendo nessuna critica al regime nazista. Non per niente è stato scelto come consulente storico del film un intellettuale decisamente conservatore.

Il commissario Ricciardi, di Alessandro D’Alatri, serie televisiva italiana tratta dai romanzi di Maurizio de Giovanni, 2021, voto dei sei episodi: 5,5.

  1. Episodio: Il senso del dolore, voto: 6; la serie, ambientata durante il ventennio fascista, descrive adeguatamente il clima conformistico e totalitario che era stato imposto alla società italiana. D’altra parte, il protagonista si concentra nel portare avanti il suo lavoro, sforzandosi di astrarre dal contesto storico in cui vive. Così, da una parte rimprovera, il medico che si espone troppo nella critica al fascismo, ma d’altra non dimostra in nessun modo la sua adesione al regime. Significativo il fatto che individuato l’assassino il commissario non lo fa arrestare, comprendendo lo sfondo sociale e morale che, in un certo senso, giustifica l’omicidio, peraltro di un sodale di Mussolini. Per il resto è piuttosto fastidiosa sia l’attitudine sostanzialmente omofoba del brigadiere, nei confronti del suo informatore, sia l’amore platonico del commissario per una donna che fa di tutto per mostrarsi tutta casa e chiesa, mentre il protagonista resta del tutto freddo dinanzi al fascino di una donna decisamente più emancipata e meno bigotta.
  2. Episodio: La condanna del sangue, voto: 6; la formula alla Montalbano non convince più di tanto in quanto non permette di approfondire le problematiche affrontate e rischia di rendere noiosa la serie. Gli aspetti positivi de Il commissario Ricciardi sono la denuncia del servilismo e del classismo dominanti sotto il regime fascista, che pretenderebbero di sbattere subito il mostro in prima pagina, senza disturbare le classi dominanti, anche se implicate. Il commissario, al contrario, è interessato a scoprire la verità e a fare giustizia. Perciò non scade nel legalismo, ma tende a cercare di comprendere anche lo sfondo sociale dei reati. D’altra parte il limitare i motivi dei delitti a ragioni di pane o di cuore tende a eliminare, a priori, i reati più significativi da un punto di vista sociale, ovvero le violazioni delle leggi da parte dei colletti bianchi, la corruzione, l’utilizzo dei beni pubblici a scopi privati, la violenza contro le donne, i crimini della malavita organizzata e le malefatte compiute dai fascisti. Peraltro il commissario assume una posizione sostanzialmente super partes, al punto di arrivare a mettere in guardia l’amico medico, in quanto esprime apertamente le proprie critiche al regime fascista, per non vedersi costretto a inviarlo al confino. Inoltre decisamente pessima è la storia della donna protagonista dell’episodio che, per mantenere il proprio onore, rimasta vedova da giovane, vorrebbe sfregiarsi e finisce per farsi sfregiare dal figlio minorenne pur di sfuggire a un molestatore. In questo caso le forze dell’ordine costituito, per quanto legate da un rapporto affettivo con la giovane donna, non sentono il bisogno di redarguire in nessun modo il reale colpevole di questo scempio.
  3. Episodio: Il posto di ognuno, voto: 6; al solito la serie è caratterizzata da luci e ombre. Da una parte emerge chiaramente il clima da Stato totalitario imposto dal fascismo, la sua cieca violenza vigliacca, il suo essere forte con i deboli e debole con i forti. Emergono gli sfondi sociali dei delitti e il fatto che proprio per questo la vera giustizia non sia applicare la legge uguale per tutti, viste le profonde differenze sociali. Dall’altra parte abbiamo l’eroe nobile che, anche se appare disinteressato alle proprie terre e ai propri titoli, fa il poliziotto per passione, dal momento che non lo fa per carriera o per necessità. Non si capisce perché un idealista, che avrebbe avuto i mezzi per fare quello che desiderava, debba svolgere il ruolo di tutore dell’ordine costituito, peraltro sotto il regime fascista. Emerge inoltre una concezione del tutto fascista e assolutamente inverosimile della donna, tanto è mostrata sottoposta all’uomo. Nell’episodio arriviamo all’assurdo di una moglie che è a tal punto innamorata del marito, da godere del suo rapporto con la donna con cui la tradisce e che arriva a uccidere quest’ultima solo quando tradisce platealmente il marito. Resta, infine, il modello della donna brava in cucina e che passa le serate a lavorare all’uncinetto, mentre la donna affascinante ed emancipata non viene presa neanche in considerazione come compagna della vita.
  4. Episodio: Il giorno dei morti, voto: 6; prosegue, in modo sempre più contraddittorio, la serie. L’episodio ha più degli altri un significativo risvolto sociale, trattando dei bambini abbandonati a Napoli, che vivono di espedienti per strada. Significativo quando emerge come la morte di uno di loro appaia come naturale al brigadiere, per quanto quest’ultimo sia una brava persona. Valida anche la denuncia del fascismo che cerca di nascondere la miseria e la delinquenza, pretendendo che sparisca per decreto. Resta la pessima rappresentazione della donna, per cui la donna affascinante e relativamente emancipata è rappresentata come una tentatrice, mentre la donna da sposare resta la massaia tutta casa e chiesa. Anche nella raffigurazione della chiesa la serie è ambigua, abbiamo da una parte un buon parroco, dall’altra un parroco che, più realisticamente, sfrutta la miseria dei bambini per arricchire la chiesa e fare carriera. L’aspetto maggiormente negativo, che emerge in modo evidentissimo in questo episodio, è che il commissario non scopre mai l’assassino utilizzando la ragione, ma attraverso delle visioni mistiche, in cui è l’assassinato stesso che (come in un oracolo) gli rivela la verità.
  5. Episodio: Vipera, voto: 4; decisamente, fra le cose più intollerabili della serie è la visione della donna quale angelo del focolare, in puro stile fascista, da sposare, o femme fatale, vipera, ammaliatrice, bella e, perciò, essenzialmente poco di buono. Tanto che una donna piena di fascino rischia quasi certamente di fare una brutta fine, mentre alla fine non potrà che essere premiata la donna che fa corsi di cucina locale, presso la governante dell’uomo che ama, per poter cucinare secondo la tradizione del borgo natio dell’uomo che vorrebbe sposare. Resta, e di questi tempi non è poco, una connotazione decisamente negativa del fascismo e del servilismo degli opportunisti verso il regime. D’altra parte, l’unica forma di resistenza possibile sembra quella individualista e piccolo borghese del medico, che non può fare a meno di esprimere ad alta voce la sua avversità verso il regime, tanto da essere costantemente tacciato dal commissario di avventurismo. Quest’ultimo abbandona la sua vocazione filosofica, per divenire poliziotto da quando comincia ad avere le visioni soprannaturali che lo portano a individuare l’assassino. Peraltro il commissario altro non fa contro il fascismo se non intercedere presso l’amante, amica della famiglia Mussolini, affinché si spenda per la liberazione del suo amico dottore, senza naturalmente preoccuparsi degli altri poveri disgraziati che, privi di raccomandazione, sono deportati.
  6. Episodio: In fondo al tuo cuore, voto: 4; sempre più in caduta libera, essendo ormai tutta incentrata sulla fidelizzare del pubblico in funzione della nuova serie già programmata. Veniamo a sapere che l’eroe senza macchia e senza paura è in realtà un rentier, un latifondista assenteista molto ricco grazie allo sfruttamento di diversi mezzadri. Nell’ultimo episodio il giallo passa sempre più in secondo piano, diviene sempre più inverosimile e l’attenzione si accentra sulle storie d’amore del commissario e del suo brigadiere in cui, ancora una volta, De Giovanni dà il peggio di sé. Anche in questo caso, come in Mina Settembre l’interesse tende a focalizzarsi su quali delle due donne, follemente innamorate di lui, cadrà la scelta del protagonista, questione davvero di scarsissimo interesse. Per essere una delle produzioni di punta della televisione pubblica italiana ci si rende conto di come stiamo sempre più all’anno zero.

Il commissario Montalbano, quindicesimo episodio: Il Metodo Catalanotti, voto 5+; con questa ultima e inutile puntata sembra finalmente giungere a termine questa fortunata e ultra sopravvalutata serie, che da molto non aveva più nulla di significativo da dire. Per quanto, al solito, ben confezionata per essere una serie italiana, il motivo tragico o drammatico del giallo passa sempre più in secondo piano, sostituito dalla merce più facilmente vendibile e tendenzialmente conservatrice della commediola sentimentale. Nel caso specifico abbiamo l’integerrimo commissario che, dopo anni, rompe su due piedi la propria stabile relazione sentimentale per “amore” di una giovinetta, appena conosciuta. Peraltro l’immagine della donna non esce comunque bene dal film – per quanto il tentato omicidio venga, giustamente, depenalizzato a causa del trattamento degradante subito dall’autrice – dal momento che quest’ultima dimostra un amore-sottomissione assoluto nei confronti dell’uomo, inverosimile e degradante.

Mina Settembre è una serie televisiva italiana in 12 episodi, diretta da Tiziana Aristarco e liberamente tratta dai racconti di Maurizio de Giovanni, voto: 5; dai primi episodi emerge una serie ben confezionata abbastanza curata nei particolari, ma molto prevedibile e molto spesso inverosimile. Per quanto sia incentrata su una questione di cuore decisamente poco significativa, vi è quantomeno la buona intenzione di toccare alcune problematiche sociali di Napoli. Valido anche l’impegno della protagonista a volersi spendere su tali tematiche. Il problema resta il modo di affrontarle, che oscilla fra due estremi decisamente pessimi: lo spirito da crocerossina da una parte e Wonder Woman dall’altra. In tal modo, le buone intenzioni vanno a farsi benedire in quanto si resta a una conoscenza fenomenica delle grandi questioni sostanziali sociali appena sfiorate.

Nelle seconde tre puntate la serie si conferma una merce dell’industria culturale ben confezionata per essere un prodotto italiano, di pura evasione e buonista. Quest’ultimo aspetto è certamente il lato che la rende almeno un po’ significativa nel panorama deprimente dell’odierno cinema italiano. Peccato Serena Rossi, sempre conciata come una appena uscita dal parrucchiere, poco si addice al moralismo crocerossino che dovrebbe caratterizzare la protagonista. Inoltre essendo il prodotto di soli due racconti la serie finisce per essere un eterno ripetersi, con variazioni diverse, di un medesimo tema, decisamente poco sostanziale.

Negli episodi dal sei al nove la serie diviene sempre più ripetitiva, pesa il fatto di essere scritta sulla base di due racconti, peraltro da parte di uno scrittore noto come giallista. Quindi, più che una serie sembra un telefilm. Il suo ruolo oppiaceo lo svolge bene, la serie lì per lì appare anche commuovente, se non fosse che il suo buonismo, riflettendoci sopra, mostra tutta la sua inconsistenza. In tutte le puntate l’eroina fa qualcosa di rischioso e viola le leggi pur di aiutare un bisognoso. Senza mai comprendere che si tratta di una goccia nel mare. Ad esempio a fronte di un singolo disoccupato disperato cui riesce a fare avere, grazie alle sue conoscenze, un posto di lavoro, ne restano altre decine di migliaia che rimangono abbandonati alla loro disperazione. Di tutto ciò, naturalmente, nella serie non c’è traccia, né la protagonista si interroga mai su questa palese contraddizione.

Negli ultimi tre episodi la serie diventa sempre più prevedibile e inverosimile, incentrandosi su questioni di nessunissimo spessore, quale riscoprire l’amante del padre o decidere con quale uomo impegnarsi. Peraltro emergono una serie di pesanti pregiudizi, decisamente fuori luogo, innanzitutto omofobi e in secondo luogo volti a colpevolizzare la giovanissima donna che ha una relazione con un uomo sposato. La donna, anche se si tratta di una ragazzina, appare come una poco di buono, mentre l’uomo sposato, anche se l’ha sedotta e abbandonata, non viene messo seriamente in discussione. Peraltro visti i presupposti e le questioni rimaste aperte per lanciare la seconda serie, del tutto prive di spessore, viene meno l’interesse a continuare a sprecarci tempo dietro.

Lei mi parla ancora di Pupi Avati, drammatico, Italia 2021, distribuito da Vision Distribution, candidato al miglior film e miglior regia ai Nastri d’argento, voto: 5-. Il film, decisamente mediocre, oltre a essere del tutto ingiustamente sopravvalutato, testimonia anche l’attuale miseria del cinema italiano, dal momento che un film tanto modesto viene presentato tra i migliori prodotti cinematografici dell’anno. Peraltro il film è decisamente reazionario, esalta il piccolo mondo antico e i valori decisamente conservatori dei notabili della provincia Veneta, che impiegano in modo del tutto superfluo un numero sproporzionato di servitori e riempiono, in modo completamente privo di gusto, la casa di “opere d’arte”, con la tipica furia del collezionista, che finisce con il valorizzare un oggetto quanto più è antico e tradizionale.

Nessun nome nei titoli di coda di Simone Amendola, documentario, Italia 2019, voto: 4,5; documentario ultra postmoderno, con regista e sceneggiatore che rifiutano la loro funzione di raccontare una storia, come quella – nel caso specifico – dei lavoratori manuali di Cinecittà, da un punto di vista universalizzante e si limitano a filmare gli eventi dal punto di vista più distorto, cioè con lo sguardo soggettivistico del cameriere. In tal modo, la totalità, la storia, la società e le classi sociali spariscono e restano i ricordi di una persona anziana scarsamente istruita con le sue fissazioni individualistiche. C’era materiale sufficiente a realizzare un dignitoso cortometraggio, con alcune trovate divertenti da personaggi che sembrano i modelli dei migliori film di Verdone, ma una volta inutilmente dilatato in un lungometraggio il documentario non può che risultare inutilmente noioso e pesante.

L’occhio di vetro di Duccio Chiarini, documentario, Italia 2020, distribuito da Istituto Luce, voto: 4+; documentario a tratti interessante, in quanto scava nel passato fascista, sempre più o meno occultato, della propria stessa famiglia. Così, da un caso particolare, si ricostruiscono alcune vicende storiche di carattere universale. Peccato che l’intento di capire porti il regista a riscoprire la presunta umanità dei sui parenti fascistissimi mai pentiti e a esaltare il cognato che, per quanto partigiano, li nasconde dalle rappresaglie in quanto, al di là delle diverse vie in cui gli avrebbe portati la storia, vi sarebbe fra di loro un legame umano superiore. In tal modo si finisce, in completo accordo con l’ideologia dominante, per riabilitare, di fatto, anche chi ha sempre militato nel fascismo.

Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, drammatico, Italia 2020, voto: 4; film esaltato in modo davvero aberrante dalla critica della sinistra radicale cinefila, che dimostra ancora una volta di essere completamente egemonizzata dagli aspetti più irrazionalistici ed estremi dell’ideologia dominante fra gli “intellettuali tradizionali continentali”, ossia il postmodernismo. Nel caso specifico abbiamo finalmente un contenuto davvero sostanziale, ossia il selvaggio sfruttamento – strumentalizzando l’immigrazione clandestina – dei braccianti agricoli nel nostro paese e i relativi conflitti sociali che ne derivano, utilizzato come una ulteriore esibizione della propria subalternità all’ideologia che più fa comodo ai fautori dello status quo. Ecco allora che questi temi, estremizzati fino a renderli inverosimili, vengono strumentalizzati per rimestare ancora una volta nel torbido, riducendo la potenziale complessità della questione socio-economica affrontata all’unica interpretazione che sono in grado di darne questi intellettuali ultra decadentisti, cioè mirando a farne emergere esclusivamente gli aspetti più grotteschi.

A Classic Horror Story di Roberto De Feo, Paolo Strippoli, horror, Italia 2021, voto: 4-; film del tutto sopravvalutato da presunta critica cinefila sedicente di sinistra, è anche un film assurdamente pretenzioso. In realtà non ha nulla di sostanziale o significativo da comunicare e rappresentare, se non la spocchia dell’intellettuale privo di qualsiasi connessione sentimentale con il popolo. Quest’ultimo è rappresentato come morbosamente attratto dai fatti di cronaca violenti e – per quanto concerne la componente meridionale e, in particolare, calabrese – come se fosse composto da dei caproni selvaggi del tutto soggiogati alla malavita organizzata.

Notturno di Gianfranco Rosi, documentario, Italia 2020, voto: 4-; film insostenibile, che ha “degnamente” rappresentato l’attuale italietta quale candidato agli Oscar per il miglior film straniero. Rosi - senza avere una visione del mondo anche minimamente alternativa a quella dominante - pretende di affrontare le molteplici problematiche del Medio Oriente. Il documentarista, però, non si documenta e non svolge un’analisi storica, politica, sociale, di classe, economica e filosofica della realtà, ma cerca esclusivamente delle immagini per valorizzare, dal punto di vista meramente formale, il proprio lavoro. Non avendo una visione del mondo alternativa, subisce in pieno l’ideologia dominante, a cominciare dal postmodernismo, per cui non si fa nessuno sforzo per comprendere la realtà, ma ci si limita a metterne in evidenza gli aspetti fenomenici, peraltro staccati gli uni dagli altri, che non consentono nessuna comprensione più profonda della sostanza storica. Si tratta di un film elitario, cosmopolita, pensato a esclusivo beneficio dei cinefili.

Anna, miniserie televisiva italiana del 2021 creata da Niccolò Ammaniti. La serie, composta da sei puntate, è basata sull’omonimo romanzo del 2015 di Ammaniti, voto: 3+; Anna e il romanzo da cui è tratta la serie sono riusciti a prevedere sotto diversi aspetti la pandemia che di lì a poco sarebbe esplosa, a ulteriore dimostrazione che, con una buona preparazione in materia, era del tutto prevedibile a riprova di quanto criminosi siano stati la mancanza di prevenzione dei paesi liberisti occidentali. Interessante anche la raffigurazione di un mondo, improvvisamente dominato dall’anarchia, a ulteriore dimostrazione che lo Stato deve essere superato dialetticamente e non negato e distrutto astrattamente, come pretendono gli anarchici, altrimenti si riprecipiterebbe in uno stadio prossimo a quello di natura o assimilabile alla tragica situazione in cui si vive, ad esempio, in Somalia. D’altra parte, al solito, lo scrittore non è in grado, come tutti gli intellettuali tradizionali (borghesi) di immaginare un futuro se non in termini necessariamente apocalittici. La solita trovata conservatrice, volta a una apologia indiretta del sistema imperialista – per quanto in crisi e nella sua fase di putrescenza – visto che altrimenti l’unica alternativa sarebbe precipitare in uno stato di natura esattamente identico a quello ideato da Hobbes per affermare la sua concezione assolutista del potere statuale. Mai che ci presentasse, quantomeno, la possibile alternativa a tale tragico scenario del superamento del capitalismo in un modo di produzione più giusto e razionale. Anzi, non solo il destino a tinte fosche si dà per scontato e necessario, ma altrettanto necessaria appare la pandemia, per cui non si potrebbe che prenderla e morire a una certa età. Anche in questo caso si finisce per naturalizzate l’assoluta incapacità dell’imperialismo occidentale di prevenire, tracciare e mettere in isolamento i contagiati. Infine, come generalmente spesso avviene nei film europei che si vogliono dare un tono da autore, gli episodi della serie risultano inutilmente pesanti e lunghi, finendo con l’annoiare sempre più lo spettatore, non avendo peraltro, al di là del ritmo, qualcosa di sostanziale da narrare oltre i due sopra ricordati spunti iniziali.

Il grande passo di Antonio Padovan, commedia, Italia 2019, voto: 3-; film davvero emblematico della assoluta mediocrità di parte preponderante del cinema italiano. Del resto dopo aver avuto come portavoce del presidente del consiglio Rocco Casalino, cosa altro ci si dovrebbe attendere? Nel film viene spacciato addirittura come un eroe idealista, animato dallo spirito dell’utopia un folle veneto, apologeta dello sbarco sulla luna degli statunitensi, che pretende di ripetere da solo un viaggio ormai del tutto privo di senso. Peraltro sacrifica ogni rapporto umano a questo sogno insensato, con l’assurda presunzione di fare tutto da solo, in modo assolutamente antieconomico e irrazionale, dal momento che tutti dovrebbero conoscere l’importanza decisiva della divisione del lavoro e, più in generale, del lavoro sociale. Inoltre questo assurdo personaggio dovrebbe essere nell’intenzione degli autori un “modello alternativo” da contrapporre ai veneti tutti presi dal mito della produttività. Verrebbe da dire che se questa è l’alternativa, persino i padroncini veneti potrebbero rimanere per sempre al governo.

We Are Who We Are miniserie televisiva italo-statunitense co-creata e diretta da Luca Guadagnino per HBO e Sky Atlantic in 8 episodi, voto: 2,5; serie insostenibile, paurosamente appesantita dall’ideologia dominante continentale: il postmodernismo. È davvero impressionante quanto siamo precipitati all’interno del fascismo quotidiano, se una serie ambientata nella base Nato in Veneto – epicentro di tutti gli intrighi della strategia della tensione – possa affrontare la presenza di un tale centro eversivo (base di partenza delle aggressioni imperialiste ai popoli del sud del mondo, senza contare la presenza di armi nucleari) in modo del tutto acritico, con la piene coperture ideologica dell’unico quotidiano “sedicente” comunista, che spaccia questo mediocrissimo prodotto dell’industria culturale come un capolavoro.

Il buco di Michelangelo Frammartino, voto: 2+; uno dei film decisamente più sopravvalutati dell’anno. Il buco dimostra il solito snobismo dell’intellettuale tradizionale cui piace rimirarsi la lingua e mantenere la massima distanza verso il proprio stesso popolo, nei confronti del quale non ha alcuna connessione sentimentale. Anche il grande tema della questione meridionale è del tutto sacrificato al formalismo e alla piena e convinta adesione all’ideologia postmoderna dominante al di fuori del mondo anglosassone.

Le sorelle Macaluso di Emma Dante, commedia, Italia 2020, voto: 2-; film assolutamente insostenibile, improntato al più bieco ed ideologico postmodernismo all’amatriciana, noiosissimo in quanto tutto è dipinto con il solo colore del grottesco. Per quanto alcuni critici abbiano avuto il coraggio di cercare di salvare il film mettendo in evidenza come la regista ami sempre indagare la vita delle masse popolari, in realtà non vi è nessuna consonanza spirituale con il proprio popolo, di cui si è in grado di cogliere i soli aspetti grotteschi. Anzi, film come questo mirano a voler cancellare dalla coscienza delle masse popolari anche quel residuo barlume del principio speranza e dello spirito dell’utopia, naturalizzando, per eternizzarla, la sua misera condizione.

Non mi uccidere di Andrea De Sica, drammatico, Italia 2021, distribuito da Warner Bros, nomination miglior film, montaggio, fotografia e colonna sonora ai Nastri d’Argento 2021; film decisamente insostenibile, senza capo né coda, si limita a mescolare nel modo più insensato una serie di luoghi comuni dei generi più diversi. Con la solita rovescista riabilitazione dell’irrazionalismo, come se costituisse, in quanto tale, un elemento sovversivo. È davvero assurdo come sia possibile continuare a sprecare risorse pubbliche e, più in generale umane, per prodotti così scadenti e diseducativi.

Fellini degli spiriti 2020 di Selma Dell’Olio, documentario, Italia 2020, voto 1; documentario indecente, senza capo né coda, che cerca di portare avanti interpretazioni ultra forzate e irrazionaliste di Federico Fellini senza nessuna base reale, anzi interpretazioni che vengono smentite dalle testimonianze dello stesso grande regista riportate nel documentario. Di Fellini si tendono a portare, fino alle più estreme conseguenze, gli aspetti maggiormente irrazionalisti e reazionari. Peraltro ci si concentra – in modo del tutto assurdo – sul Fellini uomo e non sulla sua certo discutibile, ma indubbiamente molto significativa, opera cinematografica. Come se potesse essere oggetto di un qualche interesse universale Fellini in quanto individuo singolo e non le opere d’arte che ha prodotto.

31/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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