Caina - regia di S. Amatucci, con L. Amatucci, H. Dridi, Italia, 2016. Uno dei vantaggi di vivere nella piccola provincia ricca del nord Italia è quello di poter gestire più facilmente i tempi di vita, sempre più risicati, che il sistema capitalistico concede fuori dal tempo di lavoro. Mentre nella grande metropoli capitalista tali tempi di vita finiscono in buona parte per essere spesi sui mezzi di trasporto nelle interminabili distanze che, almeno per i ceti subalterni, separano il luogo di lavoro dalla propria casa, accumulando stanchezza su stanchezza e rendendo praticamente impossibile il godimento delle pur numerose offerte culturali, nella piccola provincia è possibile ancora poter approfittare, anche durante la settimana senza per questo impazzire, di quegli eventi culturali, come il cinema d’essai, che segnano e formano la vita etica degli uomini.
Così ci siamo imbattuti nel film oggetto di questa recensione nella speciale rassegna del “mercoledì” nel centro storico di una cittadina romagnola che si svolge all’interno di un centro culturale di proprietà della chiesa: l’interesse per un simile posto è per noi anche quello dell’indagine sulla vita politica e sociale di questa città. Noi riteniamo che i comunisti debbano sempre porsi la curiosità di capire come e dove si formi il senso comune, quali sono i centri di direzione culturale e politica e da chi sono diretti e secondo quali linee politiche. Il cinema in questione da questo punto di vista offre interessanti occasioni di riflessioni. Intanto la prima: è diretto dall’Opera Salesiana che ne fa un centro di direzione della vita culturale (selezionando accuratamente le proiezioni cinematografiche e gli spettacoli teatrali) con particolare attenzione ai giovani e anche un centro di cassa economica approfittando dell’affitto della sala stessa.
I più importanti film in scaletta, sempre in seconda o terza visione, sono presentati sul sito internet da una breve “valutazione pastorale”, una sorta di analisi che recensisce il film secondo ovviamente il punto di vista dei clerici e talvolta le proiezioni sono accompagnate delle discussioni promosse da giovani militanti di associazioni culturali vicine alla Chiesa.
L’organizzazione è meticolosa e l’accoglienza è di livello, il pubblico si sente a proprio agio e partecipa volentieri alle discussioni promosse da questi giovani che attraverso tali esperienze si formano divenendo i futuri intellettuali che la chiesa può mettere a disposizione della borghesia. Tali giovani acquisiscono sia capacità organizzative che capacità intellettuali dunque il risultato è davvero sorprendente: se per un verso si forma il senso comune per un altro si formano anche gli intellettuali che guideranno la società.
Infine la selezione del film è naturalmente in linea con la battaglia politica della fase storica e a tal proposito entriamo nel merito della recensione oggetto di questo scritto scusandoci per esserci lungamente dilungati in una premessa che riteniamo tuttavia di grande insegnamento.
Il tema dei migranti attraversa le proiezioni di questa sala ormai da diversi mesi e in questo filone rientra anche la proiezione del film Caina. Tra il cervellotico e il surreale, il film è una di quelle opere però piuttosto noiose, tanto che a tenerci legati alla sedia evitando di sbadigliare troppo era più la curiosità di ascoltare e partecipare al dibattito finale che il film in sé, il quale cerca di esprimere in modo eccessivamente contorto cose tutto sommato semplici, ammantandole di inutili orpelli intimistici e ambientazioni oniriche.
La trama è costruita intorno ad un personaggio centrale, da cui il film prende il nome, ossia, appunto Caina, una donna assolutamente odiosa e respingente sotto ogni punto di vista abbrutita dalle proprie tragiche esperienze di vita e da tutte le più odiose sfaccettature del senso comune razzista tipico dei nostri tempi. Il lavoro di Caina è raccogliere sulle spiagge di propria assegnazione i corpi dei migranti morti alla deriva per rivenderli ad una industria cementizia che li usa come ingrediente nella produzione del collante. Il traffico di morti è naturalmente gestito da italiani con qualche complice straniero. Si tratta ovviamente di un espediente cinematografico surreale (visto che ancora non siamo arrivati a tanto cinismo nella speculazione pur già esistente sui fenomeni migratori) che per certi versi risulta sufficientemente forte e utile a interrogare lo spettatore sulle ragioni ultime dello sfruttamento dei lavoratori immigrati come carne da macello nel sistema capitalistico occidentale.
Vi sono, poi, elementi secondari nel film riconducibili ai dettagli di questo fenomeno ma la sostanza principale, la tematica affrontata, lo sforzo del j’accuse, possiamo dire che termini sostanzialmente qui: fare emergere l’ottusa cecità degli stereotipi che muovono l’odioso uomo medio razzista italiano e al contempo mostrare il fine ultimo della catena di migrazioni umane ossia lo sfruttamento schiavistico nel fabbrica occidentale.
Non è poco certamente, ed è sicuramente una tematica importante e progressiva sviluppata ed espressa con impegno dalla chiesa cattolica in questa fase storica, armando l’opinione pubblica contro l’imbarbarimento “citofonista/salviniano”, formando un esercito di “boy scout” pronti a convergere anche nella piazza politica (si pensi al recente fenomeno delle Sardine) pur di arginare l’ondata razzista che si sta abbattendo sulla società.
Tuttavia non va sottovalutato quello che appare essere un limite intrinseco di questa visione delle cose, ossia la tendenza a trattare l’essere umano imbarbarito quale un disumano-non-umano, un incomprensibile risultato al quale si è giunti e da rifiutare in toto, senza interrogarsi sul motivo per cui si arrivi a tanto o sia così diffuso un atteggiamento totalmente alienato dall’umanità e solidarietà reciproca. La Caina di turno, nella sua versione autentica di “fratricida”, cui il nome biblico non a caso rimanda, non ha nulla di umano, nel film, non ha nulla di “comprensibile” nel senso di “conoscibile”, intelligibile: ella è un mostro, sic et simpliciter, che proviene dal nulla e vive in un nulla, provando nulla e non pensando a nulla, se non ad alibi di natura completamente e irrimediabilmente personale che giustifichino l’essere diventata un mostro col prossimo, che teme il prossimo, che non accoglie il prossimo e guarda al prossimo come un nemico da abbattere.
Se esistono le Caine è perché esse, come nel film, hanno avuto un’infanzia poco felice o un drammatico aborto, è perché, in altri termini, qualcosa nella loro vita personale o familiare non ha funzionato, non importa cosa di preciso l’essenziale è che sia un che di riconducibile alla dimensione intimistica/familiare/piscologica e via dicendo. La cattiveria di Caina emerge da questo ed in questo solo è spiegabile. Non c'è altro, come appunto sopra si diceva, di comprensibile nella mostruosità che ella rappresenta. Non c’è altra responsabilità di ben altra caratura che si possa intravedere dietro le azioni meccaniche e il modo angosciante di pensare di Caina, non c’è collettività dietro di lei, non c’è una società o una responsabilità sistemica se non a valle dell’essere già tutti diventati dei mostri non-umani: solo allora, nel film, compare la società che ha ovviamente un ruolo regressivo, incarnando solamente la capacità, potremmo dire, di adattamento ad un sistema di speculazione selvaggia e fredda che fa degli esseri umani diversi un business.
Caina, infatti, rischia nel film di avvicinarsi a qualcosa di simile a una donna solo quando la vicinanza fisica con uno degli odiati stranieri che normalmente è abituata a disprezzare o uccidere a prescindere le fa avvertire qualche vampata ormonale e il leggero sospetto di non essere tanto diversa in termini di funzioni vitali dall’oggetto del suo odio: ma anche qui ciò che al fondo sembra emergere è che la possibilità o meno di superare la stolida barriera dell’odio razziale sia unicamente l’intelligenza o la diversa empatia di ognuno, e che non si possa dunque raggiungere tale risultato anche al di fuori della sfera personale/esperienziale di ognuno attraverso processi coinvolgenti la società intera.
Insomma, se l’ondata reazionaria colpisce alla pancia delle persone la risposta umanitaria clericale non si spinge tanto più in là: tanto il film quanto più in generale le prediche papaline ostentano un generico j’accuse della barbarie in corso senza mai scendere ad esplorarne le cause principali facendo emergere, ad esempio, nomi e cognomi dei maggiori responsabili delle catastrofi umanitarie in Africa, Medio Oriente e in altre parti del mondo.
L’uomo è il frutto anche dei rapporti economici che regolano la società; il mondo sociale quindi è dialetticamente legato al mondo economico sottostante e non è, come sembra suggerire il surrealismo del film, una realtà parallela e a se stante che nostro malgrado ci circonda come fossimo in un terribile incubo popolato da mostri. Bisogna chiedersi e analizzare il perché delle storture che ci circondano e comprenderle in modo anche scientifico ossia comprendere come vi sia una complessità di legami che sussistono tra l’organizzazione economica dell’odierna società, e i gruppi che ne fanno parte con i loro interessi che cercano di imporre sia politicamente attraverso il controllo dello Stato che eticamente attraverso l’egemonia nella società civile.
Tali riflessioni sono state poste nel dibattito che è seguito alla proiezione de film suscitando diverse reazioni, da quelle più interessate all’approfondimento di questo punto di vista, che è proprio della filosofia della prassi, a quelle più conservatrici, svelando in tal modo chi fossero tra i presenti gli elementi più “spontanei” e quelli più “coscienti” del proprio ruolo di “intellettuali”. Questi ultimi non hanno mancato di riproporre le solite solfe idealistiche, antirealiste e formalistiche nel senso di concepire un giudizio esteticodell’opera d’arte come “arte pura” e in quanto tale sconnessa dal mondo economico. Ovviamente tale modo di pensare finisce direttamente per collegarsi allatradizione filosofica gentiliana ossia alla tradizione filosofica del fascismo.