Il regista britannico Terence Davies si è fatto carico di un compito estremamente complesso: raccontare in un film la biografia di Emily Dickinson. Nonostante quest’ultima sia considerata la più significativa poetessa statunitense, Dickinson ha condotto una vita tutta dedita alla sua attività poetica. Quindi, se ne potrebbe concludere che la sua vita individuale sia del tutto finita, mentre a essere immortale sia esclusivamente la sua opera poetica, così difficile – in quanto tale – da rappresentare cinematograficamente.
D’altra parte, già Hegel, nell’aggiunta al paragrafo 549 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, ha osservato: “l’interesse della biografia sembra direttamente contrapporsi a un fine universale, ma anch’essa ha come sfondo il mondo storico in cui l’individuo è coinvolto”. Ed è proprio quest’ultimo a costituire l’interesse principale del film di Davies. Infatti, per quanto Dickinson sia vissuta quasi esclusivamente nel suo “natio borgo selvaggio” in Massachussets e, nella seconda parte della sua non lunga esistenza, si sia autoreclusa nella sua stanza nella casa dei suoi genitori, anche questi aspetti apparentemente così soggettivamente originali divengono utili per descrivere la società storica del suo tempo, che resta utile per comprendere la società provinciale americana del nostro tempo.
Siamo nel diciannovesimo secolo, in piena epoca vittoriana, in una società profondamente segnata dall’etica puritana. Secondo tale concezione, essendo tutto ciò che avviene volontà divina ed essendo la donna, secondo la “parola di dio”, un essere inferiore non può che essere destinata a vivere assoggettata all’uomo. Dickinson avendo un animo così ricco, sofisticato e sensibile non può accettare questo tragico destino in cui si trova “gettata”, del tutto indipendentemente dalla propria volontà. Non può, dunque, che ribellarsi a questa condizione che non può non avvertire come profondamente ingiusta e insensata. Tale attitudine “naturalmente” ribelle non può che portarla a scontrarsi con la società e il suo mondo storico nel suo complesso.
Proprio perciò, come notava ancora Hegel, nel proseguo del brano sopra citato, “persino ciò che è soggettivamente originale, umoristico, ecc. allude a quel contenuto [storico universale] e in tal modo accresce il proprio interesse”. In effetti, per quanto possano apparire soggettivamente originali o addirittura bizzarre le reazioni della Dickinson, assumono una valenza universale quali forme di resistenza a un mondo storico profondamente ipocrita, in quanto dietro la sua eticità profondamente religiosa e puritana si celano dei rapporti di dominio ipostatizzati, a partire dallo stesso ambito familiare in cui la donna deve essere, indipendentemente dalle sue capacità e attitudini, sottomessa all’uomo.
Ecco che, allora, Dickinson ci appare, sin dalla sua giovinezza, drammaticamente consapevole del pesante fardello che le impone la sua attitudine inconciliabile con il tragico destino che la società, in cui è costretta a vivere, le prepara. Così il film si apre sulla scena madre della sua ribellione e rivendicazione della libertà di contro all’oppressione, cui il proprio mondo storico la destina in quanto donna, con Dickinson che, a differenza di tutte le sue compagne di collegio, si rifiuta categoricamente di fare professione pubblica della propria fede cristiana, come la società puritana del tempo imponeva.
Nonostante sia pienamente consapevole di come tale gesto dovesse essere considerato scandaloso e intollerabile dal senso comune dominante nella sua epoca, Dickinson se ne assume in pieno la responsabilità, rivendicando, nonostante il suo essere donna, il pieno diritto – in quanto essere razionale – alla libertà dell’autocoscienza. È così costretta ad abbandonare il collegio, il che rappresenta in fin dei conti anche una liberazione in quanto può abbandonare la per lei inaccettabile ipocrisia conformista che vi dominava e ritornare nella sua famiglia, colta e relativamente liberale per quel mondo storico.
Ciò nonostante non mancano i momenti di frizione con i suoi, per quanto amati, familiari a cominciare dal padre che, per quanto dovesse apparire illuminato in quell’epoca, non può accettare l’attitudine anticonformista della figlia e il suo sfidare apertamente il pensiero unico dominante del tempo, sia per quanto concerne la religione, che per quanto riguarda il diritto della donna di potersi affermare nella società civile.
Dinanzi al padre Dickinson è costretta a piegarsi non potendo, in quelle condizioni, aspirare a una maggiore libertà di espressione della sua vocazione poetica, rispetto a quella che riesce a ottenere in cambio del suo accettare di non sfidare più apertamente e pubblicamente il senso comune dominante. Il padre, infatti, acconsente alla sua richiesta di potersi dedicare nel corso della notte alla sua attività di scrittrice e si spende anche, su richiesta della figlia, a chiedere al direttore di un giornale, suo conoscente, di pubblicare alcune poesie di Emily. Vengono così rese pubbliche – anche se in forma anonima, in quanto appariva inaccettabile all’etica puritana la sola idea che una donna potesse pubblicare i propri scritti – sette sue poesie. Saranno le uniche che avrà modo di render pubbliche nel corso della sua esistenza, anche perché non riesce ad accettare e, anzi, ha l’ardire di ribellarsi alle modifiche a cui le ha arbitrariamente sottoposte il suo editore, per renderle maggiormente accettabili al gusto dell’epoca.
Anche da questo punto di vista Dickinson non si piega, ovvero accetta consapevolmente che la sua opera resti sostanzialmente sconosciuta, almeno nel corso della sua tormentata esistenza, pur di non piegarsi alle esigenze imposte tanto dal mercato quanto dell’eticità dominante che pretenderebbero di farle accettare un modo di comporre meno anticonformista e innovativo, che non poteva che apparire rivoluzionario in quel contesto.
Allo stesso modo Dickinson non si piegherà mai ai costumi del tempo in base ai quali, per potersi emancipare dalla casa paterna, si sarebbe dovuta adattare al matrimonio con un uomo che non avrebbe potuto lasciargli la libertà di seguire la sua – apparentemente vana e fallimentare – attività di scrittrice. Era infatti impensabile che una donna, che si credeva destinata al suo ruolo subalterno di moglie e madre, potesse – anche se di notte – dedicarsi alla composizione delle sue opere poetiche.
Il film rappresenta, in modo mirabile, la tragedia storica che vive Emily, divenendo sempre più consapevole di quanto di essenziale era costretta a rinunciare per poter mantenere la possibilità di dedicarsi a quella attività di poetessa che – per quanto non ricevesse nessuna forma di riconoscimento all’esterno – era l’unica attività che le permetteva di realizzarsi. Tale coraggiosa scelta la porta a dover rinunciare non solo alla possibilità di sposarsi, di avere una propria vita sentimentale e sessuale, ma anche a doversi isolare dal mondo e dalla società che la circonda, che non può accettare, né riconoscere la sua volontà di mantenere la propria indipendenza e di realizzarsi senza doversi, perciò, sottomettere alla schiavitù domestica.
In modo estremamente realistico il film mostra le lacerazioni e i travagli interni, oltre agli scontri esterni, che questa tragica scelta comporta per Emily, costretta a vivere – apparentemente in modo volontario – agli arresti domiciliari. In tal modo la poetessa – costretta ad autoimporsi di rinunciare alla vita sociale, dal momento che la società puritana della sua epoca non era in grado di riconoscerla e accettarla proprio per la sua genialità artistica – finisce necessariamente per guastarsi dal punto di vista fisico e anche morale, in quanto finisce con l’assumere delle attitudini sempre più estranee alla società in cui vive, che non possono che farla apparire asociale.
A rendere ancora più tragica la condizione di Dickinson sono la sua eccezionale sensibilità e la sua grandezza d’animo che non possono che renderla consapevole del fatto di essere costretta a pagare la sua scelta di emancipazione con un progressivo abbrutimento del carattere, che finisce per renderla sempre più intollerante e incapace di accettare le umane debolezze di chi la circonda. In tal modo Emily finisce per entrare in contrasto anche con la sua più ristretta cerchia familiare che costituisce, nelle sempre più difficili condizioni in cui si trova costretta a vivere, l’unica possibilità di avere una qualche forma di riconoscimento da parte di un’altra autocoscienza.
In tal modo, il suo totale rifiuto della società che la circonda diviene sempre più una negazione astratta, incapace di ricomprendere e superare dialetticamente l’altro da sé. Così Dickinson finisce con il divenire, in modo del tutto involontario, altrettanto astratta moralmente dell’ipocrita società che la circonda. Si condanna così ad assumere un’attitudine altrettanto incapace di riconoscere l’altro da sé, di quella che ha giustamente sempre rimproverato al senso comune della società puritana con cui è stata costretta a convivere.
Anche perché la ribellione dell’individuo di contro alle angustie del mondo sociale in cui si trova – del tutto indipendentemente dalla propria volontà – a vivere può avere possibilità di successo, contribuendo a creare una società migliore, solo se è in grado di superare il proprio altrettanto necessariamente angusto io in una dimensione collettiva, che può concorrere allo sviluppo di un mondo migliore, più razionale e umano di quello esistente. In tal modo Dickinson non è in grado di ricomprendere in un ambito più universale come quello della lotta di classe – che porta gli oppressi e i subalterni a unirsi e lottare insieme contro ogni forma di dominio e oppressione – la sua pur coraggiosa e lodevole lotta per l’emancipazione dalla schiavitù domestica cui la società del tempo condannava, ancora più che l’attuale, la donna.
Dickinson non è in grado così di andare al di là della lotta, per quanto indubbiamente giusta e necessaria, per poter divenire, nonostante donna, un intellettuale di tipo tradizionale. In tal modo non è in grado di superare, né di poter comprendere criticamente i limiti storici di tale tipologia di intellettuale. Ecco così che quando la sua attitudine ribelle e anticonformista la porta a essere accusata di comportarsi come Marat – grande esempio di un intellettuale che diviene organico alle masse popolari, ai sanculotti – risponde sdegnata di riconoscersi piuttosto in Charlotte Corday, la giovane girondina che si macchiò, per difendere gli ideali interclassisti della rivoluzione borghese, dell’assassinio dell’intellettuale che con il suo classismo li tradiva.
D’altra parte, nonostante questa infausto riconoscersi nella Corday, in realtà Dickinson ha comunque dato con la sua opera di poetessa un eccezionale contributo alla lotta per l’emancipazione dell’umanità, dimostrando come una donna, nonostante la condizione di oppressione in cui sia costretta a vivere, può essere un’artista di eccezionale qualità. Questo ne fa, a differenza della Corday, una figura grande nella sua storica tragicità, anche se Dickinson si vede o si crede costretta a lasciare soltanto ai posteri la possibilità di cogliere in pieno la catarsi del suo tragico sacrificio della propria individualità per il bene della futura umanità.
Certo il dover assistere, da parte dello spettatore, nella parte finale del film al suo tragico destino – apparentemente privo di catarsi, ovvero capace di una catarsi solo postuma – non rende particolarmente gradevole questa parte di A quiet passion. D’altra parte, come nota ancora Hegel a conclusione del passo sopra ricordato: “il piacevole, il gradevole, invece, hanno un terreno e un interesse – necessariamente – diversi da quelli della storia’”.