Dentro la piazza, nel corteo e nel percorso del 26 novembre, il giorno della manifestazione “NON UNA DI MENO”, cerco di leggere ogni scritta e di ascoltare quante cose hanno da dire i volti delle persone che oggi hanno deciso di essere presenti. Le donne certo, ma anche ragazzi e uomini. Sono arrivata qui da quando a piazza Esedra hanno cominciato ad arrivare a gruppi o, in modo sciolto, tante donne di ogni età e nazionalità, tante ragazze, gruppi scolastici e famiglie. Ho voluto osservare i volti, gli sguardi e le scritte. Ho visto la consapevolezza e la serenità con cui si ponevano i cartelli e gli striscioni per affermare il senso della propria presenza. I colori dei vestiti, i fiori tra i capelli delle donne sudamericane, il sorriso di chi ha dedicato quel giorno a se stessa e alle altre. I segni di chi ha subito e che ha bisogno di questa grande forza collettiva delle altre donne per reagire ed affermare la propria autonomia. “Libere dalla paura di essere”
Da una macchina attrezzata arriva una registrazione. Si parla della sorellanza, questo sentimento profondo che si esprime in un atteggiamento di accoglienza e di solidarietà verso le altre, che diventa un’alleanza contro gli squilibri e le ingiustizie di una società che ancora non si è liberata dal patriarcato. La sorellanza contro la competitività tra donne, quella che viene molto spesso istigata dai meccanismi della nostra società dei consumi e delle apparenze. Dal camion principale la voce dice che dobbiamo aspettare: da alcuni pullman che sono rimasti bloccati. Ancora non sono riuscite a raggiungerci tante altre donne. Noi aspettiamo, noi siamo così, aspettiamo tutte, non lasciamo indietro nessuna. Vogliamo affermare un modo, il nostro, che è diverso da quello che il modello maschile ha imposto.
Le donne migranti ci sono, con la loro presenza che pesa tanto quanto il dolore per chi non ce l’ha fatta ad essere qui. Per tutte e tutti coloro che hanno perso la vita mentre ne cercavano una più dignitosa. “Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” è scritto su più di uno degli striscioni. Questo mi fa pensare alle cose più ovvie, come l’uscire da sola, camminare per strada in luoghi in cui una donna non si può mai sentire sicura, ma anche in qualsiasi strada cittadina, quando si diventa bersaglio di epiteti e di richieste offensive alle quali non dovremmo mai essere esposte.
In Italia i femminicidi (http://www.corriere.it/cronache/speciali/2016/la-strage-delle-donne/) sono un numero notevole, una strage del tutto ingiustificata e ingiustificabile. Non ci sono attenuanti, non ci sono processi che reggano. “Il maschio violento non è malato è il figlio sano del Patriarcato” si sente proclamare nel corteo.
Le strade libere le fanno le donne che le attraversano. E ricordiamo perché è il 25 novembre che ricorre la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Questo evento è stato proclamata in seguito alla tortura e all'uccisione nel 1960 delle sorelle Mirabal da parte del regime di Trujillo, nella Repubblica Dominicana. Erano donne impegnate nella lotta di liberazione del loro paese. Le donne dell’America latina, hanno tanto da insegnarci .“La libertà delle donne è la libertà di tutti” è scritto sul cartello di una ragazza. Mentre sui cartelli del femminismo migrante si esprime la volontà di abbattere i muri. Ci sono i centri antiviolenza, che, purtroppo, sono tanto necessari perché fanno un lavoro anche di prevenzione e di formazione, tenuti con forza da chi vi è impegnata, ma che sono in sofferenza. Anche a Roma fondi a loro destinati sono stati deviati.
“Vogliamo studiare anche la nostra storia, non solo quella degli uomini…” e “Nonostante ci siano più donne laureate degli uomini laureati, a parità di titolo di studio una donna ha meno possibilità di essere assunta. E a parità di mansioni le donne guadagnano fino al 30% in meno”. Tante giovani donne e tanti cartelli da leggere. Non riesco a leggerli tutti. “Se ci fermiamo noi, fermiamo il paese”. Anche i marxisti spesso non fanno i conti su quella parte di lavoro sommerso, quella parte di economia in cui le donne producono senza che il loro lavoro, di cura, di organizzazione e di sostentamento, abbia una valorizzazione dal punto di vista economico, come è giusto che sia.
Durante tutto il percorso, quello di tanti cortei a cui ho aderito, mi guardo intorno. Nelle strade tanta gente osserva e poi noto che tutti quei negozi che di solito chiudono le saracinesche quando ci sono i cortei, sono aperti, i negozianti, quando possono, si affacciano. Una manifestazione di donne…non c’è bisogno di sprangare i negozi…qualcosa di nuovo si affaccia, non ci si aspetta violenza… Ma è così che ci vogliamo affermare, rivoluzionando il modo in cui si concepisce la rivoluzione stessa. Dalle finestre di via Cavour si applaude e si grida a quelle donne che potrebbero essere le nostre mamme, che fanno quel gesto tanto importante negli anni Settanta, per dire: il corpo è mio e lo gestisco io. In quel momento mi accorgo di una donna di un’età imperscrutabile che si appoggia al suo bastone, camminando nel corteo sostenuto da una giovane, voleva esserci. E tutto questo lo rende un giorno davvero speciale.
Questa è l’affermazione di un movimento che attraversa tutte le generazioni, tutti i continenti e che non esclude nessuno, neanche gli uomini, quelli che hanno voluto prendere una posizione, manifestando con noi, contro la violenza di genere. Ed infine, per mettere a tacere alcune chiacchiere di compagni dubbiosi, ecco lo slogan con cui siamo arrivate a San Giovanni e che ha risuonato in molto punti e momenti del corteo: “Patriarcato e capitale: alleanza micidiale”
Comprando Juntos(da una poesia cilena)
…ognuna metteva il poco
che aveva nella pentola
comune. E così le pentole
vuote di ciascuna di noi,
tornavano a casa
con qualcosa per tutti
Poi abbiamo cominciato a
cercare insieme cosa
metterci dentro.
Con i soldi che abbiamo,
nessuna di noi può fare la
spesa al supermarket
Ma se mettiamo in comune
le nostre necessità e il poco
che abbiamo, facciamo la
spesa insieme e riusciamo a
ottenere prezzi migliori.
Per noi questo è solidarietà,
questa è la cooperazione