La quasi totalità dell’economia siciliana è sotto il controllo di Cosa Nostra, che si comporta nei confronti degli imprenditori siciliani come se fosse l’effettivo governo dell’isola, ed in realtà lo è. Questa situazione non è affatto paradossale, anzi è strutturale. Persino nella formazione del modello più tipico di capitalismo, quello inglese, le organizzazioni delinquenziali sono state indispensabili per l’accumulazione originaria del capitale.
di Antonino Infranca
Nei numeri precedenti de La città futura ho pubblicato un articolo analizzando la situazione di un imprenditore siciliano, Gianluca Calì, che si è trasferito dalla Sicilia a Milano per poter mettere in pratica la sua attività imprenditoriale in maniera onesta, per sfuggire allo sfruttamento illegale che Cosa Nostra mette in atto nei confronti dell’economia pubblica e privata nell’isola. È noto, infatti, che la quasi totale economia siciliana è sotto il controllo di Cosa Nostra, che si comporta nei confronti degli imprenditori siciliani come se fosse l’effettivo governo dell’isola, ed in realtà lo è. Ci si potrà chiedere come può un’organizzazione delinquenziale governare di fatto l’economia di una società civile complessa, come è quella della Sicilia, cioè di una regione abitata da quasi sei milioni di cittadini. La risposta si trova nel fatto che il governo nazionale è limitato nella sua azione di governo soltanto agli strati più superficiali, più apparenti, della società civile, mentre in profondità agisce Cosa Nostra.
Questa situazione non è affatto paradossale, anzi è strutturale. Se guardiamo alla formazione del modello più tipico ed originario di capitalismo, quello inglese, notiamo che le organizzazioni e le attività delinquenziali sono state indispensabili per l’accumulazione originaria del capitale. Pensiamo alle navi pirata, o per dirla all’inglese corsare, le navi che ricevevano dalla corona inglese l’autorizzazione a dedicarsi alla guerra “di corsa” per rapinare le navi di Spagna e Portogallo, che erano in guerra con l’Inghilterra. La licenza regale di compiere atti di pirateria contro altri non nobilita un’attività che oggi - secondo le regole internazionali - sarebbe considerata delinquenziale, anche se ammantata di guerra o, meglio, di guerriglia. I pirati, o “corsari”, rapinavano le navi e le città spagnole e portoghesi in America latina e portavano i metalli preziosi nella madrepatria, dove venivano utilizzati per liberare l’aristocrazia inglese dalla servitù della gleba. Proprio così: liberare! I nobili inglesi non dovevano più garantire la vita ai loro servi della gleba, se potevano pagare un salario per il lavoro svolto nelle campagne. Quel salario liberava la forza lavoro inglese dal mantenimento in vita assicurato dalla servitù della gleba e diventava nelle mani dei servi liberati denaro per comprare merci che migliorassero le condizioni di vita della servitù della gleba, che era indotta a lasciare le campagne per spostarsi in città a spendere quel denaro. La forza lavoro che rimaneva in campagna aumentava il suo valore, chiedeva più soldi, le venivano dati e lavorava di meno in campagna, ma di più in casa, producendo merci commerciabili come tessuti di lana. Il crescente consumo di lana indusse l’aristocrazia a tagliare gli alberi della terra comune, a costruire altre navi con quel legname, ad allevare pecore su quelle terre per incrementare la produzione di tessuti di lana. Quell’accumulazione originaria di capitale di natura moralmente discutibile innescò il processo di produzione mercantile capitalistico.
Di natura moralmente discutibile agli occhi degli spagnoli e portoghesi, perché i pirati inglesi non conducevano una guerra in maniera tradizionale, ma una sorta di guerriglia navale. I pirati stessi si consideravano degli eroi e così erano considerati dalla classe dominante inglese, tanto da diventare personaggi gloriosi della storia inglese, come ad esempio Raleigh, Drake, Morgan ecc. e ricevere onorificenze in vita e riconoscenza dopo la morte. In realtà dietro la copertura della guerra, i pirati inglesi compivano azioni di sottrazione di proprietà altrui. E non solo gli inglesi, ma anche francesi, olandesi e danesi. Insomma le originarie nazioni capitalistiche accumularono denaro da investire, cioè capitale, in modo aggressivo e violento. Non di meno erano gli spagnoli e i portoghesi, che però nella stragrande maggioranza dei casi vedevano in quei metalli preziosi una fonte di miglioramento della propria vita, fino a diventare strumenti per una vita di lusso. Così è iniziata quella che gli storici chiamano età moderna, ma che in realtà dovremmo chiamare l’epoca di transizione tra il modo di produzione feudale, fondato sullo sfruttamento agricolo della terra e sul rapporto personale di fiducia che legava sovrano e vassalli e padroni e servi della gleba, a cui era garantita la sopravvivenza in cambio di giornate di lavoro, e il modo di produzione capitalistico, fondato sul denaro/capitale.
Cosa Nostra, nella sostanza anche se non nella forma, ha svolto o svolge la stessa funzione di accumulazione del capitale. L’epoca è diversa e i mezzi sono, infatti, meno aggressivi e violenti, anche se illegali e non tradizionali. Cosa Nostra non ha colonie da sfruttare, come la Spagna e il Portogallo all’inizio della modernità, ma occupa e governa un territorio e su questo territorio svolge la sua funzione di spostamento della ricchezza dai produttori a se stessa, come se fosse una colonia.
Una volta Cosa Nostra agiva agli ordini dell’aristocrazia siciliana per mantenere l’ordine feudale nell’isola. Poi, prima lentamente e poi sempre più velocemente, dopo l’unificazione nazionale, Cosa Nostra passò ad agire autonomamente in alternativa allo Stato nazionale. Man mano che l’aristocrazia siciliana, che aveva accettato e sostenuto il processo di unificazione nazionale, andava perdendo il suo ruolo di dominio politico, sociale ed economico a vantaggio di una borghesia sempre più capitalisticamente aggressiva, Cosa Nostra andava spostando la sua forza regolatrice a vantaggio della borghesia. Cosa Nostra contribuiva alla modernizzazione della Sicilia.
Faccio alcuni esempi. È noto che una delle famiglie borghesi più potenti della Sicilia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è stata quella dei Florio. Partiti dall’essere bottegai, esattamente una bottega di drogheria nella Piazzetta del Messinese a Palermo, arrivarono a possedere l’intero arcipelago delle Egadi, tutte le linee marittime della Sicilia, tutte le ferrovie dell’isola e a trasformarsi in industriali nel settore alimentare. Frequentavano imperatori e re e alle loro porte bussavano capi di governo e ministri. Iniziarono la loro accumulazione di capitale, lanciandosi nel settore vitivinicolo in collaborazione con le famiglie inglesi dei Whitaker, degli Ingham e dei Woodhouse. Ebbero un ruolo determinante nella campagna dei Mille di Garibaldi e condizionarono le scelte dei governi nazionali, utilizzando il loro rappresentate politico, Francesco Crispi. Non erano mafiosi, controllavano Cosa Nostra, che operava nei loro interessi. La loro fortuna durò soltanto per due generazioni: Vincenzo e suo figlio Ignazio Florio, il quale dichiarò apertamente che si considerava un “uomo d’onore”. Era un messaggio preciso per indicare che Cosa Nostra e lui erano una “cosa sola”.
In questo caso Cosa Nostra operava a proteggere l’azione di una famiglia, da cui naturalmente riceveva, a sua volta, ricchezza e protezione economica e politica. Il caso dei Florio è uno dei tanti esempi di famiglie borghesi siciliane che si facevano proteggere e proteggevano Cosa Nostra. Si facevano proteggere nel senso che in una società, dove la violenza era un fatto naturale, era opportuno essere protetti, ma anche per evitare attività di concorrenza economica sgradite, almeno entro l’isola; funzione di protezione più importante era quella di dominare le enormi masse di contadini, che lavoravano le terre delle potenti famiglie aristocratiche e borghesi, o degli operai impiegati negli stabilimenti industriali o nei trasporti. Scrivo “proteggevano” perché, in cambio della protezione, ottenuta ricambiavano con posti di lavoro per i membri di Cosa Nostra. Attorno a queste famiglie si formavano anche attività collaterali di lavoro artigianale, se non artistico, e poi domestici, avvocati, impiegati. Era una piccola società capitalistica che stava crescendo in stretto rapporto con una società segreta che agiva in forma illegale, ma che vantava un codice di comportamento etico e morale.
La borghesia incrementava un processo di accumulazione del capitale, scalzando l’aristocrazia siciliana dal suo ruolo dominante e prendendo il governo dell’isola, tenendo Cosa Nostra in una condizione di subordinazione. Si tenga conto che dal 1887 al 1898, due siciliani hanno governato l’Italia, cioè Crispi e Di Rudinì, con una parentesi di un anno e mezzo, tra il 1892 e il 1893, con il governo Giolitti. Quindi la borghesia mafiosa, utilizzando Cosa Nostra come strumento di intervento violento e con una propria classe politica, divenne una parte importante della classe dirigente dell’Italia.
La situazione mutò con la Prima Guerra Mondiale, quando la classe industriale del Settentrione, per via dell’industrializzazione della nazione, divenne sempre più rilevante nella produzione della ricchezza nazionale. Gli Agnelli sostituirono i Florio e da allora nessun siciliano è più stato Presidente del Consiglio dei Ministri - l’ultimo è stato Vittorio Emanuele Orlando tra il 1917 e il 1919. Il fascismo, poi, attirò le simpatie della borghesia siciliana, che collaborò con il regime per la repressione degli ultimi tentativi di emancipazione sociale da parte dei contadini siciliani. Sotto il fascismo Cosa Nostra si mimetizzò, utilizzando la tattica del “caliti juncu chi passa la china” (“abbassati giunco che passa la piena”). La piena del fascismo passò e lo sbarco degli Alleati assicurò a Cosa Nostra il controllo politico e sociale della Sicilia e con esso anche il controllo economico. Prima la mafia agricola impose prezzi delle merci e della forza-lavoro favorevoli a se stessi e ai suoi commerci negli Stati Uniti (agrumi e olio, principalmente). Poi negli anni Sessanta si passò alla raffinazione di droga e, negli anni Ottanta, allo sfruttamento delle attività commerciali. Il controllo di Cosa Nostra sulla società siciliana si è fatto sempre più stretto e più efficiente in senso negativo, impedendo la nascita di una imprenditorialità legale e produttiva. Il caso di Gianluca Calì è solo l’ultimo di una lunga lista.