Negli ultimi mesi, tutti e tutte noi abbiamo assistito direttamente e indirettamente ad una quantità impressionante di fenomeni cataclismatici. Questi eventi ci hanno obbligato a constatare una fredda e traumatica realtà, quella del repentino cambiamento climatico e della crisi ambientale. Le immagini degli incendi in italia, così come le inondazioni devastanti in Germania hanno dimostrato come l’approccio dell’uomo negli ultimi secoli nei confronti della natura sia stato fallimentare. Le premesse, già di fatto distopiche, prevedono tuttora una crescita infinita in una biosfera finita, un accrescimento della tecnica che non prevede, al traguardo, null’altro che non sia altro “miglioramento” della tecnica, e così all’infinito.
L’errore della visione capitalista nell’approccio alla natura può essere riscontrato nelle categorie di pensiero che risiedono alla radice dell’impostazione economica moderna. La categoria del dominio, prettamente cristiana ed ebraica e intesa già nella Genesi come “dominio dell’uomo sul creato”, ne è un esempio lampante. La tecnicizzazione totale della società e la globalizzazione sfrenata hanno giocato da catalizzatori e portato ad una repentina modifica nella percezione della natura. L’uomo ultraglobalizzato, oggi, tende arrogantemente a elevarsi al di sopra della Natura, dimenticandosi di essere, anch’esso, parte di essa. La categoria del dominio, posta come condizione aprioristica dell’economia globalizzata è tra le cause prime della nostra distorta e suicida percezione della Natura. Quando l’uomo capitalista volge lo sguardo ad un fiume, infatti, subito visualizza energia elettrica. Quando si imbatte in una foresta centenaria, subito quantifica le unità di legname che potrebbe trarre dal disboscamento. Quando tasta sotto i piedi il suolo, immediatamente ragiona di quali risorse esso possa essere espropriato. La Natura, quindi, non è più vista e percepita come nostra casa, ma interiorizzata dalla categoria del dominio, e declassata a mera materia prima.
Traumatica è l’estremizzazione di questo filone, che porta in ultima analisi alla percezione dell’uomo stesso, in quanto prodotto di natura, ad essere percepito come mera materia prima. L’espropriazione del valore del lavoro è la condizione in cui si ritrova la classe subalterna di più di tre quarti del pianeta, sfruttata nella ricerca di un plusvalore. L’alienazione dal prodotto e dalla produzione, si fonde così ad un’alienazione rispetto alla natura, percepita unicamente come soggettività da sfruttare e non già come universale e in cui coesistere. Già Karl Marx, nei suoi scritti propose il comunismo come soluzione a questa dinamica, sottolineando l’importanza della soppressione positiva della proprietà privata, dell’accumulazione sfrenata di ricchezza e di una tecnica che non concepisce altro che crescita. Si propose il comunismo come reale ri-appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò, come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale e naturale. Questo comunismo, scrisse Marx, sarebbe la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo e tra l’uomo e l’uomo.
Indissolubile e intrinseco è il rapporto tra lotta di classe e ambientalismo, riscontrabile ad esempio nella disparità relativa alla disponibilità di risorse naturali di prima necessità (e non quindi di materie prime da sfruttare), come acqua e grano. Riportando i dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nel 2019, 785 milioni di persone nel mondo non hanno accesso ad un servizio di base per l’acqua potabile, compresi 144 milioni di persone che dipendono dalle acque superficiali.
A livello globale, almeno due miliardi di persone utilizzano una fonte di acqua potabile contaminata da feci. L’Oms stima, inoltre, che entro il 2025, metà della popolazione mondiale vivrà in aree con carenza idrica.
Le crisi mondiali che stiamo vivendo, di conseguenza, difficilmente verranno superate se non verranno rivisti i modelli di produzione, di consumo, e di efficienza (in senso prettamente economico) che hanno portato a tale disastro. Come impostare un’economia, come allocare le risorse, come allinearsi alla “produzione naturale”, ai cicli e alle leggi della natura; queste le domande fondamentali nel breve periodo. Inoltre, si profila necessario iniziare a discutere di lavoro, di classe e di produzione, avendo ben chiaro che la prospettiva più ampia sia quella ambientale, perché né classe né lavoro né produzione avranno un significato reale in un mondo che collassa pezzo dopo pezzo.
Nei loro preziosi scritti, Raymond L. Bryant e Sinéad Bailey ricordano a tutti e tutte noi l’importanza del fattore politico nella pratica dell’ecologia. I cambiamenti climatici e ambientali non influiscono sulla società in maniera omogenea. Le differenze politico – sociali ed economiche determinano una distribuzione disomogenea dei costi e dei benefici. Questa distribuzione, e il rafforzamento o la riduzione delle disuguaglianze preesistenti hanno implicazioni politiche in termini di alterazione dei rapporti di potere che ne derivano. L’ingiusta allocazione di questi costi è strettamente collegata ad un concetto, più volte tirato fuori dalle giovani e oceaniche piazze delle ragazze e dei ragazzi di Fridays For Future: quello della Giustizia Climatica. Quest’ultima rivendicazione si traduce nella condizione per la quale le soggettività che più impattano sul cambiamento climatico dovrebbero essere quelle che più sopportano i costi di mitigazione e adattamento, costi che invece ricadono principalmente e in proporzione, sui paesi più poveri, su quelli tropicali o predesertici, sulle isole in cui vivono le comunità più a rischio.
Se politiche sono state le scelte che ci hanno portato fino a questo punto, politiche saranno anche le scelte che ci tireranno fuori. Si profila necessaria la costituzione di un dibattito politico che dia all’ecologia politica uno spazio di rilievo. Un altro modello di sviluppo, ci ricordano economisti moderni come Kelton e Piketty, non è solo possibile, ma è anche necessario. L’implementazione di nuovi modelli di politica economica, una revisione del ruolo sociale dell’indebitamento pubblico, diverse allocazioni iniziali di risorse e welfare, sono le condizioni di partenza che ci potrebbero permettere di modificare il nostro sistema economico, e quindi il suo impatto sull’ambiente. Una “ribellione” razionale e organizzata ai diktat di BCE e FMI, che permetta a tutti e tutte noi di liberarci dal fardello enorme che è il mito del deficit e alla narrativa dello Stato spendaccione, che scientemente viene utilizzata da troppo tempo per giustificare la passività delle istituzioni anche per ciò che riguarda la crisi climatica. Una narrazione antica, ma rafforzata ampiamente dopo il 2008, per giustificare deregolamentazioni finanziarie criminali e scelte scellerate di fondi privati d’investimento, i cui effetti, come sempre, sono ricaduti su ambiente, lavoratrici e lavoratori.
La consapevolezza di questa condizione è già un passo avanti verso la giusta direzione. Non possiamo e non dobbiamo assistere impassibili al nostro disfacimento, terreno e morale. Sentirsi e vivere da partigiani è necessario, prendere parte attiva è obbligatorio. Non c’è più tempo da perdere.
“E già Sofocle nell’Antigone c’era arrivato, scrivendo che se l’aratro fende la terra, la terra si ricomporrà dopo il suo passaggio. Se la nave fende le acque del mare, la calma trasognata delle acque ricomporrà la quiete.”