Dagli anni '80 in molti pesi del mondo il Fondo Monetario Internazionale (e in Europa la Bce) ha proposto/imposto politiche di liberalizzazione e privatizzazione di interi settori dell'economia. Il risultato non è stato il benessere promesso, ma l'indebolimento degli apparati statuali e l'infiltrazione di fenomeni regressivi come il fondamentalismo armato islamico e l'espansione della criminalità organizzata. I casi di Siria, Nigeria, Ucraina e Messico.
di Stefano Paterna
I cupi tamburi della “santa guerra” iniziano di nuovo a risuonare. Personaggi come Giuliano Ferrara scomparsi dal video perché usurati dal sanguinoso fallimento della seconda guerra del Golfo sono riapparsi, tristi barometri dell'umore generale dell'imperialismo occidentale dopo le stragi in Francia per mano degli integralisti islamici.
Pochi, invece, gli osservatori interessati a indagare su un curioso fenomeno che si allarga a macchia d'olio in questi anni: quello degli stati falliti. Dal Medio Oriente all'Africa, dall'America Latina all'Europa, si aprono dinanzi ai nostri occhi crisi statuali che hanno ovviamente caratteristiche molto differenti: a volte esplodono in conflitti armati di violenza estrema (Siria, Nigeria), in altre sono contraddistinte dalla progressiva degradazione della legalità formale e dall'ascesa al potere reale di organizzazioni criminali (Messico), ma tutte hanno in origine l'adozione di politiche economiche raccomandate da organismi sovranazionali quali il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Centrale Europea (Bce).
Cos'è uno Stato fallito? La risposta è piuttosto semplice: è un'organizzazione politica che non riesce più a fare il proprio mestiere. Ovvero se prendiamo Engels [1] come riferimento: “Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa”.
In pratica, lo Stato, per il marxismo, è l'espressione di classe del monopolio della forza. Proprio questo monopolio in questi ultimi anni viene infranto con una frequenza crescente, in genere e purtroppo non da rivoluzioni popolari, ma dall’usurarsi progressivo dei margini di consenso o semplicemente di sopportabilità, di cui godevano molti regimi di varia natura in giro per il mondo.
Ad esempio, la permeabilità al fondamentalismo islamico armato che tanto inquieta le opinioni pubbliche occidentali, è strettamente legata all'imposizione di ricette neoliberiste in paesi come l'Algeria prima e in seguito la Libia, la Siria e in tutt'altro contesto la Nigeria.
La Siria, la cui guerra civile in questi anni è divenuta l'incubatore di fenomeni terribili come lo “Stato islamico”, ha conosciuto con l'attuale presidente Bashar Al Assad una politica di apertura ai mercati e di privatizzazioni, in discontinuità con quella del padre che aveva assimilato elementi del modello di sviluppo sovietico. Nel 2004 il giovane presidente faceva approvare infatti una legge che consentiva l'apertura di banche e assicurazioni private, nel marzo del 2009 si apriva la Borsa, sotto il secondo Assad si è inoltre approvata una legge sugli investimenti stranieri. Non è poi così lontana l'immagine di Bashar come di un giovane modernizzatore che i mass media occidentali diffondevano: si era appunto intorno all'inizio del secolo. Eppure la disoccupazione aumentava e nel 2011 all'immediata vigilia della cosiddetta “primavera araba”, un terzo della popolazione siriana viveva sotto la soglia della povertà.
Un fenomeno simile ha vissuto la Libia, il cui leader Gheddafi da pericoloso terrorista internazionale era divenuto, prima di essere deposto e ucciso in seguito all'intervento occidentale a guida franco-statunitense, una sorta di “parvenù” dei salotti buoni dell'establishment europeo (basti ricordare le accoglienze berlusconiane al leader libico). A partire dal 2000, contemporaneamente alla fine delle sanzioni internazionali, il rais libico varava in effetti una politica di liberalizzazione dell'economia. Nell'agosto del 2004 la Libia metteva all'asta 15 concessioni petrolifere, ben 11 delle quali andavano a compagnie statunitensi. Ma i risultati dell'apertura economica all'Occidente non si concretizzavano. Tralasciando i dati della Cia che affermavano che sotto Gheddafi la disoccupazione era giunta al 30 per cento, tuttavia le politiche neoliberiste accettate dal regime di Tripoli avevano aumentato le disuguaglianze sociali, nonostante il paese continuasse a godere di un reddito pro capite tra i più alti del continente africano, più di 11mila 300 dollari all'anno, frutto della rendita petrolifera.
Rendita petrolifera di cui hanno sempre solo sentito parlare gli oltre 160 milioni di nigeriani.
Questo paese africano non ha mai avuto alle spalle esperienze di nazionalizzazione economica paragonabili a quelle della Libia e della Siria. La sua industria petrolifera è in gran parte in mano a multinazionali (nel delta del Niger ad esempio Shell e Chevron). Però, nel 2000 in cambio di “riforme economiche” doveva ottenere un miliardo di dollari dal Fmi. Insomma, la solita storia di indebitamento, prestiti, privatizzazioni e crescita del debito. Vi sarà una relazione con l'esplosione della feroce setta denominata Boko Haram nel nord del paese?
Suona particolarmente sarcastico il significato del termine “Boko Haram” (l'educazione occidentale è peccato) se si osserva che nelle fasce più povere, ai bambini, non è garantito nessun accesso a un'aula, nemmeno a quella di una scuola coranica.
Ma passiamo a un altro continente, all'America latina nella sua versione messicana. Qui ci troviamo dinanzi un paese che dagli anni '80 in poi ha svenduto le conquiste più importanti della Rivoluzione (la prima del '900) e della presidenza di Lazaro Cardenas, il Roosevelt messicano. La borghesia messicana a partire dalla presidenza Salinas ha privatizzato banche e telefonia e nel 1994 ha firmato il Nafta: il trattato di libero scambio nordamericano con il quale si è distrutta l'industria locale (riducendola al ruolo di subappaltatrice nella catena di produzione delle multinazionali) e si è invaso il mercato nazionale con prodotti yankee. Ora si è aperto alla privatizzazione anche il settore energetico nazionalizzato da Cardenas negli anni '30. Ebbene, il Messico si ritrova in una condizione di estrema corruzione degli organi dello Stato, dalla polizia alla pubblica amministrazione e con interi settori industriali direttamente gestiti dalla criminalità organizzata (l'esempio più recente è il controllo del settore minerario nello Stato del Michoacan da parte del cartello denominato dei “Cavalieri Templari” contro il quale si è dovuto mobilitare l'esercito). Il massacro degli studenti nel Guerrero, ad esempio, si sarebbe prodotto attraverso una orrida collaborazione tra elementi della polizia e bande criminali.
Nella stessa Europa, le vicende ucraine, al di là delle cortine di fumo nazionalistiche, fanno intravedere la volontà di resistere da parte di ampi settori popolari (i minatori del Donbass) alla volontà di privatizzazione dell'industria nazionale da parte del Governo di Kiev, imposta da Ue e Usa.
Non è questa ovviamente la sede per trarre leggi di ordine generale, ma uno spunto per la riflessione sì. Pare evidente che in questi trenta anni le politiche neoliberiste spacciate dal Fmi come l'unico modo per aprire la via dello sviluppo a paesi che non godevano della supremazia tecnologica ed economica di Usa, Europa e Giappone, si siano invece rivelate come un cappio al collo con corda insaponata. Il liberismo ha indebolito questi Stati, li ha privati del controllo delle proprie risorse energetiche e delle materie prime, li ha resi permeabili all'infiltrazione di fenomeni regressivi di natura diversa, come il fondamentalismo armato e la criminalità organizzata che hanno costruito dei propri apparati statuali, controllando interamente parti di territorio. Rimane da chiarire se anche questi fenomeni indotti siano strumenti di controllo da parte Un dibattito su questo tema potrebbe essere utile.
Bibliografia:
[1] Frederich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, 1976, p. 202.
Sitografia:
Sul Messico: http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMonde- archivio/Dicembre-2014/1412lm13.02.html&word=messico