Riflessioni sul detto comune: questo può essere giusto in teoria ma non vale per la prassi, in riferimento ai grandi e terribili avvenimenti che dalla Grecia rischiano di sconvolgere l’intera Europa. Per quanto le considerazioni teoriche, ispirate ai grandi classici del marxismo, siano necessariamente troppo astratte per essere applicate in modo meccanicistico ad un diverso contesto storico, restano un riferimento indispensabile per considerare gli attuali tragici avvenimenti in un’ottica indipendente dal pensiero unico dominante
di Renato Caputo
L’analisi storica porta Lenin a comprendere, dinanzi alle difficoltà incontrate dal processo rivoluzionario russo, che il popolo che per primo opera un tale processo, giova alla liberazione dell’intera umanità ma attira su di sé la violentissima reazione da parte degli altri Paesi in cui la rivoluzione non è ancora avvenuta. In altri termini, lo schiavo che per primo si ribella, rischia certo una punizione esemplare, rischia che la violenza dei propri padroni, anche nel caso riuscisse a porsi in salvo, ricada sul proprio nucleo familiare. Proprio perciò le sue esitazioni nel processo di ribellione, indispensabile alla futura emancipazione - non solo sua e dei suoi cari ma di tutti gli schiavi - sono più che comprensibili. D’altra parte solo una rapida rottura delle catene può consentire una reale liberazione e può anche impedire allo schiavo e a suoi di cadere sotto i colpi della repressione. Perciò uno schiavo che nell’atto stesso di liberarsi, pretende di stare a trattare le condizioni della propria liberazione con i suoi stessi aguzzini, corre il rischio di essere travolto non solo lui e i propri cari ma, appunto, di far aumentare le misure repressive sull’intera massa degli schiavi.
Allo stesso modo, però, sbaglia chi, rimanendo incatenato, si limita a criticare gli errori che necessariamente compie chi sta cercando, esponendo a tremendi rischi sé e i suoi cari, di liberarsi. L’azione in quanto tale non può corrispondere perfettamente all’intento razionale che ne è alla base, perché sul piano interiore della razionalità tutto ritorna, mentre nel momento in cui la ragione deve alienarsi nell’altro da sé della vita reale, deve necessariamente fare i conti con forze contrastanti che si oppongono ai suoi fini. Altrettanto necessariamente, allora, i risultati dell’azione non corrisponderanno mai del tutto con le buone intenzioni che ne erano alla base. Questa è la natura tragica che ogni azione porta con sé. Perciò l’azione più colpevole finisce per essere quella di chi, consapevole dei rischi dell’azione, non agisce, lasciando così campo libero alle azioni di chi non è altrettanto consapevole.
Questo è il rischio che corre ogni anima bella che si limita a giudicare impietosamente le azioni altrui necessariamente colpevoli. In tal modo, l’anima bella finisce con assumere le tragiche sembianze di Cassandra o, più prosaicamente, del grillo parlante, rischiando di fare le fine del corvo del film Uccellacci e uccellini. Particolarmente odioso è il ruolo dell’anima bella la quale, dalla sicura pianura, si limita a criticare l’alpinista che nello scalare una montagna che nessuno ha ancora scalato, a un certo punto è costretto a tornare indietro, sperando di trovare una via migliore. Come ricordava Brecht nel Me-Ti, richiamandosi a Lenin, tornare indietro nella speranza di poter meglio avanzare è sempre la cosa più difficile e, in tali casi, le urla di tradimento che vengono dall’anima bella rimasta al sicuro in pianura non possono che creare ulteriori difficoltà all’intrepido apripista.
Detto questo, però, considerato che l’impresa è comune, ossia o si riesce ad avanzare, in momenti diversi, tutti, o chi va troppo avanti rischia di ritrovarsi da solo, facendo la fine di Socrate o Cristo, è anche necessaria una certa divisione dei compiti. In effetti, ogni azione aprendosi all’imprevedibile non può essere troppo riflessiva, anche perché se giunge troppo tardi finisce con essere inefficace. Perciò la riflessione, pur riflettendo sulle azioni e con il fine di individuare azioni sempre più efficaci, resta necessariamente distinta dall’azione. Anzi, come notava Hegel, in ogni epoca storica ci sono popoli tutti presi dall’azione, come oggi ad esempio diversi popoli dell’America latina, e altri popoli che, non riuscendo ad agire in modo significativo, debbono supplire sviluppando la riflessione.
È chiaro che in questa fase in Italia, dopo essere stati per alcuni decenni all’avanguardia nell’azione in Europa occidentale, è il momento di incrementare la riflessione, che per non essere sterile deve vertere in modo necessariamente critico sulle azioni altrui ed, in Occidente, in primo luogo sulle azioni dei compagni greci, i più avanzati da questo punto di vista. D’altra parte come ci insegna Machiavelli, prima ancora che Gramsci, la riflessione non può che essere, spietatamente, realista. L’ottimismo della volontà, indispensabile a ogni azioni significativa, deve necessariamente accompagnarsi al pessimismo della ragione.
Perciò chi agisce deve necessariamente “perdonare”, come insegna la Fenomenologia dello spirito, l’acribia critica di chi riflette, e chi riflette deve altrettanto necessariamente “perdonare” le mani inevitabilmente sporche di chi agisce. Come l’anima bella deve superare i propri limiti riconoscendosi nell’uomo del corso del mondo, altrettanto deve fare quest’ultimo se non vuole che il suo agire sia una mera prosecuzione, conservativa, dell’esistente, in quanto tale “altro” dalla ragione.
Da questo punto di vista, allarmante è una certa tendenza che si sta affermando nella sinistra greca, ossia che, considerati gli attuali rapporti di forza, occorre concordare con l’avversario un compromesso onorevole che consenta di salvare la faccia, ottenere i finanziamenti, senza mettere in discussione l’ordine costituito, in attesa che anche altri Paesi, in primis Spagna e Italia, trovino il coraggio di ribellarsi. Questo significa, sostanzialmente, abiurare al proprio ruolo di avanguardia. Analogamente deprecabile è il ruolo di quelli esponenti della sinistra italiana che, senza avere il coraggio di rompere con l’esistente, ossia con l’ordine costituito, aspettano la liberazione da Syriza o Podemos.
Dal punto di vista della riflessione il discorso è analogo, per quanto non bisogna spingersi troppo avanti rispetto al senso comune delle masse e alle difficoltà che necessariamente incontrano gli uomini di azione; occorre per forza rompere in modo rivoluzionario con il pensiero unico dominante, strumento di egemonia delle classi dominanti. Perciò Lenin non si stancava di ripetere che la verità è rivoluzionaria, perciò il giornale bolscevico si chiamava Pravda, perciò il pensiero unico oggi dominante ama sostenere che la verità non esiste, che esistono solo le opinioni e, perciò, a prevalere sarà necessariamente il punto di vista del più potente.
Certo lo stesso Kant, il filosofo del rigorismo morale, non poteva che riconoscere come il politico debba fondere in sé la candidezza della colomba e la prudenza del serpente. Questo, tuttavia, aggiungeva Kant, non può in alcun modo giustificare la menzogna, in quanto tale controrivoluzionaria aggiungerebbe Lenin. Perciò al politico che non vuole abiurare alla propria funzione progressiva non è concesso mentire ma al massimo omettere una parte della verità.
Se tale necessario compromesso con la prudenza del serpente è lecito nel politico, che ha a che fare con l’altro da sé della vita reale, molto meno tollerabile è nell’uomo della riflessione, che non può in alcun modo rinunciare allo spirito critico e all’analisi impietosamente realista, se non vuole divenire un conservatore che si riduce all’apologia dell’esistente. In altri termini, in questo caso, molto meno tollerabile è omettere parte della verità.
Ora, lasciamo all’unico giudice universale, ossia alla Storia, di stabilire se quei rappresentanti politici della sinistra greca, che sostengono che sia possibile coniugare internità all’Unione Europea, all’euro e alla Nato e realizzazione della giustizia sociale, stiano mentendo o semplicemente omettendo una parte della verità; ossia stiano omettendo di dire che ciò è vero unicamente in questo determinato contesto storico di rapporti di forza sfavorevoli, in attesa di ripartire al fianco di altri popoli all’attacco di tali capisaldi dell’imperialismo europeo. Come uomini della riflessione non possiamo omettere che ciò non è possibile, che è, nel migliore dei casi, un semplice accorgimento tattico, ma che bisogna da subito attrezzarsi a rompere con l’Unione Europea, l’euro e la Nato, oltre che con il debito e l’austerity, se si vuole realmente battersi per la giustizia sociale. In altri termini, la necessaria prudenza del serpente può suggerire al politico, dinanzi a rapporti di forza decisamente sfavorevoli, di celare i propri intenti rivoluzionari, ossia la necessità di abbattere il capitalismo e di riaprire la transizione al socialismo se si intende veramente realizzare la giustizia sociale. L’uomo della riflessione, il teorico, se non vuole essere un mero ideologo, un Tui, un apologeta dell’ordine costituito, non può che denunciare che all’interno del modo di produzione capitalista, tanto più nella fase della sua crisi, è assolutamente irrealistico considerare realizzabile la giustizia sociale. Non fosse altro che il capitalismo si fonda sullo sfruttamento della forza lavoro, che i proletari (la maggioranza della popolazione attiva) sono costretti a vendere per avere accesso ai mezzi di produzione e di sussistenza controllati in modo monopolistico dalla grande borghesia, una sparuta minoranza che vive nel lusso alle spalle della stragrande maggioranza del genere umano e, nei Paesi a capitalismo avanzato, a discapito di un ulteriore necessario sviluppo dei mezzi di produzione. Dal punto di vista teorico non si può, infatti, che denunciare come una parola d’ordine reazionaria la decrescita. Considerato che oggi miliardi di esseri umani hanno a disposizione per vivere circa due dollari al giorno, è evidente che una pura e semplice redistribuzione della ricchezza esistente, espropriando gli espropriatori, non sarebbe risolutiva, perché ognuno avrebbe a disposizione un massimo di cinque dollari al giorno. Allo stesso modo, se in determinate condizioni un politico progressista può sostenere la necessità di difendere lo Stato sociale, da un punto di vista teorico non ideologico è evidente che uno Stato fondato sullo sfruttamento della forza lavoro della maggioranza dei suoi cittadini non può essere sociale, tanto più che porta avanti una politica necessariamente imperialista all’estero.
Perciò, bisogna esecrare chi continua a considerare dal punto di vista teorico un modello da seguire, o addirittura un governo rivoluzionario, il governo di un Paese capitalista, parte integrante di un’alleanza economica e militare imperialista, in cui la sinistra - pur avendo la maggioranza - lascia come capo dello Stato e come ministro della difesa uomini di destra. Queste opinabili scelte, che possono essere giudicate comprensibili visti i rapporti di forza, restano assolutamente esecrabili, appunto, dal punto di vista teorico, dal punto di vista della verità, in quanto implicano la rinuncia a priori a qualsiasi reale possibilità rivoluzionaria. È evidente, in effetti, che la classe che, grazie al monopolio dei mezzi di produzione e di sussistenza, vive nel lusso alle spalle della maggioranza della popolazione, non rinuncerà mai in modo pacifico a difendere i propri privilegi. Dunque, lasciare completamente nelle sue mani il controllo dello Stato e delle forze armate, concedendo alla destra il monopolio della violenza legale, significa di fatto rinunciare a priori a mettere in discussione i rapporti di proprietà su cui si fonda il mancato sviluppo dei mezzi di produzione e le crescenti diseguaglianze economiche e sociali.
Inoltre è evidente che un Paese sull’orlo del fallimento come la Grecia, che si ostina a spendere il 2% del Pil in armamenti, non potrà mai mettere in discussione quelle profonde diseguaglianze sociali. È altrettanto evidente che la destra, controllando il Ministero della Difesa, non permetterà di rimettere in questione in maniera significativa le spese in armamenti e tantomeno l’appartenenza alla Nato, o la difesa con la violenza legalizzata di rapporti di produzione che sono alla base dell’attuale crescente ingiustizia sociale. In tal modo, inoltre, non sarà nemmeno possibile, ad esempio, abbattere i vergognosi muri costruiti dai governi precedenti in funzione anti immigrati, in modo da implementare il razzismo e dividere i lavoratori, immigrati che adesso forniscono la scusa a governi di desta ( come quello ungherese) di edificarne di nuovi.
In conclusione di questa seconda parte del nostro ragionamento [1], non possiamo che sostenere essere indispensabile lo sviluppo di una riflessione critica e, perciò, non ideologica in quei Paesi ancora incapaci di agire in modo significativo in direzione contrastante con l’ordine costituito. Sostenendo, in primo luogo, che l’unico reale sostegno alla lotta dei lavoratori greci, non tutti simpatizzanti di Syriza e tantomeno di Tsipras, consista nel riprendere la lotta di classe per rimettere in discussione rapporti di forza troppo sfavorevoli. In secondo luogo, è indispensabile far comprendere alle masse che l’unico modo per farla finita con la crisi, lo sfruttamento e l’ingiustizia sociale, è farla finita con il modo di produzione capitalista e rilanciare la transizione al socialismo, sui due cardini della pianificazione economica, previa socializzazione dei grandi mezzi di produzione, e della democrazia consiliare.
Note
[1] Per la prima parte rinvio a http://www.lacittafutura.it/mondo/europa/syriza-podemos-quando-anche-noi-venceremos.html, per le parti seguenti a successivi interventi per sviluppare da un punto di vista teorico e storico queste riflessioni introduttive di carattere generale.