Le scuse di ArcelorMittal e le complicità dello Stato

I motivi avanzati per giustificare il recesso appaiono più che pretestuosi e servono a nascondere e giustificare legalmente l’abbandono o il parziale disimpegno, senza pagare pegno.


Le scuse di ArcelorMittal e le complicità dello Stato

Nelle ultime settimane la questione ILVA ha subito importanti accelerazioni che dimostrano come il recesso di ArcelorMittal sia stato attentamente preparato e pianificato. I motivi avanzati per giustificare tale decisione - scudo penale e sequestri della magistratura - appaiono più che pretestuosi e servono a nascondere e giustificare due possibili scenari. Il primo è la progressiva cessazione delle attività produttive ed il graduale spegnimento degli altiforni, una scelta senza ritorno, suscettibile di danneggiare irreparabilmente gli impianti industriali e portare alla chiusura della più grande acciaieria d’Europa. Il secondo è la rinegoziazione integrale degli accordi precedentemente stipulati, che prevedono precisi investimenti per assicurare la sicurezza dei lavoratori e migliori standard ambientali, oltre all’incremento della produzione del 30% ed il mantenimento dell’occupazione.

In ambedue i casi, così facendo, la multinazionale si assicura la distruzione di una parte della capacità produttiva che a livello mondiale è ampiamente in eccesso, legalmente e senza costi aggiuntivi. Per raggiungere il proprio obiettivo, l’azienda guidata da Lucia Morselli non si fa scrupoli nell’innalzare il livello dello scontro attraverso comportamenti “programmati in modo da recare il maggior possibile livello di devastante offensività” come sottolineano i commissari governativi che stanno gestendo la transizione: “nessun preavviso della iniziativa di recesso, indisponibilità ad un esame congiunto della situazione con gli amministratori per l’adozione di un piano condiviso, sostanziale mancanza di disponibilità a concordare iniziative conservative dei beni aziendali”.

Una strategia, per altro, già adottata con successo nello stabilimento siderurgico di Hunedoara in Romania, acquisito nel 2004 e che ha visto i dipendenti passare da 20 mila a 700. E in Irlanda, quando nel 2001 la multinazionale ha chiuso l’impianto a Cork acquistato tre anni prima dal governo al prezzo di ben una sterlina irlandese (poco più di un euro al cambio di allora) e ha pure vinto la causa intentata dalle autorità che volevano quantomeno accollare all’azienda i costi di smaltimento dell’impianto e di bonifica ambientale stimati in 70 milioni. O come sta facendo proprio in questi giorni a Saldanha, in Sud Africa, dove ArcelorMittal ha annunciato la chiusura dell’impianto ed il licenziamento dei suoi 1.000 dipendenti.

L’integrale ripristino dello scudo penale (e amministrativo) e l’approvazione di una legge che permetta di tenere aperti gli altoforni sotto esame della magistratura per ancora 14-16 mesi, due delle quattro richieste avanzate dalla multinazionale per non abbandonare Taranto, sono soltanto degli specchietti per le allodole. I veri motivi si evincono dalle altre due richieste: l’autorizzazione al licenziamento di circa 5.000 dipendenti ex-ILVA (la metà dell’intero organico) e la riduzione del 33% degli obiettivi produttivi concordati, da sei a quattro milioni di tonnellate l’anno, portando la produzione a scendere dell’11% rispetto agli attuali livelli, che al momento viaggiano sulle 4,5 milioni di tonnellate.

Che quella dell’immunità penale (scriminanti speciali, come si dice in gergo tecnico) introdotta nel 2015 dal governo Renzi sia una scusa è emerso chiaramente. Secondo la multinazionale, la mancata proroga dello scudo comporterebbe una modifica del Piano Ambientale tale da rendere non più realizzabile il piano industriale. Ma “il tema vero - ha detto Conte in conferenza stampa il 5 novembre - è che Mittal ritiene gli attuali livelli di produzione non riescono a remunerare gli investimenti. È un problema industriale. Lo dimostra il fatto che nell’incontro l’immunità l’ho offerta e mi è stata rifiutata. Ci è stato detto che non era questo il tema o quantomeno non era il tema risolutivo”.

Ma neanche l’altra motivazione addotta dall’azienda per giustificare la chiusura degli stabilimenti è credibile. L’impossibilità di tenere aperti gli altiforni a causa dei sequestri della magistratura, infatti, non deriva dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria ma dalla mancata convenienza ad implementare prescrizioni segnalate da oltre cinque anni attraverso una tecnologia che è disponibile sul mercato da tre lustri. Tutti i sequestri della magistratura, infatti, sono stati successivamente annullati (dal governo, nel 2012, o dagli stessi tribunali nel 2015 e nel 2019) sempre a condizione che si attuassero le prescrizioni funzionali a ripristinare adeguati livelli di sicurezza dell’impianto che ad oggi non sono stati completati e che difficilmente possono essere imposti ad un’azienda formalmente in perdita.

L’assenza dello scudo penale e l’interventismo della magistratura, dipinta come il poliziotto buono della storia ma in realtà coresponsabile, non spiegano la gestione posta in essere dai nuovi proprietari, come la sottoscrizione di contratti di fornitura maggiormente onerosi e la successiva interruzione degli ordini e degli acquisti delle materie prime, con lo svuotamento del relativo magazzino, che al momento del subentro di ArcelorMittal valeva 500 milioni e oggi zero. Né spiegano la vendita sottocosto dei prodotti finiti ad aziende del gruppo né il rifiuto di nuovi ordini da parte di clienti terzi, dirottati verso altre aziende del gruppo. E neanche il mancato pagamento e l’interruzione dei rapporti con i subfornitori né, tanto meno, il lento avanzamento del Piano Ambientale e l’interruzione della manutenzione degli impianti, fin’ora eseguita con modalità non corrette e poco diligenti, come denunciato dai lavoratori e ammesso anche dall’azienda il 25 settembre, quando ha dichiarato che “molte delle attività di manutenzione degli altiforni contenute nel contratto e programmate per il periodo novembre 2018 - aprile 2019 non sono state eseguite o sono state eseguite solo in parte”.

Queste azioni, invece, sono coerenti con la creazione di un buco di bilancio - si stima che l’Ilva produca perdite per 2 milioni di euro al giorno - teso a giustificare la mancata convenienza a continuare a dare esecuzione agli obblighi in precedenza assunti se non addirittura la chiusura. Un atteggiamento tutt’altro che incoerente da un punto di vista meramente economico in quanto, come evidenziato anche dai manuali di economia aziendale in uso nelle università, in certe condizioni l’efficienza complessiva di un gruppo multinazionale può aumentare con la condotta di singole unità in perdita. E in altre condizioni la chiusura di un impianto favorisce la vitalità degli altri.

In questo contesto che cosa fanno i sindacati? Occupano la fabbrica? No, chiedono il ripristino dello scudo penale. E il governo? È pronto a ripristinare lo scudo penale, ad abbassare il canone di affitto che attualmente ArcelorMittal paga in attesa di completare l’iter di acquisizione (180 milioni al mese), a mettere sul piatto ammortizzatori sociali per 2.500 operai, che si andrebbero ad aggiungere ai 1.273 già in cassa integrazione, e a coinvolgere la Cassa depositi e prestiti per sgravare la multinazionale di una parte dei costi o per sostituirla, in caso le trattative finiscano con un nulla di fatto. Il tutto che si va aggiungere ai 23,5 miliardi di costi maturati tra il 2012 e il 2018 e posti a carico dei contribuenti (ArcelorMittal ne paga 1,8 per diventare proprietaria). Insomma, tutto il contrario di ciò che un governo minimamente socialdemocratico dovrebbe fare.

La magistratura, dal canto suo, indaga ArcelorMittal per violazione dell’art. 499 del codice penale, che prevede la reclusione da tre a dodici anni per chiunque che, “distruggendo materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale o fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo”. Avranno il coraggio di andare fino in fondo? C’è da dubitarne. E poi ci si stupisce se vince Salvini…

24/11/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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