(*) Il Capitale, subito dopo la pubblicazione del primo libro, venne definito “la Bibbia della classe operaia” e, secondo la stessa affermazione di Marx, “il più terribile proiettile scagliato contro la borghesia” [1]. Abbiamo visto infatti che il lavoro viene individuato come l’unica fonte del valore e quindi all’origine del profitto, dell’interesse e della rendita ci sia il lavoro non pagato. Lo stesso capitale è lavoro passato che una volta appropriato dal capitalista riproduce sé stesso, espandendosi e riproducendo le sue condizioni di esistenza. Viene inoltre criticata la “naturalizzazione” del modo di produzione capitalistico affermando invece il suo carattere storico e transeunte, così come sono mostrati i limiti delle teorie economiche borghesi che non vanno oltre l’apparenza fenomenica delle cose. Viene confutata la legge degli sbocchi e la crisi è spiegata non come fatto patologico ma come elemento necessario legato alle intrinseche contraddizioni del capitale. Infine si prevedono con esattezza alcune leggi di movimento del modo di produzione capitalistico.
Si può comprendere, allora, come buona parte della storia dell’economia politica borghese successiva a Marx possa essere spiegata come una serie di tentativi di disinnescare questo proiettile. Tentativi avvenuti a discapito della comprensione del funzionamento e delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, determinando un arretramento complessivo della “scienza economica”. Mi riprometto inoltre di mostrare che i limitati progressi di questa scienza sono in larga parte attribuibili a una riproposizione, più o meno consapevole, di alcune scoperte di Marx.
La serie di questo e dei successivi articoli si ripropone lo scopo di ripercorrere gli snodi più significativi di questa storia.
La prima scuola che si oppose più radicalmente a Marx fu senza dubbio quella marginalista, che tuttora spadroneggia nei corsi universitari di base di “microeconomia”, nonostante le sue conclamate lacune. Ma prima di affrontarla è utile vedere alcune sue anticipazioni presenti già ai tempi di Marx e da lui etichettate come “economia volgare”. Infatti Marx criticò nei suoi manoscritti inediti una corrente che andava alterando con finalità apologetiche il paradigma degli economisti classici e ne trattò diffusamente nei manoscritti poi pubblicati come terzo libro delle Teorie sul plusvalore [2]. Il cambiamento di paradigma rispetto all’economia classica era necessario perché anche la teoria di Ricardo era pericolosa, in quanto non occultava gli interessi contrapposti fra le classi e considerava il profitto come una sottrazione di valore al prodotto del lavoro, tant’è vero che una corrente socialista, quella dei socialisti ricardiani, si rifaceva al grande economista inglese.
Il pensatore più emblematico di questo filone revisionista è John Stuart Mill, il quale può essere considerato per molti aspetti un precursore della “rivoluzione marginalista”, virgolettata perché in realtà fu una sorta di restaurazione ideologica.
La filosofia politica di Stuart Mill corrispondeva ai canoni classici del liberalismo più estremo secondo cui le libertà individuali sono prioritarie rispetto alle esigenze sociali. Sul piano epistemologico egli aderiva al positivismo e sul piano etico all’utilitarismo. Fu anche un apologeta del colonialismo e avversò tenacemente le idee di Marx, che temeva potessero divenire sovversive della società civile.
Pur dichiarando l’intenzione di fornire una sistemazione dell’economia classica e di volerla correggere per salvarla dagli attacchi di Marx, egli contribuì in realtà al suo superamento, operando con ciò un’importante cesura con i classici, oltre che con lo stesso Marx.
Per Stuart Mill, le leggi della produzione sono naturali e immutabili. Esse non possono subire limitazioni ma devono seguire le libertà dei singoli individui, i quali ricercano naturalmente il proprio utile e la propria felicità.
Le leggi della distribuzione del reddito hanno invece un carattere etico-politico. Sono queste ultime che vanno perciò guidate, affinché la ricchezza venga distribuita in modo da trasformarla in ricchezza sociale.
La considerazione del ruolo dell’utilità nel determinare il valore dei “beni” [3] è fra i più importanti elementi anticipatori del marginalismo. Ma la più importante rottura con Ricardo è la non accettazione da parte di Stuart Mill del postulato per cui i profitti sono una grandezza residuale, in quanto sono giustificati come compenso per il contributo che il capitale fornisce alla creazione di ricchezza. Il capitale è quindi concepito come un “fattore” produttivo, un elemento materiale che si combina al lavoro e alla terra nella produzione; come un “fondo” di ricchezza proveniente da lavoro passato che viene accumulato grazie alla virtù del risparmio. Più precisamente in Stuart Mill convivono i Dott. Jekyll e Mr Hyde: nel medesimo passo viene negato formalmente e confermato di fatto questo potere produttivo del capitale, esibendo una clamorosa contraddizione nel giro di pochissime righe:
“Il capitale, rigorosamente parlando, non ha alcun potere produttivo: l’unico potere produttivo è quello del lavoro [... ma del lavoro] assistito indubbiamente da utensili e operante sulle materie prime. Si può forse dire, senza grande improprietà, che la parte di capitale che consiste di utensili e di materie prime possiede
un potere produttivo, poiché essi contribuiscono, insieme col lavoro, all’espletamento della produzione. [...] L’unico potere produttivo che esiste è il potere produttivo del lavoro, degli strumenti e delle materie prime” [4].
Si noti che Stuart Mill, anche a proposito del capitale, torna a una naturalizzazione, facendolo coincidere con gli “utensili e le materie prime”, prescindendo dalle sue determinazioni sociali e storiche in base alle quali nelle società capitalistiche è posseduto dai non produttori, mente i produttori ne sono spossessati. Inoltre il concetto di capitale non include per lui il capitale variabile, la forza-lavoro, che confonde con il lavoro in quanto tale ed è considerata un fattore produttivo distinto. Non occorre sottolineare l’arretramento di questa strumentazione.
Stuart Mill ritiene che la domanda di merci non si traduce necessariamente in domanda di lavoro. La decisione se ricostituire o meno il fondo salari mediante il ricavato dalla vendita delle merci prodotte, assumendo lavoratori, spetta al capitalista. Pertanto, a prova della sua visione avulsa dalle condizioni storicamente determinate della produzione capitalistica, afferma:
“Tutto quanto una persona possiede costituisce il suo capitale, purché questa persona possa e voglia impiegarlo non nel consumo a scopo di soddisfazione, ma per procurarsi i mezzi di produzione con l’intenzione di impiegarli produttivamente” [5].
I profitti, o meglio la ricchezza che ciascuno possiede, indistintamente dalla classe di appartenenza, vengono dunque o trasformati in capitale o consumati improduttivamente: non è contemplata la possibilità che vengano sottratti alla circolazione. Anche Stuart Mill accetta infatti la legge di Say: l’accumulazione di capitale crea lavoro e il capitale non reinvestito viene necessariamente consumato.
All’errore di confondere il capitale con gli elementi materiali della sua parte costante, si unisce quello di confondere i valori d’uso con il valore. Già, se si parla di beni e non di merci, non può esservi distinzione fra la loro caratteristica fisica e il loro contenuto sociale. I mezzi di produzione, evoluti quanto vogliamo, contribuiscono infatti certamente a produrre un maggior quantitativo di valori d’uso, di oggetti utili, ma non a produrre più neovalore. Il motivo è che l’intensità capitalistica viene aumentata per produrre merci più a buon mercato, risparmiando quel lavoro vivo che invece è la vera fonte del valore e con ciò dando luogo alla principale contraddizione del capitale.
Com’è noto, per Marx, il valore dei mezzi di produzione, non a caso denominato capitale costante, viene trasferito tale e quale nel prodotto, senza nessun accrescimento, e anche questo trasferimento avviene grazie al carattere utile del lavoro concreto. I mezzi di produzione si consumano, perdono utilità e – poiché il valore deve necessariamente vivere in un corpo di valore d’uso – perdono valore. Consentendo al lavoro concreto di produrre beni utili, permettono però questo trasferimento di valore. Nessun neovalore proviene quindi dal capitale costante.
Quasi come se la critica di Marx a questo duplice fraintendimento fosse passata inosservata, rintracceremo regolarmente questo errore in quasi tutta la storia del pensiero economico del ’900 e persino in autori che si dichiarano vicini a Marx. Ne sono un esempio le teorie odierne sul capitale cognitivo, che spesso sfociano nell’affermazione secondo cui le nostre incursioni in Internet, fornendo dati ai signori del web, “valorizzerebbero” gratuitamente il capitale generando una nuova forma di sfruttamento, quello degli avventori del web.
Va detto, che invece le informazioni che forniamo gratuitamente costituiscono una sorta di materia prima gratuita, cioè un valore d’uso privo di valore, come i frutti spontanei della natura, mentre solo il lavoro di chi raccoglie tale materia e cioè di chi la organizza in banche dati e di chi la utilizza valorizza effettivamente il capitale [6].
Anche la prospettiva di uno stato stazionario è delineata da Stuart Mill con occhio assai ottimista. Egli afferma, infatti, che il comportamento egoistico individuale, la ricerca della massima ricchezza e potere, è utile finché ci può essere crescita. Una volta raggiunto lo stato stazionario si raggiunge una situazione ottimale, una sorta di Eden, in cui “nessuno è povero e nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare”.
Non c’è che dire, una previsione azzeccatissima! Se questo è il più importante esponente dell’economia volgare, figuriamoci gli altri.
(*) Il presente articolo e i successivi sono una rielaborazione di scritti già pubblicati o in fase di pubblicazione sulla rivista “Materialismo Storico”. In particolare per il presente articolo faccio riferimento a quello uscito nel n. 2/2021 (vol. XI) di tale rivista.
Note:
[1] Da una lettera di Marx del 17 aprile 1867 all’operaio Johann Becker.
[2] K. Marx, Storia delle teorie economiche, Vol III, ed. Einaudi, 1958.
[3] Interessante notare che si torna a usare la nozione di “bene”, priva di determinazione storico-sociale in luogo di quella di “merce” che caratterizza le società dove prevale il modo di produzione capitalistico.
[4] J. Stuart Mill, Principi di economia, 1848. Trad. Italiana Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica, Isedi, Milano 1976, p. 79.
[5] Ivi. Si noti che si parla di persone indistintamente. Spariscono le classi sociali e si sorvola sulla circostanza che normalmente per il lavoratore è impossibile “astenersi” dal consumo per divenire capitalista, visto che la sua retribuzione oscilla intorno alla pura sussistenza.
[6] Su questo argomento si veda G. Carchedi, Behind the Crisis: Marx’s Dialectic of Value and Knowledge, Historical Materialism, agosto 2012.