Il giovane Hegel intende preservare l’imperativo categorico nella sua purezza razionale senza contrapporlo alla sensibilità, caratteristica imprescindibile della vita umana, garantendone tuttavia l’egemonia su quest’ultima. Del resto, come osserva Hegel: “la sublime pretesa della ragione sull’umanità, la cui legittimità così spesso riconosciamo con tutto il cuore quando questo ne è riempito, e le seducenti descrizioni che una pura bella fantasia ha fatto di uomini senza colpa e saggi, non dovrebbero mai dominarci tanto da farci sperare di poter vedere e cogliere nella realtà questa bella chimera” [1]. Dunque, il giovane Hegel, pur condividendo di fondo l’impostazione della Ragion pratica kantiana – opera certamente influenzata dalla contemporanea Rivoluzione francese – se ne distacca nell’aspetto più debole e criticabile, in linea con la posizione assunta da Schiller. In effetti, anche per il giovane Hegel si tratta di rendere per quanto possibile armoniche sensibilità e ragione [2], di modo che quest’ultima, nella sua autonomia, tenga conto degli impulsi all’interno della contingenza irriducibilmente positiva dell’azione mai determinabile, a priori, sulla base di una precettistica morale di carattere necessariamente intellettualistico [3]. Del resto, proprio su questo spostamento di accenti, che costituisce il più alto momento di elaborazione personale di Hegel nei confronti della filosofia critica, l’influenza diretta o indiretta di Rousseau, Montesquieu e Herder deve essere stata particolarmente intensa. Dal magistero di quest’ultimo Hegel può aver derivato l’interesse per la religione soggettiva nel suo declinarsi positivamente nelle differenti religioni popolari [4], come anche la predilezione per il mondo antico, in cui sembra vivere l’ideale di una vita nazionale bella e libera, favorita proprio dalle credenze e dalle pratiche religiose, che non alienano l’individuo dal suo essere sociale – come aveva fatto il cristianesimo con il suo dare “a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” – ma rafforzano e dinamizzano la coesione statuale [5].
Alla lezione di Rousseau pare che sia da attribuire l’attenzione ai doveri pratici della cultura, l’esigenza di far convergere vita e dottrina, scienza e virtù e, soprattutto, la decisa opposizione all’assetto politico e culturale di un mondo, in cui il prevalere del principio di autorità e di un apparato di dottrine – radicalmente estranee tanto alla ragione quanto ai principi originari della natura dell’uomo – ha provocato una drammatica lacerazione interiore del corpo sociale. A questo proposito, di particolare rilievo per la riflessione hegeliana sembra essere stata proprio la distinzione operata da Rousseau nel Contratto sociale tra religione naturale (religion de l’homme) e nazionale (religion du citoyen), che Hegel tenterà di sviluppare in modo autonomo nella Volksreligion (religione popolare) [6]. Hegel contrappone, infatti, una concezione pubblica della religione a una meramente privata: “la religione popolare si distingue dalla religione privata soprattutto per il fatto che il fine della prima, operando essa potentemente sull’immaginazione e sul cuore, ispira all’anima in generale la forza, l’entusiasmo, lo spirito, che è indispensabile alla grande, sublime virtù” [7]. Il recupero di Rousseau consente inoltre uno scarto importante nei confronti della concezione trascendentale della religione che, in nome della preferenza accordata alla religione soggettiva su quella teologica o oggettiva, tendeva a ritenere veramente genuina la sola sfera della religiosità individuale, condannando come esteriore e semplicemente positiva, la sfera pubblica e popolare.
Per Hegel, invece, non è sufficiente che le dottrine di una religione siano “fondate sulla ragione universale”, occorre non solo che “fantasia, cuore e sensibilità non ne risultino vuote”, ma che “vi siano inclusi tutti i bisogni della vita, e le azioni pubbliche della vita statale” [8].
L’oggetto specifico indagato dallo “storico pensante” non può essere individuato nell’astratta soggettività trascendentale della filosofia critica, anche nella sua estensione al concetto altrettanto astratto di genere umano; in entrambi i casi, infatti, si rischierebbe di perdere di vista la concretezza e la determinatezza del piano storico [9]. Così si viene problematizzando la concezione della storia su cui Hegel si era formato, che pretendeva di anteporre un astratto ideale trascendentale all’analisi delle peculiarità dei diversi popoli, attraverso cui l’idea di progresso deve necessariamente passare e a cui ci si deve, altrettanto necessariamente, sottomettere.
Un ruolo probabilmente decisivo in queste riflessioni è svolto dal concetto di Volksgeist (spirito del popolo), destinato ad assumere una funzione centrale anche negli anni seguenti [10]. Si tratta di un concetto che Hegel può aver ripreso da Montesquieu e Voltaire o da Herder, per farne un momento cardine della sua concezione della storia [11].
Note:
[1] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 84, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 170.
[2] Si trattava di una posizione già presente in nuce nel giovane Hölderlin, il quale il “12 febbraio 1791 scrisse sull’album di Hegel le parole di Goethe: «il piacere e l’amore sono le ali per le grandi azioni»; e come motto: «en kai pan».” Rosenkranz, Karl, Georg Wilhelm Friedrich Hegels Leben [1844], tr. it. a cura di Bodei, Remo, La vita di Hegel, Vallecchi, Firenze 1966, p. 60.
[3] Si affaccia così, già in queste pagine, la tematica della tragedia dell’assoluto, il suo drammatico positivizzarsi indispensabile a preservare la libertà dell’azione nella sua imprescindibile contingenza storica. Tanto che Hegel nel paragrafo 118 della Filosofia del diritto scriverà: “l’azione […] in quanto fine posto nell’esteriorità, è data in balia delle forze esterne, le quali vi uniscono un che di interamente diverso da ciò che l’azione è per sé, e la trascinano a conseguenze remote, estranee”.
[4] Come osserva Finelli: “solo che appunto questa distinzione [religione soggettiva, religione oggettiva] originariamente fichtiana viene accolta ed elaborata da Hegel secondo la finalità, più propria, di pedagogia etico-politica che egli assegna a una religione che voglia essere popolare.” Finelli, Roberto, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 61.
[5] Come ha scritto Janicaud: “questo ideale di una religione popolare accordata ad una vita nazionale bella e libera fu incontestabilmente condivisa da Hegel (…). Identifichiamo qui il vero soggetto della religione soggettiva: il popolo, non l’individuo. Soggettiva, la religione popolare lo è anche perché supera e ingloba la religione posta e fissata dall’intelletto. (…) I moderni vogliono una religione dogmatica e pura; gli antichi una religione meno dogmatica, sicuramente impura, ma vivente.” Janicaud, Dominique, Hegel et le destin de la Grèce, Paris, Vrin 1975, p. 38.
[6] Per cui ci sembra perfettamente condivisibile quanto scrive al riguardo Finelli: “Hegel che già a Stoccarda con la lettura diretta delle Confessioni e attraverso gli estratti dal Feder si era avvicinato alla tematica antropologico-pedagogica di Rousseau, qui a Tubinga, lontano da interessi speculativi e metafisici, legge dunque costantemente l’autore ginevrino e da esso verosimilmente trae la sollecitudine più profonda a tradurre – quale principio della realtà e della storia – la soggettività individuale e trascendentale di Kant in quella collettiva ed organica di un popolo.” Finelli R., Mito e critica… op. cit., p. 41. E ancora: “l’ideale kantiano di una perfetta umanità razionale, da fine della storia, si fa cioè principio di organizzazione e coesione, nell’oggi, della vita e della maturità di una nazione, che solo nella sua autodeterminazione trova la legittimità della sua esistenza. E in tale dilatazione della libertà di ragione da struttura trascendentale della soggettività individuale a principio fondativo di un intero popolo consiste appunto la radicalizzazione che il giovane Hegel, anche attraverso la mediazione della lettura appassionatissima di Rousseau, compie della dottrina morale di Kant.” Ivi, p. 39.
[7] Hegel, G.W.F., Gesammelte… op. cit. vol. I, p. 102; Scritti…, cit., pp. 187-88.
[8] Ivi, p. 103; p. 189.
[9] Nota a questo proposito Finelli: “la religione di Hegel, con uno scarto assai significativo rispetto alla stessa tradizione kantiano-fichtiana di cui si sta alimentando, cessa di aver uno statuto privato, distinto rigorosamente da quello delle istituzioni pubbliche: la religione popolare, nella sua funzione di essere propedeutica alla virtù, ha natura pubblica e la sua istituzione è cura, è compito dello Stato.” Finelli R., Mito e critica… op. cit., p. 62.
[10] Come ha visto a ragione Carmelo Lacorte: “è il popolo, o meglio lo spirito del popolo (termine direttamente ritradotto da Montesquieu e da Voltaire) il contesto entro il quale, da una parte, va risolta la sostanza e il valore degli individui singoli, e attraverso il quale, dall’altra, si articola in concreto ogni dottrina dello sviluppo storico dell’umanità come genere. Non è dubbio che Hegel abbia appreso particolarmente da Herder – ma avviandosi a un ripensamento più integrale e non scopertamente anti razionalistico del problema (cfr. § 81) – ad ancorare all’unità collettiva del popolo, così anche da lui inteso come soggetto organico e concreto di ogni indagine pratica della filosofia, il suo studio tubinghese sulla religione” Lacorte, Carmelo, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, pp. 278-79. Tuttavia, lo stesso interprete mette in guardia, per quanto riguarda questo concetto, da rischiose generalizzazioni: “i termini Geist der Völker e Geist der Nationen non sono tuttora più che semplici plurali grammaticali, i quali non autorizzano di presentirvi il maturo significato del termine Weltgeist, il quale soltanto costituirà la funzione che, attraversando queste molteplici concrezioni storiche isolate e determinate, istituirà il nuovo concetto di storia.” Ivi, p. 314.
[11] In questo concetto si fondono, come osserva a ragione Finelli, “oltre che ragione, anche sensibilità, sentimenti e istinti, è il soggetto organico e reale della storia, da intendere nella sua peculiarità di costumi e d’istituzioni e nella sua irriducibilità perciò a un concetto astratto e illuministico di umanità.” Finelli R., Mito e critica… op. cit., p. 43. Ciò che colpisce in questa interpretazione, al di là della caratterizzazione sostanzialmente corretta del concetto, è la contrapposizione della Volksreligion all’illuminismo tout court e non ad una sua tarda vulgata, tanto più che lo stesso autore, poco prima, aveva individuato proprio in Montesquieu e Voltaire le fonti primarie da cui lo avrebbe mutuato Hegel. Inoltre, paradossalmente, poco dopo, lo stesso Finelli – riprendendo Rosenzweig – non manca di osservare che il Volksgeist è “un risultato, la sintesi delle molteplici e variegate sfere della vita di un popolo: e in questo senso – quale intero più finale che non iniziale – si connette, più che al protoromanticismo di Hamann, di Herder e Goethe, alla storiografia illuministica di Montesquieu.” Ivi, p. 47. Qui non si tratta tanto di mettere in evidenza le debolezze di un singolo interprete, peraltro acuto e attento all’influsso dell’illuminismo, ma di osservare come anche in questo caso, forse al di là della stessa coscienza di chi scrive, sia stato utilizzato uno degli elementi più tipici della vulgata diltheyana, la costante contrapposizione di Hegel all’illuminismo, che viene appunto ridotto alla sua peggiore vulgata. Lo stesso discorso, come si è visto, vale per la contrapposizione con Kant. Anche in questo caso, volendo restare al sopra citato interprete, colpisce la palese contraddizione tra un’approfondita analisi di Kant, da cui sarebbero con poco sforzo deducibili i notevoli debiti hegeliani – “la realizzazione della natura razionale dell’uomo e della sua inclinazione razionale alla socievolezza avviene così per Kant attraverso il soddisfacimento di un’altra pulsione, parimenti naturale ma opposta alla prima, che è quella della competizione e della rivalità di ciascuno contro tutti: attraverso cioè l’intensificarsi di quegli impulsi naturali all’ostilità e all’egoismo i quali, a causa dei mali che generano, devono sbocciare di necessità, anche se in un tempo lunghissimo, nel compimento di un ordine illuminato e civile della convivenza” ivi, p. 46 – e la tradizionale contrapposizione, resa possibile dalla solita schematica riduzione del pensiero kantiano: “in questo passaggio, senza discontinuità dall’uno all’Uno-Tutto, in questa dilatazione del trascendentale kantiano da principio della soggettività a struttura della socialità, sta l’aspetto più problematico di questo primo Hegel.” Ivi, p. 48.