La concezione dell’arte di Brecht

Brecht ritiene che gli strumenti propri della pratica artistica, rivolti a rappresentare nell’opera la realtà nel suo configurarsi storico, non possono essere neutralmente ereditati dalla tradizione, ma devono essere continuamente verificati e adeguati.


La concezione dell’arte di Brecht

Bertolt Brecht ritiene che gli strumenti propri della pratica artistica, rivolti a rappresentare nell’opera la realtà nel suo configurarsi storico, non possono essere neutralmente ereditati dalla tradizione, ma devono essere continuamente verificati e adeguati al delicato compito cui sono destinati. 

Come sottolinea Brecht, di contro ai “moscoviti”, l’arte può essere in grado di rispecchiare la realtà solo se si dota di specchi speciali, specifici. La specificità della rappresentazione artistica è data dal doppio compito a cui deve necessariamente sottoporsi, compito a un tempo analitico e sintetico. Essa, infatti, mette in opera le funzioni analitiche dell’intelletto che è in grado di separare, di ritagliare nell’infinita e caotica molteplicità del mondo fenomenico una sostanza vitale, che sarà poi messa in forma a opera delle funzioni della ragione, capaci dello sforzo sintetico di riunire dinamicamente in un’immagine, in qualche modo universale, la costellazione di particolari significativi su cui si fonda l’opera. 

Lo scrittore moderno, a parere di Brecht, non può più pretendere di dare forma alla realtà nella sua opera a partire da una personale Weltanschauung. In questo modo, certo, le singole parti dell’opera troverebbero la giustificazione nell’economia del tutto, ma ogni particolare in sé considerato sarebbe completamente privo di relazioni con quella realtà di cui l’opera voleva dar conto. Dato che ormai la “realtà” è individuabile solo nella sua dipendenza da leggi generali, i particolari divengono per lo scrittore moderno degli strumenti indispensabili per costruire questa dipendenza. Solo grazie a questo indispensabile momento costruttivo-ricostruttivo sarebbe possibile guardare attraverso il particolare la nuova totalità. Il dettaglio, quindi, non deve più essere considerato come rappresentativo di questa totalità dell’opera, ma come il modello indispensabile alla sua intelligibilità [1]. Per non restare schiacciato sul piano fenomenico della rappresentazione della realtà, l’autore deve servirsi dello stile come di una “lente di ingrandimento”. Per dominare la “demoniaca” complessità della nuova sostanza non ci si può limitare, infatti, alla semplice descrizione di processi e situazioni. I particolari non devono rifiutarsi al loro compito di costituire dei modelli chiarificatori della realtà. Questa, infatti, può essere presentata come trasformabile solo se guardata-attraverso quei modelli chiarificatori. 

La concezione del realismo che Brecht oppone a quella dei “moscoviti” si sviluppa, quindi, dal tentativo di trovare un precario equilibrio tra due estremi opposti nello spazio lasciato aperto da una doppia negazione.

A un realismo ridotto a un ingenuo verismo dalla pretesa di un fedele rispecchiamento della realtà, di una pura ricostruzione, Brecht ha opposto, infatti, l’imprescindibile esigenza dell’opera a organizzarsi in un cosmo in sé ordinato, a superare la separazione che necessariamente intercorre tra un concetto ed il suo oggetto, tra la scienza e il suo linguaggio. Allo stesso tempo, però, egli ritiene necessario opporre al puro costruttivismo e alla pretesa assoluta autonomia del piano estetico l’imprescindibile legame che unisce l’arte alla vita, anche nel suo prenderne le distanze, anzi, proprio nel suo prenderne le distanze. Il momento costruttivo e quello conoscitivo-ricostruttivo devono esser considerati, allora, due imprescindibili momenti dello stesso processo unitario che dà vita all’opera d’arte. Questi due momenti si richiamano vicendevolmente, si implicano in linea di principio: l’uno deve necessariamente presupporre l’altro per poter espletare fino in fondo la sua particolare funzione. Il compito supremo affidato da Brecht all’arte è, allora, quello di manifestare sensibilmente questo gioco di richiami tra i due ambiti, mostrandolo esemplarmente all’opera

Nel 1933, dopo l’incendio del Reichstag, Brecht fu costretto a prendere la via dell’esilio. Al di là della riflessione sul realismo, l’isolamento e il brusco distacco dalla prassi teatrale dovuti all’esilio consentirono a Brecht di rivedere criticamente e di approfondire la sua precedente produzione artistica ed estetica. Il risultato fu una maggiore sistematizzazione della sua teoria del teatro e la composizione di quelli che sono considerati i suoi maggiori drammi: Vita di Galileo e Madre Coraggio e i suoi figli. La revisione critica della sua opera era basata su un allargamento di prospettiva che gli consentì di correggere alcune unilateralità della precedente produzione, analizzandole all’interno della crisi in cui si dibatteva la drammaturgia del suo tempo. 

In tale ripensamento critico delle sue opere precedenti, Brecht aveva individuato diversi drammi il cui carattere era disgiunto, in cui “insegnamento e divertimento stavano sul piede di guerra l’uno con l’altro” [2]. Egli attribuiva questo difetto al fatto che la nuova funzione pedagogica assegnata all’arte mal si accordava con il vecchio modo di divertire. Così, ogni intensificazione dell’aspetto pedagogico portava necessariamente a un indebolimento del godimento estetico. Del resto, più si facevano concessioni alla vecchia immedesimazione, meno il pubblico sembrava in grado di cogliere le connessioni all’interno dell’opera. Finivano così per essere compromesse le sue capacità di apprendimento. Questa contraddizione aveva reso evidente che il potenziamento del momento conoscitivo, raggiunto grazie all’assunzione di nuovi ambiti contenutistici e problematici legati al mondo moderno, permetteva di riconquistare al teatro una parte del suo valore sociale, ma andava a tutto discapito dell’esperienza peculiarmente estetica

Brecht avvertiva, così, la necessità di recuperare quegli elementi sentimentali ed emotivi che aveva provvisoriamente lasciato da parte, senza perciò dover sacrificare a questi la componente didattica caratteristica della sua opera [3]. 

Se il compito fondamentale dell’arte doveva essere l’istruzione, in quanto rappresentazione astratta del mondo reale, essa doveva rappresentare al tempo stesso il suo contenuto concretamente, in immagini sensibili.

L’importanza assegnata al momento riflessivo e astraente non doveva significare, allora, che un astratto insegnamento dominasse la figurazione tanto da ridurre la forma artistica a puro ornamento. Quindi, lo stesso fine ultimo del teatro didattico, la presa di coscienza del pubblico, non poteva esser raggiunto con il solo utilizzo di strumenti intellettuali, dato che il tratto specifico del teatro era quello di permettere al pubblico di raggiungere la conoscenza solo “attraverso il gioco vivo delle passioni”, che dà concretezza alla rappresentazione artistica [4]. L’intento del teatro doveva essere, allora, quello di purificare per mezzo della ragione l’immediatezza dei sentimenti e di servirsi di questi per spingere la ragione ad approfondire la sua attività.  

La conquista del connubio dialettico, che porta al piacere dell’apprendimento, avrebbe dovuto permettere di non separare più astrattamente il sentimento di piacere dalla funzione didattica affidata al teatro. Quest’ultimo può assumere di nuovo una funzione sociale solo facendosi carico della mediazione dei valori del sapere e dello studio con la multiforme realtà della vita. Proprio a questa mediazione, che deve compiere il teatro tra la conoscenza e la sua forma sensibile, è indispensabile il piacere estetico. Da parte sua la componente conoscitiva rafforza il piacere estetico, in quanto permette al pubblico di conoscere se stesso comprendendo il reale e gli dà, quindi, lo spunto, l’opportunità per trasformarlo anche radicalmente. Come scrive Brecht: “è un piacere del nostro tempo (...) poter comprendere tutto quello su cui possiamo intervenire” [5]. Affinché il godimento estetico non sia un godimento di vecchio stampo, prettamente “culinario” e, quindi, superato dalla storia in quanto inadeguato a un’epoca scientifica, assume di nuovo un ruolo centrale la costruzione della fabula. A questo proposito sono fondamentali quelle conoscenze scientifiche che non solo sono indispensabili per la costruzione di un plot in grado di fornire un’immagine adeguata delle moderne interrelazioni tra gli uomini, ma che condizionano la stessa ricezione e lo stesso piacere estetico offerto dalla trasformabilità del mondo.

 

Note

[1] Anche Brecht, come aveva fatto Benjamin nel Dramma barocco tedesco, avvertiva il bisogno di rivalutare l’allegoria di fronte al simbolo della tradizione classicista e romantica, riportato in auge dall’espressionismo. Caratteristica fondamentale dell’allegoria è, infatti, la sua non-trasferibilità. “Mentre un simbolo sta per qualcosa d’altro e quindi non sta per se stesso, dunque ‘significa’ qualcosa, l’allegoria sta per se stessa ed ogni tentativo d’interpretarla unilateralmente e di risolverla non si cura della sua essenza” (Ludwig, K.H., Bertolt Brecht. Philosophische Grundlagen und Implikationen seiner Dramaturgie, Bouvier Verlag Herbert Grundmann, Bonn 1975, p. 10). Tuttavia, l’allegoria non dovendo portare in sé come il simbolo la predisposizione ad accogliere l’universale, assume il significato di una sfida lanciata a quel “profano mondo borghese” in cui al dettaglio non è riconosciuto più nessun valore. Solo conservando la sua ineliminabile autonomia il particolare può proporsi come cifra, come modello di un universale altrimenti irrappresentabile. Il particolare è così salvato e permette al fruitore di cogliere l’universale. Solo in questo modo la ricchezza metaforica dell’opera non perde quell’immediatezza che gli consente di attenersi al piano del concreto, del singolo che porta in sé sensibilmente il suo “significato”.

[2] Brecht, B., Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di Hecht, W., Knopf, J., Mittenzwei, W., Delef-Müller, K., Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989-1998, vol. 22.1, p. 547.

[3] Brecht riteneva, inoltre, che la contraddizione tra sentimento e ragione non solo fosse artificiosa, ma di natura prettamente “ideologica”.

[4] Non bisognava confondere, però, l’importanza che hanno gli elementi legati ai sensi per raggiungere la totalità di senso dell’opera con la sensualità che esalta il mezzo nei confronti del fine a cui doveva essere sottoposto. Solo una passione che sia in grado di sostenere l’esame dell’intelletto possiede, infatti, forza e profondità sufficienti. 

[5] Brecht, B., Schriften zum Theater. Über eine nichtaristotheliche Dramatik, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1957, p. 152.

26/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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