Nel momento in cui l’universalità fornita di potere, come fonte di ogni diritto, è sparita perché si è isolata, perché si è fatta particolare, basta poco per rendere più universale una più chiara coscienza su ciò intorno a cui l’opinione pubblica, con più o meno chiarezza, ha già espresso la sua decisione con la perdita della fiducia. E tutti i diritti esistenti hanno veramente il loro fondamento soltanto in questo nesso con l’intero, un nesso che, non essendoci più da lungo tempo, li ha fatti scadere tutti a diritti particolari. [1]
La prima e unica esercitazione di Hegel degli anni di Tubinga a noi pervenuta si intitola Di alcuni vantaggi che ci procura la lettura degli antichi scrittori classici greci e romani ed è stata composta nel dicembre 1788, presumibilmente per l’esame di ammissione al biennio di baccalaureato. Si tratta di uno scritto meno distante del precedente, composto ancora nella natia Stoccarda, “dai suoi interessi personali, ma anch’esso occasionato da esigenze scolastiche” [2]. In quest’opera Hegel muove dalla “meraviglia” che produce necessariamente la grande stima di cui godono gli scrittori del mondo antico ai suoi tempi, pur essendo il prodotto di un’epoca ancora lontana dal rischiaramento dei lumi [3]. Non può certo trattarsi di un interesse semplicemente storico-archeologico, altrimenti “non attrarrebbero a sé la nostra attenzione più di quanto non faccia un’antica sala d’armi per noi inutile” [4]. Al contrario essi debbono necessariamente avere dei tratti di attualità in grado di interloquire con il presente e di stimolarlo criticamente; in caso contrario non si spiegherebbe il motivo per cui il loro studio debba essere considerato così importante nella formazione della gioventù moderna.
La soluzione che offre Hegel a questa complessa problematica è che negli scrittori antichi è possibile risalire a “quei concetti che costituiscono la materia per le altre forze spirituali”. Dunque lo studio dell’antichità è propedeutico alla filosofia perché vi sono dei concetti del tutto astratti e “una facoltà di pensare perlomeno un po’ esercitata e questo principalmente per il fatto che in molte parti di questa scienza sono contenuti almeno i germi e le basi di quelle idee che nei tempi moderni sono state più chiaramente analizzate, sviluppate e determinate con maggior precisione” [5].
La riflessione del giovane Hegel diviene più perspicua quando aggiunge che gli scrittori antichi avevano: “sempre attinto le loro rappresentazioni dalla natura stessa, e che da essa avevano raccolto le esperienze che ci hanno tramandato” [6]. Ne consegue la condanna – per usare i versi che Hegel riprende da Nathan il saggio – della “fredda erudizione che con morti segni s’imprime nel cervello” [7], che caratterizza la cultura moderna. Proprio questo preciso richiamo a Lessing deve servire ad arrestare troppo facili conclusioni sulla netta cesura di questo scritto con lo spirito dell’epoca. La stessa concezione di considerare le opere d’arte dell’antichità non tanto e non solo da un punto di vista estetico, ma anche di interrogarle come testimonianze fondamentali di una tappa dello sviluppo storico dell’umanità, è un’idea propria tanto del protoromanticismo di Herder quanto del tardo illuminismo di Mendelssohn.
Del resto, anche la successiva notazione di Hegel, che rincara la dose della critica alla cultura moderna, questa volta dal punto di vista del linguaggio – le “parole prive di concetto di cui le nostre menti vengono riempite fin dalla gioventù ed in cui consiste la maggior parte dei nostri sistemi di pensiero” – denuncia l’influenza della concezione pedagogica rousseauiana, qui presumibilmente ancora mediata da Feder [8]. Hegel accentua, inoltre, l’esaltazione degli antichi che, sia dal punto di vista descrittivo, che nella costruzione degli stessi concetti, appaiono più “naturali”, “vividi” e legati all’esperienza, a quella sensibilità in cui la riflessione e la capacità di astrazione hanno le loro origini, troppo spesso rimosse. Il difetto principale della intellettualistica cultura moderna consiste, dunque, nell’aver perso di vista le origini sensibili, l’esperienza originaria da cui è derivata; la cultura antica svolge, quindi, la decisiva funzione pedagogica di ricordare, di mostrare immediatamente queste sorgenti perdute. Così, mentre i moderni sono dotati di una lingua sempre più povera, perché lontana dalla viva esperienza in cui il linguaggio si costruisce – dato che ai bambini le parole vengono insegnate come vuote astrazioni intellettualistiche – “gli antichi, e specialmente i greci (che qui consideriamo principalmente, poiché gli scritti dei romani, a parte il loro contenuto, sono tutt’al più solo delle imitazioni di quelli), avevano nella loro lingua una sbalorditiva ricchezza di parole, che esprimevano i fenomeni dei mutamenti degli oggetti sensibili e nella natura visibile, le loro più sottili sfumature, e specialmente le diverse modificazioni delle passioni, degli stati d’animo e del carattere” [9]. La ricca esperienza presente nell’antico greco è andata perduta nella lingua moderna, dal momento che ha obliato quell’enorme patrimonio di senso costituito dalle parole “dialettali o popolaresche”, più legate all’origine del linguaggio nella Erlebnis. Così, Hegel suggerisce di rendere maggiormente viva e ricca la lingua moderna proprio restaurandone il senso perduto, attraverso il recupero della cultura popolaresca. Egli sottolinea, infine, un ultimo elemento che rende particolarmente attuale lo studio dell’antichità: essa ci procura “il grande vantaggio di raffinare il gusto” [10]. Qui emerge, forse per la prima volta, un’altra costante del pensiero hegeliano, anch’essa espressa in forma necessariamente immatura: nel mondo moderno, nonostante il progresso costituito dai lumi, si è smarrita la centralità che l’arte aveva avuto nel mondo greco. “E donde potremmo attenderci migliori esempi di bellezza” si chiede allora Hegel “che da una nazione nella quale tutto aveva l’impronta della bellezza, dove le facoltà estetiche dell’anima avevano ogni possibile occasione di svilupparsi, dove i saggi e gli eroi sacrificavano alle Grazie?” [11].
Da queste annotazioni giovanili, benché ancora sostanzialmente immerse nell’ambiente culturale tardoilluminista, possiamo individuare per lo meno un aspetto fondamentale che accompagnerà il giovane Hegel lungo tutti gli Scritti teologico giovanili – segnandone il tanto spesso frainteso processo di progressiva autonomizzazione dalla filosofia kantiana [12]. Si tratta della critica alle astratte elucubrazioni intellettualistiche, formalistiche di una parte importante della cultura allora dominante, quella della “scuola”, che soprattutto in Germania impregnava di sé anche parti considerevoli della vulgata illuminista. A questa Hegel contrappone ora, tramite il magistero di Rousseau, Lessing e Winckelmann, il modello della cultura greca e indirettamente una concezione del mondo che non perde di vista le origini empiriste, sensiste e materialiste della cultura illuminista. In altri termini la cultura moderna, e dunque la stessa rivoluzione culturale prodotta dall’illuminismo, corre il rischio di perdere di vista proprio la razionalità del reale su cui si fonda, cosa che era invece immediatamente evidente agli uomini greci. Da ciò ne deriva l’attenzione rivolta alla cultura popolare, in un certo senso più pura e vicina alle intuizioni originarie del mondo antico e l’interesse per i fenomeni estetici, in particolare ellenici, in cui l’intelletto è costretto a fare necessariamente i conti con le sue origini nel mondo sensibile. Per Hegel – che pare addirittura anticipare alcuni pensieri sviluppati in seguito da Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo – l’esperienza dell’arte, il raffinamento del gusto che ne deriva, porta con sé un generale perfezionamento delle facoltà umane, poiché “la forza percettiva della nostra anima” viene da esso “sviluppata e rafforzata” [13].
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Il dominio della politica (1794-1831), tr. it. e cura di Merker, N., Editori Riuniti, Roma 1980, p. 105.
[2] Lacorte, C., Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 299. “L’importanza del breve componimento è però sminuita dal fatto che esso costituisce una semplice rielaborazione dello scritto composto a Stoccarda pochi mesi prima. (…) Come quello precedente, questo saggio di Hegel accoglie e rielabora pensieri tolti soprattutto da Garve e da Ferguson, da Winckelmann, Lessing, Herder e Schiller” (Ibidem). La differenza tra gli autori effettivamente citati e quelli che invece indica Lacorte, in particolare Herder e Schiller, è indicativa di come alcune idee non debbano necessariamente essere riferite a questo o quell’autore, ma facciano più in generale parte della cultura generale dell’epoca.
[3] Per mostrare come il mondo classico rappresenti, come base della educazione e cultura di Hegel, il filtro, il metro di giudizio attraverso il quale vede e giudica il mondo moderno o altri momenti della storia del mondo, si consideri quest’osservazione tratta da Di alcuni vantaggi che ci procura la lettura degli antichi scrittori classici greci e romani: “dall’ordine e dallo spirito degli scritti che ci rimangono possiamo trarre una storia completa della loro cultura, mentre se ne possono mettere in luce anche alcuni fenomeni che avvengono altrove: per citare un esempio, si possono spiegare in maniera più naturale e rendere più comprensibili alcuni aspetti della cultura, delle abitudini, usi e costumi del popolo israelita, che tanto influsso hanno esercitato su di noi e tanto ne esercitano (…) Infatti lo spirito umano è stato in generale sempre il medesimo, e solo il suo sviluppo viene diversamente modificato dalla diversità delle circostanze” (Hegel, G.W.F., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 103-04.)
[4] Ivi, p. 101.
[5] Rosenkranz, K., La vita di Hegel [1844], Firenze 1964, p. 49.
[6] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, cit., p. 101.
[7] Ibidem.
[8] Occorre, in effetti, cercare di distinguere l’influenza indiretta di Rousseau tramite la cultura del tempo di Hegel, da quanto dovuto a un proprio approfondimento legato a una lettura diretta del testo del ginevrino.
[9] Ivi, p. 102. In questa notazione appare evidente la lettura de Storia dell’arte e dei Pensieri sull’imitazione di Winckelmann, che porta Hegel per la prima volta ad accordare la sua preferenza al mondo greco rispetto a quello romano, sempre più considerato una pallida imitazione del primo.
[10] Ivi, p. 103.
[11] Ibidem. A testimonianza dell’interesse sempre vivo per le questioni riguardanti la produzione artistica e il giudizio di gusto, occorre ricordare che tra gli estratti fatti da Hegel durante questi anni ve ne è una parte cospicua dedicata all’estetica. Come testimonia Rosenkranz: “un’altra raccolta riguarda l’estetica. Negli articoli ‘epopea’, ‘poema didascalico’, ‘romanzo’ ecc. appaiono tutti gli scrittori più in voga del tempo: Rammler, Dusch, Lessing, Wieland, Engel, Eberhard e altri. Sono particolarmente saccheggiate le Lettere sull’educazione del gusto di Dusch e il commento di Wieland alle Lettere di Orazio”. (Rosenkranz, K., Vita di Hegel, cit, p. 35.)
[12] Come si cercherà di chiarire meglio in seguito, si tratta di uscire da una tradizione interpretativa che – sia che pretenda di ritrovare sin dai primi scritti il contrasto con Kant, sia che cerchi piuttosto di mostrare la continuità tra i due filosofi – finisce comunque con il perdere di vista nel confronto con Hegel tanto gli sviluppi successivi della filosofia critica, quanto gli sviluppi e la complessità dell’opera kantiana, che viene spesso ridotta alla sua vulgata, a un piatto ed astratto intellettualismo tardo illuminista.
[13] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, cit., p. 103.