Nella edizione critica delle opere di Georg Wilhelm Friedrich Hegel le prime elaborazioni personali, composte negli ultimi anni di Tubinga (1792-94) [1], hanno una veste editoriale ben diversa da quella datagli da Herman Nohl che, nella prima edizione, aveva accorpato con eccessiva disinvoltura sotto un unico titolo – Religione popolare e cristianesimo – anche le riflessioni svolte da Hegel a Berna. I curatori della nuova edizione hanno cercato, al contrario, di intervenire il meno possibile sui manoscritti; i testi sono stati così distinti, numerati cronologicamente e devono il loro titolo alle prime parole di ciascun frammento.
Ciò ha portato a mettere radicalmente in discussione l’interpretazione tradizionale dei manoscritti, ancora legata all’ordinamento dato ai testi da Nohl, sino a porre in dubbio la stessa continuità argomentativa e l’unità tematica dei manoscritti [2]. Con un discutibile procedimento che ha coinvolto, in misura maggiore o minore, l’intera pubblicazione critica dei manoscritti e delle Nachschriften si è supposto di poter risalire, con gli strumenti messi a disposizione dalla filologia, a una presunta oggettività testuale, tradita dagli interventi dei primi editori o curatori e in grado di rimettere completamente in discussione principi ermeneutici consolidati lungo oltre un secolo di studi hegeliani. Anche in tal caso non è stato possibile sottrarsi alla tentazione di riscoprire un Hegel diverso o segreto, non più su basi ermeneutiche ma filologiche. Ciò ha certo permesso di riaprire il dibattito su problematiche ritenute con troppa disinvoltura come risolte, ma l’ermeneutica del sospetto ha preso nuovamente il sopravvento, pretendendo in taluni casi di proferire l’ultima parola su complesse questioni filosofiche, nell’illusione di poter aggirare il conflitto delle interpretazioni in nome di una presunta lettera del testo. Nel caso del primo volume contenente gli Scritti giovanili si è così contribuito, anche con rilevanti apporti filologici, a sfatare il luogo comune ermeneutico che vi aveva voluto scorgere una netta rottura con la filosofia critica, arrivando a considerare un elemento spurio la stessa problematica della religione popolare. Si è così corso il rischio di far passare in secondo piano la tematica di maggiore interesse di tali scritti, in cui la riflessione hegeliana è maggiormente autonoma rispetto alla tradizione filosofica dell’epoca.
In altri termini, in questi primi frammenti solo con col senno del poi si può inferire un superamento di Kant, in realtà in tali testi Kant non solo non è superato, ma non è stato ancora adeguatamente recepito, Hegel è maggiormente legato a Lessing e all’illuminismo tedesco pre-kantiano, oltre che alla Rivoluzione francese [3] e al suo tentativo di instaurare una religione popolare da opporre al cristianesimo.
Hegel vuoi per le simpatie rivoluzionarie, vuoi per il fastidio per il confessionalismo di Tubinga, vuoi perché scriveva per il cassetto porta fino al parossismo la critica della religione cristiana, su cui si fonda l’idea di una nuova religione popolare in grado di far penetrare nelle masse, anche in Germania, la rivoluzione illuminista e francese [4]. Da qui l’essenza irreligiosa delle problematiche affrontate da Hegel in questi scritti, già debitamente evidenziata da Lukács.
Si tratta, dunque, di evitare due estremi opposti che tendono a semplificare, sia pure in modo antitetico, le riflessioni del giovane Hegel. Abbiamo da una parte l’interpretazione tradizionale della scuola diltheyana – che ha sempre cercato di porre l’accento sugli elementi di rottura che la hegeliana religione popolare rappresenterebbe nei confronti della religione razionale kantiana – e dall’altra i tentativi, per altro verso importanti, di chi come Edoardo Mirri ha cercato di ricondurre completamente le riflessioni di Hegel sulla religione popolare all’interno della filosofia critica, fino al punto di negare la rilevanza della religione popolare anche in testi come il frammento n. 16 in cui gioca, inequivocabilmente, un ruolo preminente [5]. Tuttavia, come osserva proprio questo interprete, bisogna fare attenzione a non cadere in semplicistici schematismi e fare della religione popolare l’emblema della critica che Hegel rivolgerebbe a Kant sul fondamento di una corrente che dal protoromanticismo arriverebbe direttamente a lui, aggirando – per così dire – la filosofia trascendentale kantiana.
Si tratta, dunque, anche in questo caso di abbandonare le semplificazioni schematiche di comodo che, come ricorda ancora Mirri, hanno presentano: “uno Hegel empirista e antikantiano a Tubinga, kantiano a Berna, mistico a Francoforte, idealista a Jena” [6]. Del resto, come si diceva, una lettura attenta non tanto e non solo della Religione di Kant, ma soprattutto dei suoi scritti politici e di filosofia della storia basterebbe a mostrare come tutti questi elementi non fossero affatto estranei o esclusi a priori dall’analisi kantiana. “Si è del resto già fatto cenno alla centrale importanza, in tale contesto di senso, della riflessione di Kant sulla storia, depositata nei due scritti del 1784, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Risposta alla domanda: cos’è l’illuminismo?” [7]. Dunque, “per questo aspetto le idee kantiane, e particolarmente quelle di filosofia della storia, confluiscono insieme a quelle di Herder, di Lessing, di Schiller, di Jacobi, di Mendelssohn ecc. (per limitare qui il riferimento ai soli autori da cui Hegel apprende direttamente in questa fase della sua formazione, i temi più dibattuti dalla cultura a lui contemporanea) su un terreno, al quale il giovane Hegel era introdotto già a Stoccarda dai testi degli autori del tardo illuminismo da lui seguiti con particolare interesse” [8]. Come è stato costretto ad ammettere lo stesso Carmelo Lacorte – che, come un po’ tutta la ricerca sull’opera di Hegel fino agli ultimi anni, non si è sottratto da tale schematismo di derivazione diltheyana – l’opposizione tra la concezione razionalista della religione kantiana e l’idea hegeliana della religione popolare deriva “da un mancato approfondimento dell’opera di Kant da parte di Hegel, cosa peraltro abbastanza evidente ancora per vari anni, e costituisce eventualmente il segno di una deficiente coerenza da parte di Hegel nell’uso di motivi e di idee che hanno nei testi kantiano e fichtiani una loro più adeguata fondazione” [9]. Ora il problema è comprendere se queste deficienze appartengano più a Hegel o ai suoi interpreti. La questione, al di là di ogni intento polemico con una determinata linea interpretativa è piuttosto rilevante. Si tratta di capire se una conoscenza inadeguata di Kant conduca Hegel, già in questi anni giovanili, a muovergli delle obiezioni ampiamente previste e superate dal primo, o se siano appunto gli interpreti ad attribuire al secondo uno spirito di contrasto nei confronti della filosofia critica, che al momento gli è, come sembrerebbe emergere, sostanzialmente estraneo. Per risolvere la questione occorrerebbe presumibilmente sottrarsi all’aut-aut e considerare entrambe le opzioni valide o, per lo meno, non necessariamente in contraddizione. Vale a dire, se è indubbio che diversi autori hanno voluto leggere una critica a Kant anche dove non è presente, è altrettanto vero che le obiezioni degli anni immediatamente successivi, in questo caso rivoltegli direttamente da Hegel, non colgono sempre nel segno, a meno di non spostare l’obiettivo critico su di un’interpretazione riduttiva della filosofia kantiana, all’epoca tanto dominante da trarre in errore anche un critico acuto come Hegel.
Un caso emblematico dell’errore opposto è costituito dall’importante lavoro di revisione dell’interpretazione tradizionale operato da Mirri – a partire dalla cura della prima traduzione italiana degli Scritti teologico giovanili –, che ha permesso di riaprire il dibattito su diverse spinose problematiche ritenute precedentemente risolte sulla base di assunti interpretativi poco fondati e non sufficientemente sottoposti al vaglio della critica. Questo acuto interprete ha, tuttavia, radicalizzato ulteriormente la sua lettura sino a renderla, in taluni casi, unilaterale, come si può vedere da questo brano in cui, pur cogliendo le debolezze principali dell’interpretazione tradizionale, finisce per denunciare l’“inconsistenza di quel presupposto che ha sempre condizionato la lettura e la retta interpretazione degli scritti hegeliani di Tubinga e di Berna: che cioè a Hegel stesse a cuore la problematica di una «religione popolare» – o piuttosto «nazionale» – tedesca, e che in questa potesse e dovesse trovare larga giustificazione la sensibilità, a differenza di quanto allora veniva teorizzato da Kant sull’essenza della religione. Di qui tutte le «fughe» verso una lettura «romantica» o «estetica» o «schilleriana» della produzione giovanile hegeliana (perfino della Vita di Gesù!) e la difesa ad oltranza di una presunta originalità del giovane Hegel dalla predominante lezione illuministica e kantiana. Oggi finalmente quel presupposto viene a cadere in maniera definitiva, ed appare in chiara luce la vera sostanza illuministica e kantiana della prima produzione di Hegel. Né in verità questa poteva essere diversa, trattandosi pur sempre dell’opera di un giovinetto al quale non potevano certo chiedere impossibili indipendenze dalla cultura del suo tempo” E. Mirri, op. cit., p. 14. In tal modo, l’elemento più radicale ed interessante della riflessione hegeliana è riassorbito senza residui nel sicuro alveo della concezione della morale kantiana: i manoscritti una volta restituiti filologicamente alla loro oggettività non sarebbero altro che “una prosecuzione in momenti diversi – e non necessariamente in continuità – della riflessione che Hegel ha fin qui perseguito e continuerà ancora a perseguire: quella, vale a dire, della valutazione del cristianesimo come religione razionale (o piuttosto irrazionale) che produce (o piuttosto non produce) moralità” [10].
Note:
[1] Si ricordi che gli scritti precedenti erano stati tutti stesi in funzione degli obblighi formativi, compreso il Diario, composto esplicitamente per migliorare lo stile.
[2] C’è chi ha parlato anche a proposito del manoscritto più corposo scritto da Hegel in questi anni (il numero 16) di una quasi completa discontinuità argomentativa, “quasi una successione di «schede» tematiche”, unite non dalla riflessione sulla religione popolare, ma dal tema “dell’efficacia morale della religione” G.W.F. Hegel, Scritti giovanili I, traduzione italiana di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, pp. 143-44.
[3] Siamo negli anni esaltanti della Rivoluzione francese, in cui nel giro di pochissimo tempo vi era stato un rivolgimento inimmaginabile nel corso del mondo. Per limitarci a qualche esempio della prima fase della rivoluzione, fra il 17 e il 27 giugno del 1789 è proclamata l’assemblea nazionale. Il 9 luglio del 1789 diviene l’assemblea nazionale costituente. Il 14 luglio il popolo parigino conquista la Bastiglia. Nell’Agosto del 1789 la rivoluzione dilaga nelle campagne, imponendo l’abolizione dei privilegi fiscali e giuridici, della venalità degli uffici, delle decime ecclesiastiche e dei diritti feudali gravanti sulla persona. Il 26 agosto abbiamo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui sono sanciti i principi del regime costituzionale liberale. La nuova sollevazione popolare del 5 e del 6 ottobre 1789 riporta il re a Parigi, vanificando il tentativo di mettersi a capo della controrivoluzione. Il 2 novembre sono incamerati i beni ecclesiastici. Il 13 febbraio del 1790 abbiamo la soppressione del clero regolare e la costituzione civile del clero. Il 12 settembre 1791 è promulgata la costituzione.
[4] Il modello cui ispirarsi diviene sempre più – mediante un Rousseau winckelmannizzato e con la spinta rivoluzionaria della borghesia che ha raggiunto il suo culmine nella Francia rivoluzionaria – quello ellenico.
[5] Al contrario, Mirri arriva a sostenere: “e della «religione popolare»? Nulla o quasi nulla in questo testo, che pure il Nohl ha classificato come «abbozzo» di un’opera che ne doveva trattare. Anzi, una sola notazione, che non depone certo a favore di un supposto «progetto» hegeliano di religione popolare tedesca: nella penultima annotazione essa è solo la religione «di fatto» che esige «una pubblica disciplina ecclesiastica» in tutto contraria alle esigenze della moralità”, Ivi, p. 141.
[6] Ivi, p. 41.
[7] Roberto Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 45.
[8] Carmelo Lacorte, Il primo Hegel, Sansoni, Firenze 1959, p. 213.
[9] Ivi, p. 225.
[10] G.W.F. Hegel, Scritti…, op. cit., p. 139.