Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi
segue da: Fenomenologia dello spirito IV parte
Il rapporto servo-padrone è caratteristico, in primo luogo, delle antiche civiltà orientali fondate sul dispotismo anche se influenza profondamente i rapporti sociali sino all’affermazione, con la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese, della società borghese. Anzi, persino in questo modo di produzione tale rapporto finisce con il riprodursi nel rapporto dispotico che si instaura nella maggioranza dei luoghi di lavoro fra il padrone e i lavoratori salariati, la cui forza-lavoro ridotta a merce è stata acquistata dal primo, che ne diviene perciò libero consumatore. Del resto, il termine tedesco utilizzato da Hegel, Knecht, si traduce in italiano tanto con servo, quanto con bracciante o garzone, ovvero gli immediati antecedenti del moderno proletario.
In generale questo rapporto diseguale segna in Hegel il passaggio dallo stato di natura alla società civile e, quindi, resta del tutto preponderante sino all’apogeo del mondo antico, basato sul modo di produzione schiavistico. Esso entrerà in crisi solo con l’affermazione, nell’epoca di crisi di tale modo di produzione, di concezioni del mondo che affermano che l’uomo è per natura libero e tale lo resta in quanto si pone come giudice di ogni cosa. Tale processo di emancipazione si svilupperà, quindi, attraverso il cristianesimo che, per la prima volta, afferma che ogni uomo è figlio di dio e che, quindi, gli uomini sono fratelli in Cristo.
Tale emancipazione resta a un livello essenzialmente astratto e teorico sino a quando non si giunge alla liberazione delle masse popolari, dei lavoratori manuali nella fase più radicale, giacobina, della Rivoluzione francese e con l’affermarsi a livello internazionale del modo di produzione capitalistico, in cui il lavoratore deve essere libero in senso positivo – da ogni forma di asservimento personale – e negativo (dai mezzi di produzione e di riproduzione) per poter esser costretto a vendere come merce la propria forza-lavoro. Tale parziale e ambigua liberazione è, per altro, costantemente messa in discussione all’interno dello stesso mondo capitalistico prima nel colonialismo, dove rimane dominante il rapporto servo-padrone, e poi nella fase di crisi del capitalismo, quando si affermano i regimi neo-schiavisti nazifascisti o si impongono forme di razzismo che tendono a considerare subumani i proletari stranieri immigrati. Perciò, per il compiuto superamento di tale rapporto bisognerà attendere l’affermazione a livello internazionale del socialismo, che vieterà ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, infine la società comunista, in cui inizierà la vera storia dell’uomo, in quanto venendo meno ogni forma di oppressione, di classe e statuale, gli individui diverranno compiutamente liberi.
Al contrario, con l’affermarsi del rapporto servo-padrone già ai primordi della preistoria dell’umanità, con il fondarsi delle prime società classiste, basate sullo sfruttamento della classe dominata, il padrone è riconosciuto come fonte di ogni verità – secondo la presunzione alle origini dell’affermazione dell’autocoscienza – mentre il servo non è riconosciuto e, generalmente, nemmeno si riconosce come essere umano e/o individuo. Così nelle prime forme di civiltà sviluppatesi nel mondo orientale, dalle più antiche sorte nella Mesopotamia, sino alle più evolute nell’africano Egitto, vi è un solo signore, il despota in quanto figlio di dio (per altro il tedesco Herr si traduce in italiano con signore, padrone e dio), al quale tutti gli altri uomini sono completamente asserviti, tanto che debbono prostrarsi sino a terra al suo passaggio, in quanto considerati discendenti degli animali. Tale disumanizzazione dei servi resta predominante ancora in tutto il mondo greco, in cui il lavoro manuale era considerato lavoro da schiavi, da subumani come erano considerati, persino da Aristotele, gli stranieri, detti barbari in quanto considerati privi di ragione, e le donne prive di anima ancora secondo la concezione cristiana, oltre ai proletari considerati ancora dai padri nobili del liberalismo come macchine da lavoro, bestie da soma, strumenti parlanti etc. Tale concezione sarà messa in discussione nel mondo greco quasi esclusivamente dal fondatore del comunismo, Platone, e si affermerà fra i sofisti e gli intellettuali più radicali in età ellenistica.
D’altra parte, sin dal mondo antico il riconoscimento tributato dai servi al proprio signore aveva scarso significato, proprio perché si dava per scontata la natura subumana dei lavoratori, comprese le donne. Proprio per questo i despoti diverranno sempre più capricciosi e insaziabili, come ancora diversi imperatori romani, in quanto il loro riconoscimento da parte dei loro sudditi era dato per scontato e non aveva ai loro occhi alcun valore o al massimo il valore che attribuiamo oggi al riconoscimento che ci tributa il nostro cane.
Tanto più che il padrone, persino nel mondo contemporaneo, limitandosi a consumare improduttivamente quanto producono le persone al suo servizio, resta generalmente alla pura Begierde, alla pura affermazione della propria autocoscienza mediante la insaziabile brama di appropriazione di tutto ciò che lo circonda, finisce con il non sviluppare la propria autocoscienza al di là di questa prima forma aurorale.
Del resto, il padrone diviene consapevole generalmente molto prima del suo servo del fatto che – al di là di quanto appare e lo sfruttatore vuol dare a intendere – non è il suo servo a dipendere dal suo signore, ma è al contrario il padrone a dipendere da chi è posto al suo servizio. Come è in realtà evidente persino nei purtroppo ancora diffusissimi rapporti ineguali fra uomini e donne, fondati sulla schiavitù domestica di queste ultime, in cui sono proprio i primi a essere quasi completamente dipendenti dalle seconde. In quanto il signore o chi svolge una funzione dominante è sempre in realtà completamente dipendente dal lavoro del suo dipendente o dominato e dal suo riconoscimento. Tanto è vero che, nel momento in cui i dipendenti smettono di farsi sfruttare, il padrone perde la sua stessa identità, come nel momento in cui scoprono di essere liberi e non riconoscono più il loro ex dominatore come padrone, quest’ultimo cessa effettivamente di esserlo.
Tanto più che, al contrario del padrone, che si è imposto come tale proprio non sottomettendosi neanche di fronte alla paura della morte (perciò risulta al quanto irrealistico, storicamente, immaginare che i signori rinunceranno pacificamente ai loro privilegi e al loro status di padroni), il servo avendo fatto sino in fondo l’esperienza della paura della morte, che è una paura assoluta e non determinata – in quanto, come si suol dire: a tutto c’è rimedio, meno che alla morte – è divenuto consapevole del valore assoluto della propria autocoscienza. Tanto da preferire il rassegnarsi alla condizione di servo, riconoscendo l’altro come padrone, pur di conservarla. Il servo scopre così il valore assoluto della propria autocoscienza in quanto pura negatività di ogni singola determinazione. Ogni cosa esterna diviene, infatti, una determinazione dell’autocoscienza mediante il suo semplice farne esperienza. L’Io afferma se stesso non solo togliendo costantemente e appropriandosi del Non-Io, come del suo es, ma prendendo coscienza che in ultima istanza è solo l’Io a poter porre l’altro da sé, come propria determinazione.
Inoltre, prendendo coscienza della morte quale “signora assoluta” la coscienza servile e, più in generale, i subalterni divengono consapevoli della propria radicale finitezza, esperienza decisiva che corrisponde alla maturazione dell’individuo, la cui Bildung, la cui formazione raggiunge così il suo fondamentale obiettivo. Il subalterno così si distingue in modo decisamente più radicale del proprio dominatore dallo stadio animale, di cui quest’ultimo è in effetti ancora prigioniero essendosi fermato alla Begierde, alla mera volontà di potenza, mentre il servo – a differenza di ogni altro essere vivente che in realtà non muore, in quanto non è consapevole né di vivere, né di dover morire – ne prende pienamente coscienza. In tal modo matura abbandonando i comportamenti ancora irrazionali propri dello stadio di minorità, in cui inconsapevoli della propria radicale finitezza si perde una quantità incredibile del nostro limitato e, perciò, tanto più prezioso, tempo dietro ad attività del tutto futili e, anzi, si limita costantemente la nostra aspettativa di vita sottoponendoci a pericoli sconsiderati e conducendo un’esistenza spericolata che, proprio perché non siamo immortali, non può che avvicinare il giorno della nostra dipartita o quanto meno compromettere la nostra salute corporale e spirituale negli anni della maturità. In tal modo il subalterno è in grado di superare la pura coscienza propria ancora dello stadio animale per elevarsi a quell’autocoscienza cui soltanto il vero uomo può assurgere.
Tanto più che, al contrario del suo dominatore, il subalterno impara – attraverso la per quanto tragica esperienza del lavoro subordinato – a tenere a freno il proprio naturale e immediato appetito, gli impulsi primordiali provenienti dal proprio es – tanto la carica libidica che la pulsione di morte – e, così, si autodisciplina. Mentre i padroni finiscono con l’essere sempre più schiavi della soddisfazione dei loro impulsi primari, che sono scarsamente in grado di sublimare e, quindi, finiscono con il dare spesso sfogo nel modo più irrazionale, sfrenato e asociale ai proprio impulsi sessuali e di morte, sia che quest’ultimi si rivolgano alla propria autodistruzione, sia che si scarichino sadicamente sui propri subalterni.
Il padrone ha delegato al servo il rapporto con la natura, con l’oggetto, con l’altro da sé. Il servo non è più Begierde perché non si relaziona più all’oggetto in funzione del suo appetito, ma per approntarlo per il proprio signore. Così il servo, tenendo a freno l’appetito, si autodisciplina e impara a dominare gli impulsi naturali.
Il lavoro del subalterno diviene così un momento decisivo non solo della propria Bildung, della propria formazione e auto-formazione, ma più in generale di quella dell’intero genere umano, di cui costituisce un momento necessario del processo di emancipazione dallo stadio di natura. Mediante il lavoro subordinato il subalterno non nega più immediatamente e assolutamente l’oggetto, come fa l’animale o l’autocoscienza dello sfruttatore rimasta al consumo sfrenato della Begierde, ma lo nega solo in modo determinato. In tal modo diviene capace di mediare il rapporto che si stabilisce in ogni esperienza fra soggetto e oggetto e che al livello immediato della Begerdie ancora animale resta prigioniero della propria immediatezza.
In tal modo il lavoratore subalterno realizza il soggetto, la propria soggettività, nell’oggetto, nella materia prima in ultima istanza sempre naturale e, così facendo, soggettivizza la natura, umanizza gli oggetti dandogli forma, realizza in essi il proprio progetto soggettivo, consentendogli di entrare a far parte del regno umano della libertà. È questa, d’altro canto, la differenza fondamentale che rende il peggiore architetto superiore alla migliore ape, in quanto quest’ultima agisce sulla base dell’immediato istinto che la lega per sempre alla specie, mentre anche l’ultimo degli architetti costruisce prima nella propria testa un prototipo, un modello dell’oggetto da realizzare. In tal modo impara a riconoscere se stesso, la propria autocoscienza, quale unica fonte di verità degli oggetti del proprio lavoro. Dunque, unicamente mediante il lavoro l’autocoscienza si realizza oggettivamente, come pretendeva di essere soggettivisticamente, quale effettiva fonte di ogni verità. In tal modo l’uomo si realizza come uomo, è artefice e responsabile della costruzione storica della sua stessa essenza a differenza dell’animale. Quindi, ricapitolando, il subalterno nell’atto di trasformare il proprio oggetto di lavoro trasforma, al contempo, se stesso, si forma mediante il processo della Bildung (formazione-educazione).