La terza lezione del corso, avvenuta sabato 28 novembre, ha riguardato Lenin ed è stata tenuta dal compagno Renato Caputo. La presentazione dell’opera del rivoluzionario bolscevico è stata affrontata partendo dai suoi scritti principali.
Il Che fare? di Lenin (1902), infatti, è stato non a caso uno dei testi più importanti per diverse generazioni di rivoluzionari. Lì sono esposti alcuni principi basilari, soprattutto la funzione rivoluzionaria dell’avanguardia del proletariato. Quando questa è organizzata in quella forma di partito segnalata da Lenin e che è ancora oggi uno dei più importanti lasciti del rivoluzionario russo, riesce a indicare la direzione per il superamento della società capitalista e la costruzione di quella comunista. Al contrario, invece, delle rivendicazioni puramente “tradeunioniste” o sindacali, tipiche della tendenza russa dell’economicismo che Lenin critica in questo testo fondamentale e che possono al massimo aspirare a un miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori senza riuscire però a porre l’obiettivo di un reale superamento dell’esistente.
Di più: la lezione che lo stesso Lenin aveva imparato sulla propria pelle e cioè quella della inefficacia di ogni tentativo estremistico fine a se stesso e il cui velleitarismo avrebbe condotto alla morte di ogni seria possibilità rivoluzionaria – “estremismo malattia infantile del comunismo” scrive, infatti – lo porta ad approfondire i temi di una tattica utile per attuare il marxismo nella realtà concreta del suo tempo. Possiamo quindi interrogarci su quanto quella tattica, da Lenin stesso e dal Partito bolscevico attuata, possa essere adeguata per la Russia di allora o per i paesi a capitalismo avanzato. Come si capisce, leggendo i Quaderni filosofici, il marxismo non può dunque ridursi a un decalogo di leggi universalmente valide ma esso si può sviluppare solo tenendo conto dei diversi contesti storici.
In Imperialismo fase suprema del capitalismo si precisa poi il punto di vista marxista-rivoluzionario, differenziandolo da quello di Hobson e di Rudolf Hilferding, sul ruolo dei grandi paesi a capitalismo avanzato nella più complessiva economia mondiale. Le contraddizioni del modo di produzione capitalista, infatti, non possono essere superate (se non con la rivoluzione) e rimanendo all’interno del medesimo sistema conducono necessariamente alle politiche di potenza e sopraffazione tipiche dell’imperialismo.
Ma la rivoluzione non è un evento che si produce da solo, automaticamente. Nonostante le crisi di sovrapproduzione generino, infatti, una situazione oggettivamente rivoluzionaria, essa rimane tale solo in potenza, fino a quando, cioè, una soggettività organizzata, un partito rivoluzionario (di cui abbiamo già parlato sopra) non riesca a incidere positivamente nella storia.
Stato e rivoluzione, infine, sviluppando un’analisi basata sul materialismo storico, ci ricorda come lo Stato non possa mai essere considerato un organismo neutro ma al contrario sia sempre un momento della lotta di classe. Per questo i soviet hanno espresso la forma politica di democrazia più avanzata, mettendo in campo la partecipazione diretta nel nuovo quadro in cui si esprimeva la lotta di classe dei lavoratori contro lo sfruttamento economico borghese e le sue sovrastrutture politiche. Motivo in più, questo, per sottolineare come il potere in uno Stato socialista non debba mai fossilizzarsi rischiando di perdere il dinamismo necessario alla lotta di classe.
Ultimata la presentazione di Lenin, il dibattito si è articolato così: si è partiti dal dato di fatto che, come già discusso nei corsi precedenti, la rivoluzione in Russia, come dirà lo stesso Lenin “anello più debole della catena imperialista”, aveva anche l’obiettivo di espandersi in occidente, ma che al contrario proprio in occidente emergevano posizioni sempre più riformiste. Quindi il fallimento della rivoluzione in occidente implica un fallimento della rivoluzione russa? La questione si è primariamente posta analizzando la Russia all’indomani della rivoluzione, e dopo la morte di Lenin, cercando di capire cosa abbiano fatto i marxisti russi in risposta alla situazione internazionale e specialmente europea (Trotsky che pensava a una rivoluzione permanente, Stalin che sosteneva necessario affermare il socialismo anche in un solo paese e Bucharin che pensava a un capitalismo controllato dal partito comunista), abbiamo preso atto che sia alla fine risultata egemone la linea di Stalin. Abbiamo poi sviluppato un paragone tra il Marx di Parigi, che scrivendo negli Annali franco-tedeschi si riferisce a una ipotetica rivoluzione nella Germania del tempo, ancora arretrata e dove non era ancora arrivato il capitalismo, definendola un “salto mortale”, e quanto fatto in Russia, in quanto anch’essa era un paese arretrato. Abbiamo ricordato che lo stesso Marx, negli ultimi anni, riguarderà la situazione russa evidenziando delle condizioni favorevoli alla rivoluzione, tra cui lo sviluppo di numerosi fermenti rivoluzionari e una situazione contadina in cui erano autogestiti e collettivizzati i campi. Successivamente abbiamo preso in considerazione il rapporto tra la concezione creativa di Lenin e quella dogmatica di Kautsky rispetto allo sviluppo del processo rivoluzionario. Anche Gramsci, in un articolo intitolato “La rivoluzione contro il Capitale”, esaltava la grandezza della rivoluzione in Russia nell’attualizzare il marxismo e superare il dogmatismo. Il marxismo rivoluzionario di Lenin, dunque, non passerà completamente in sordina in occidente, ma verrà recepito, sviluppato e adattato al contesto di paesi a capitalismo avanzato.
Oggi, proprio perché i comunisti sono pochi, continuano a frammentarsi e non riescono a costruire una reale alternativa, anche di fronte a un’evidente crisi del modo di produzione capitalista, riprendere il pensiero di Gramsci sulla costruzione del processo rivoluzionario in un paese a capitalismo avanzato è fondamentale. Vi aspettiamo quindi il 4 dicembre 2020 con il quarto appuntamento del nostro corso sul marxismo, che avrà come oggetto proprio Gramsci e la rivoluzione in occidente!