Sulla disciplina di partito e le alleanze di classe (5) [1]
Lenin è stato molto spesso virulentemente criticato per aver considerato elemento decisivo per l’organizzazione di un partito rivoluzionario la questione della disciplina. Al punto che diversi intellettuali tradizionali hanno voluto ritrovare in tale impostazione antidemocratica e militarista quel peccato originale che avrebbe portato, come un frutto in qualche modo necessario, all’affermazione con Stalin di un regime compiutamente totalitario. Del resto la concezione leniniana del partito non poteva che apparire alle anime belle libertarie e piccolo borghesi contraddittoria con il fine che si prefiggeva di raggiungere, ovvero una società in grado di autoregolarsi al punto tale da poter fare a meno della stessa funzione coercitiva dello Stato.
D’altra parte, chi vuole realmente realizzare un così alto ed elevato obiettivo, come sottolineava già Niccolò Machiavelli, non può che utilizzare tutti i mezzi necessari al raggiungimento di tale scopo, a meno di non ridursi alla posizione parolaia dei massimalisti che si dichiarano per la rivoluzione sociale, ma non fanno niente di concreto per portarla a termine. Del resto, come notava già Hegel, un’idea è tale soltanto se è in grado di realizzarsi nella prassi, altrimenti resta un mero dover essere, una pura aspirazione astratta, se non una di quelle buone intenzioni di cui sono lastricate le vie dell’inferno. Tanto più che dal punto di vista di una concezione realistica della storia, come quella del materialismo storico, il motore dello sviluppo in ogni società divisa in gruppi sociali non può che essere la lotta di classe.
Perciò chi vuole veramente farla finita con il militarismo caratteristico della società capitalista, giunta al suo stadio di sviluppo imperialista, dovrà necessariamente abbattere quest’ultima mediante una guerra sociale rivoluzionaria. Ma, come capirebbe anche un bambino, una guerra si può avere speranza di vincerla soltanto disponendo di un’organizzazione militare o a essa ispirata, in cui la disciplina non può che svolgere una funzione centrale, con buona pace dei donchisciotteschi cavalieri della virtù che per il loro verboso idealismo saranno sempre facilmente sconfitti dai ben più realistici e cinici uomini del corso del mondo.
Persino quello che era stato il maestro di marxismo di Lenin, Georgij Valentinovic Plechanov, sottoporrà la concezione leninista del partito a una radicale critica, considerandola settaria e, perciò, condannata alla sicura sconfitta. Imponendo la sottomissione a questa rigida disciplina, i candidati a far parte del partito rivoluzionario sarebbero necessariamente stati di un numero alquanto ristretto, mentre la stessa classe operaia, che si voleva condurre alla conquista del potere, aveva altrettanto necessariamente bisogno di stabilire le alleanze di classe indispensabili per poter dare vita a un blocco sociale in grado di rovesciare e sostituirsi al blocco sociale dominante.
Lenin, al contrario, ragionando in modo ben più concretamente materialistico e dialettico era convinto che proprio in quanto il proletariato moderno ha bisogno di stabilire una serie di alleanze di classe, se intende realmente praticare l’obiettivo della conquista del potere, ha bisogno di una avanguardia che si deve autosottoporre a una ferrea disciplina. Solo mediante un severo spirito di corpo il partito del proletariato urbano potrà realizzare tutte le alleanze di classe necessarie a perseguire il proprio alto e ambizioso obiettivo, senza mai correre il funesto rischio di finire con il mescolarsi con gli altri gruppi sociali, perdendo la propria specificità rivoluzionaria e con essa la possibilità stessa di egemonizzare il blocco sociale di cui abbisogna. In altri termini, solo un partito comunista organizzato e disciplinato può aspirare a dare una direzione consapevole a quel fronte ampio di forze antimperialiste, che deve mettere in campo per poter fronteggiare il nemico di classe.
Tale concezione, sottolinea Brecht, non poteva che apparire indigesta in particolare a quegli intellettuali tradizionali, in via di proletarizzazione, che intendevano quanto meno influenzare se non dirigere il partito del proletariato moderno. In effetti, un partito fortemente coeso e saldamente strutturato non corre il rischio di farsi facilmente abbindolare ed egemonizzare da intellettuali tradizionali transfughi dalle classi dominanti e particolarmente infidi, dal momento che non appena lo scontro si acutizza tendono inevitabilmente a cercare rifugio nella classe sociale di provenienza. Tanto più che, come sottolinea acutamente Brecht, la reazione degli intellettuali contro la disciplina su cui si fonda il partito leniniano è stata sempre, paradossalmente, a sua volta particolarmente violenta.
Dinanzi a tali attitudini critiche, che tendono ad auto-contraddirsi, la risposta leniniana approntata da Brecht è che la libertà che tanto tali intellettuali tradizionali intendevano rivendicare e preservare dalla disciplina di partito, non può che divenire reale uscendo dalla propria condizione di subalternità alla classe dominante, prendendo parte al contropotere esercitato dal partito del proletariato urbano. Per essere liberi non si può certo essere dominati, ma occorre rovesciando i rapporti di forza conquistare il potere politico. Gli intellettuali tradizionali, che tendono a considerare il potere che intendono esercitare, quale potere della stessa ragione universale, sono in realtà costretti, per poterlo effettivamente esercitare, a unirsi al partito degli sfruttati, in quanto solo questi ultimi sono in grado di battersi sino in fondo per la conquista del potere. Anche perché per questi ultimi tale lotta ha un’importanza vitale, dal momento che conducono la lotta per il potere per potersi conquistare quei mezzi di produzione e di riproduzione della forza-lavoro indispensabili alla loro stessa sussistenza. Perciò, la loro lotta per il potere non potrà che determinarsi allo scopo di spezzare la macchina dello Stato degli sfruttatori, con l’obiettivo di espropriare gli espropriatori.
Proprio perciò, fa notare acutamente Brecht, chi è realmente sfruttato e oppresso dalla classe dominante non può certo fare proprie le attitudini libertarie degli intellettuali piccolo borghesi, nel momento in cui prende coscienza che quella disciplina cui scelgono liberamente di sottostare è proprio quell’unico mezzo necessario a eliminare ogni forma di sfruttamento, in quanto costituisce una conditio sine qua non per condurre in modo efficace l’imprescindibile conflitto sociale. Proprio per questo il proletariato dotato di coscienza di classe non potrà mai dare grande importanza a questa attitudine libertaria e in fondo, individualista e piccolo borghese, degli intellettuali in via di proletarizzazione. Del resto, chi meglio di Brecht poteva cogliere ed esprimere tali complesse problematiche, avendole vissute concretamente sulla propria pelle di intellettuale anarcoide piccolo-borghese divenuto, attraverso un serio e impegnativo processo di formazione, sempre più organico all’avanguardia degli sfruttati in lotta per il potere.
Marx ed Engels in quanto filosofi della praxis (149)
Secondo Brecht, Marx ed Engels, i padri del socialismo scientifico, possono essere considerati dei filosofi unicamente a patto di condividerne la concezione del mondo secondo la quale i filosofi non possono più limitarsi a sviluppare nuove e originali interpretazione della realtà, ovvero del mondo storico e sociale, ma devono necessariamente operare in funzione di una sua radicale trasformazione. All’obiezione, tipica degli intellettuali tradizionali, secondo la quale una nuova interpretazione della realtà non può che cambiarla anche radicalmente, Brecht rispondeva in modo polemicamente acuto in senso negativo, dal momento che la massima parte delle interpretazioni del mondo elaborate dagli intellettuali tradizionali sono in realtà mere ideologia, nel senso più deteriore del termine. Si tratta, dunque, di interpretazioni che tendono nella maggior parte dei casi, con un’attitudine conservatrice asservita al potere, a giustificare se non naturalizzare, con intento apologetico, l’esistente pur nella sua contraddittorietà e irrazionalità.
In altri termini tali concezioni giustificatorie tendono a presentare ciò che è meramente esistente come razionale, come necessario e, perciò, giusto e non modificabile. Del resto, Marx ed Engels in quanto filosofi della praxis (rivoluzionaria) non si stancavano di denunciare come le idee dominanti, in una determinata epoca storica, fossero essenzialmente e necessariamente espressione degli interessi della classe dominante. Perciò buona parte degli intellettuali che si definiscono o sono definiti dall’ideologia dominante come filosofi non sono in realtà che degli ideologi, asserviti in modo più o meno consapevole, agli interessi dei rapporti di produzione e di proprietà vigenti, per quanto irrazionali e in contrasto con l’ulteriore sviluppo delle forze produttive e dello stesso genere umano possano essere divenuti. Perciò, tali interpretazioni del mondo non sono affatto funzionali alla sua trasformazione, ma tendono al contrario a farlo apparire come il migliore dei mondi possibili, con l’obiettivo più o meno consapevole di frustrare e scoraggiare chi, al contrario, intenderebbe mirare a trasformarlo radicalmente.
Note
[1] I brani che commenteremo e parafraseremo in questo articolo sono tratti da B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1934-37], tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970. Tra parentesi tonde metteremo a fianco del titolo di ogni brano il numero delle pagine del libro in questa sua traduzione italiana. Non segnaleremo, generalmente, i casi in cui eventualmente modificheremo tale, per altro ancora decisamente valida, traduzione.