Gli eventi storici esposti con dovizia di particolari dal film prendono avvio proprio dove si concludevano quelli narrati in The Post di Steven Spielberg. I fatti al centro di The Silent Man – ossia l’epica lotta per far emergere lo scandalo del Watergate, fino a costringere lo stesso presidente Nixon a doversi dimettere per evitare l’incriminazione – sono gli stessi narrati in Tutti gli uomini del presidente di Pakula (1976). Rovesciato è però il punto di vista della narrazione, se nel film di Pakula al centro della scena vi è il coraggioso giornalismo di inchiesta che ha reso pubblico lo scandalo, nel film del regista investigativo Peter Landsman il centro della scena è occupato da “gola profonda”, ovvero dall’altrettanto coraggioso alto funzionario del FBI che ha reso noti i delittuosi eventi alla stampa.
Tratto comune a tutti e tre i film – che andrebbero visti nell’ordine: The Post, The Silent Man e Tutti gli uomini del presidente, aggiungendo per completezza come introduzione The Fog of War: La guerra secondo Robert McNamara e come conclusione Frost/Nixon il duello, mentre per la necessaria contestualizzazione storica non si può che rinviare al settimo episodio di USA-La storia mai raccontata di Oliver Stone – è l’involontario eroismo necessario anche solo per fare il proprio dovere professionale in un sistema economico/politico reso sempre più irrazionale dalle sue stesse intime contraddizioni.
La tematica non può che richiamare il celeberrimo scambio di battute nella decisiva scena tredicesima de Vita di Galileo di Brecht quando, di fronte al suo più fedele discepolo, che affranto e indignato dinanzi all’abiura del maestro afferma: “Sventurata la terra che non ha eroi”, Galilei lo corregge asserendo: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.
In The Silent Man, come si evince già dal titolo, abbiamo più ancora che negli altri film un eroe suo malgrado, un uomo da sempre abituato a mantenere il massimo riserbo sul proprio delicatissimo lavoro, che si trova costretto improvvisamente dal precipitare degli eventi, nel suo paese sempre più allo sbando, a trasformarsi addirittura nella celebre “Gola profonda” arrivando a denunciare la criminosa attività del suo stesso presidente. Anzi il protagonista di The Silent Man è il più emblematico degli anti-eroi di questa vicenda, in quanto si trova costretto, del tutto suo malgrado, a divenire un eroe proprio perché è stato travolto dalla presa di coscienza della sventura che colpisce una terra che ha bisogno di eroi.
Mentre Robert Redford, In tutti gli uomini del presidente, impersonava il giornalista repubblicano Bob Woodward che si trova costretto a rischiare il tutto per tutto per riuscire a denunciare le malefatte del presidente e dei vertici del suo stesso partito, mentre in The post Meryl Streep interpretando la direttrice del “Washington Post”, costretta suo malgrado a svolgere il ruolo di eroina, andando contro il suo stesso ceto sociale, il suo ruolo di donna – in una società dominata dagli uomini – sino a dover denunciare il suo stesso amico di famiglia: Robert McNamara, il protagonista di The Silent Man si vede costretto, per non venire meno al proprio dovere professionale, a sferrare un colpo al cuore proprio a quel sistema di potere che per tutta la lunga e gloriosa carriera si era dedicato a difendere, anche con il suo convinto silenzio sui mezzi necessariamente sporchi necessari a portare a compimento il proprio compito.
Ovviamente non è un caso che ben due film importanti siano stati proposti nelle sale in un lasso così breve di tempo su questo stesso evento, per quanto significativo del passato. Negli Stati Uniti, in effetti, sempre più spesso ci si interroga se sarà possibile o addirittura necessario, dinanzi a un presidente sempre più imbarazzante e impresentabile come Trump, il ripetersi di quell’evento unico nella storia degli Stati Uniti di un presidente costretto dalle sue stesse malefatte a dover dare le dimissioni. In entrambi i casi siamo infatti dinanzi all’imbarazzante paradosso di un sistema che rischia di vedersi costretto, per poter sopravvivere, a sacrificare il suo stesso presidente, che con il suo comportamento rende sempre più palese al mondo intero l’irrazionalità del sistema che ha dovuto selezionare un tale personaggio per farsi governare “democraticamente”.
Sia in The Silent Man, sia in The Post appare piuttosto evidente l’ingenuo patriottismo del regista e produttore nel ritenere indispensabile il più alto eroismo e il più elevato spirito di sacrificio da parte di un servitore dello Stato e persino di un imprenditore per consentire al proprio paese di sopravvivere dinanzi alle sue stesse contraddizioni che, da quantomeno quasi mezzo secolo, rischiano di travolgerlo. In entrambi i casi siamo dinanzi al paradosso di buona parte del cinema americano dotato di un senso civico superiore a quello generalmente presente nei cineasti degli altri paesi, tanto da apparire sempre pronto a mettere in luce le proprie contraddizioni proprio perché ritiene comunque che esse siano – anche se a costo di un sempre maggiore involontario eroismo e spirito di sacrificio – comunque risolvibili al proprio interno. Anche perché il sistema vigente è a tal punto “naturalizzato”, anche da parte degli intellettuali più coraggiosi nel denunciarne le contraddizioni, che l’unica alternativa plausibile sembra essere un diluvio universale da cui non potrà che uscire una società apertamente distopica. A questo proposito sono molto significativi i film di fantascienza o comunque ambientati nel futuro che, paradossalmente, sono completamente privi del benché minimo principio speranza o spirito di utopia. In ogni caso sembra ritenersi scontato che la crisi del sistema sia necessaria e irreversibile, un oscuro destino che incombe e che non può che condurre a esiti catastrofici o a prospettive distopiche che non possono che farci rimpiangere il misero presente, pur con tutte le sue contraddizioni. Ecco perché i protagonisti, realisticamente sempre più presentati come eroi per caso o per necessità – pur con tutti i loro ammirevoli e sovrumani sforzi – non sembrano in grado di poter fare altro che differire nel tempo un catastrofico collasso sempre rappresentato e creduto come fatale.
Del resto è proprio la dimensione individualistica in cui generalmente si muove l’eroe a rendere la sua missione impossibile, utopistica, volta al più a contenere i danni e a rinviare il riesplodere sempre più dirompente delle contraddizioni intrinseche al sistema. Inoltre, sempre più spesso, come in modo emblematico si vede in The Silent Man, il protagonista – per quanto eroe – ci viene presentato come un conservatore, spaventato dal presente e ancora più del futuro e volto a idealizzare il buon tempo antico. Inoltre, come vediamo in modo altrettanto emblematico nel film, il protagonista, l’eroe è generalmente un singolo individuo privato che si trova costretto a contrapporre e ad anteporre la propria dimensione di bourgeois a quella di citoyen per poter contrastare, a difesa della propria libertà individuale, uno Stato in quanto tale necessariamente tendente al totalitarismo.
Inoltre il protagonista è sempre più spesso, come anche in The Silent Man, un esponente dello Stato inteso quale guardiano notturno del rule of Law (del governo della Legge) – che è poi, ça va sans dire, la “naturale” legge del mercato – di contro ai rappresentanti del potere politico, a differenza del guardiano eletti “democraticamente”. Sono proprio questi ultimi a essere rappresentati come i principali pericoli per la tenuta di un sistema al solito “naturalizzato” in primo luogo perché, dovendo dar conto del proprio operato agli elettori, per poter essere rieletti, sono costretti ad attenersi al politically correct e al formalismo giuridico. Ecco che allora i difensori della legalità liberal-democratica sono necessariamente in cattiva fede, in quanto in realtà mirano soltanto alla rielezione e sono del tutto inefficaci a fronteggiare il nemico che, in quanto estraneo alla società “naturale”, è sempre assoluto, è il totalmente altro che non può che essere annientato per garantire l’ordine.
Vediamo così come l’eroe di The Silent Man – con cui il pubblico è portato al solito a impersonarsi per l’assoluto divieto non scritto di un qualsiasi utilizzo dell’effetto di straniamento – è il braccio destro del famigerato direttore del FBI John Edgar Hoover, che ha potuto per quasi cinquant’anni contrastare il nemico, ossia il comunista (alieno e straniero rispetto alla comunità), proprio utilizzando i metodi più sporchi resi necessari dalla guerra (di classe). Per raggiungere tale obiettivo, il grande guardiano notturno, non ha potuto fare a meno di far spiare i politici, per mantenere la propria indipendenza rispetto a chi è costretto dalla “democrazia” a sottoporsi al formalismo giuridico. Dal punto di vista filosofico si tratta della riproposizione, per quanto inconsapevole – talmente potente è l’ideologia dominante – delle tesi di Carl Schmitt, il massimo esponente della giurisprudenza e della filosofia politica nazional-socialista. Il tutto calato nel contesto dell’ipocrita puritanesimo statunitense, per cui i politici rischiano di perdere la loro credibilità davanti agli elettori non se ordinano guerre infinite o colpi di Stato contro il nemico, alias il comunista (il vietnamita etc.), ma se dicono bugie o tentano di sviluppare relazioni extraconiugali.
Così il “nostro eroe” continua a difendere anche dopo la morte di Hoover il suo enorme archivio privato volto a ricattare, per questioni legate alla vita privata, i rappresentanti politici eletti “democraticamente” e non si fa scrupoli di usare i mezzi più sporchi extra-legali per contrastare il nemico, ovvero il comunista qui rappresentato dagli Weather Underground.
In conclusione non resta che criticare il film dal punto di vista formale. The Silent Man è da questo punto di vista piatto, decisamente mediocre, del tutto conservatore anche per quanto concerne lo specifico filmico. Ragione in più per non perdere ulteriore tempo dietro a questo film si potrebbe pensare. Tuttavia, anche da questo punto di vista, invece il film è interessante in quanto portatore di un difetto comune a buona parte dell’industria culturale statunitense che finisce spesso per confondere il realismo con il più becero naturalismo. Ciò comporta, di conseguenza, la difficoltà altrettanto tipica di passare dalla dimensione piatta e lineare della cronaca alla dimensione alta, perché profonda e intimamente contraddittoria, della storia. Anche da questo punto di vista il film appare tipico della tendenza, da parte dell’industria culturale, in particolare cinematografica, di dare rilievo soltanto all’aspetto analitico, filologico della ricostruzione storica, perdendo completamente di vista lo sfondo filosofico, dialettico in cui andrebbe necessariamente riconsiderato.