Come di consueto il film di Ken Loach punta dritto al proprio obiettivo e lo centra in pieno. Fa l’effetto di un salutare pugno al centro dello stomaco dello spettatore, in quanto ci presenta nel modo più crudo e realistico gli effetti devastanti, in primo luogo sulla vita etica, prodotti dall’egemonia quasi incontrastata del pensiero unico dominante. Possiamo, quindi, assistere alle tragiche conseguenze su una tipica famiglia proletaria, priva di coscienza di classe, della lotta di classe condotta unilateralmente dall’alto dal capitale in funzione del massimo sfruttamento della forza lavoro.
Già il primo dialogo, che avviene quasi tutto fuori campo, durante i titoli di testa ci porta immediatamente in medias res. Siamo in pieno colloquio di lavoro fra un proletario che, disponendo unicamente della sua forza lavoro non particolarmente specializzata – come confesserà in seguito al figlio, “sono tutto muscoli e niente cervello” – aspira inconsapevolmente a farsi sfruttare come fattorino, e il suo prossimo padrone. Tale tragica realtà è completamente mistificata dall’apparente libertà e uguaglianza che nasconde i reali rapporti sociali nel modo di produzione capitalistico. A confrontarsi sono infatti, sul piano superficiale dello scambio, del “libero mercato”, due individui liberi e giuridicamente uguali a livello fenomenico, che cercano di trovare di comune accordo un’intesa, che consenta al lavoratore di poter avere l’occasione da sempre attesa di un “lavoro autonomo” con cui, grazie al suo notevole impegno e alle sue capacità di guidare senza fare incidenti, immagina di potere, nel giro di relativamente poco tempo, mutare radicalmente il suo status sociale, divenendo un piccolo proprietario di un appartamento.
La forma di “libera” associazione in franchising fra un lavoratore autonomo e un’impresa, specializzata nella consegna in tempi molto rapidi di pacchi, si realizza immediatamente nella forma del reciproco accordo mediante contratto, dal momento che entrambi i contraenti condividono il pensiero unico dominante neoliberista. D’altra parte, questa visione del mondo, come il film ci dimostrerà nel modo più chiaro ed evidente, è solo apparentemente neutrale in quanto corrisponde pienamente agli interessi del padrone, che mira a riprodurre in forma allargata il suo capitale, mediante lo sfruttamento di quanto ha investito in capitale variabile, il così detto capitale umano. Non fosse che per questo motivo tale ideologia è del tutto contraria ai reali interessi dell’uomo che intende realizzarsi con il proprio lavoro e che, perciò, rifiuta di vivere dell’assistenzialismo sempre più micragnoso “garantito” da quanto resta del sedicente “Welfare State”.
Il problema è che in realtà il nostro volenteroso lavoratore non dispone né dei mezzi di produzione necessari a vivere del proprio lavoro, salvaguardando la propria dignità, né dei mezzi di sussistenza che gli consentirebbero di poter affrontare realmente una libera trattativa con chi intende acquistare la sua forza lavoro, per farne strumento del proprio personale profitto. A complicare le cose è che questa reale e materiale disparità, che rende del tutto fittizia la rappresentazione del libero mercato, è a sua volta occultata dall’ideologia neoliberista dominante per cui niente deve limitare la libertà del singolo individuo, se non la proprietà privata altrui, dato sottinteso e naturalizzato. Perciò il lavoratore non si vedrà più costretto a svendere la propria forza lavoro – avendo assolutamente bisogno dei mezzi di produzione e sostentamento per potersi riprodurre lui e la sua famiglia in quanto proletari – ma si unirà “liberamente” con il proprietario della ditta in una “comune attività economica”, dove ognuno resta pienamente libero e “indipendente” dall’altro.
In tal modo lo spettatore può divenire consapevole – grazie agli stimoli a una sana riflessione messi a disposizione dal film – di quale sia il reale valore della tanto sbandierata libertà e autonomia del lavoratore contemporaneo. La libertà è, infatti, in primo luogo l’essere “liberi” dei mezzi di produzione e di sussistenza, di cui ha assoluto bisogno; l’“autonomia” significa in primis la fine di tutte quelle garanzie sociali, assicurate dai “lacci e lacciuoli del vecchio, noioso e subalterno posto fisso”, che costringeva a fare per tutta la vita la stessa noiosa e subordinata attività lavorativa. Mentre ora i proletari sono stati “liberati” da tutto ciò, nel senso che come nel caso del protagonista del film non esistono più garanzie che consentano di pianificare il futuro “limitando” la propria astratta “autonomia”. Per cui si può essere per tanti anni un valente ed esperto lavoratore edile, progettare di potersi comprare una casa di proprietà con la moglie, salvo ritrovarsi – in modo del tutto imprevedibile e indipendente dalla propria volontà e capacità – a cercare di riciclarsi in un’altra professione, dovendo rinunciare ai propri sogni di divenire un piccolo proprietario, avendo in più la “libertà e autonomia” di dover trovare un nuovo accordo per poter avere un appartamento ancora più misero ed esiguo in cui far vivere il proprio nucleo familiare.
Tornando al contratto felicemente concluso dal protagonista con il suo “datore di lavoro” – che in realtà non è altro che il suo sfruttatore, in quanto riceve gratuitamente il pluslavoro del proprio capitale umano – non resta che stabilire, da parte del neo lavoratore autonomo, se preferisce prendere in affitto un furgone dall’impresa con cui collabora o provvedere da sé. Quindi scopriamo subito un’altra forma di autonomia e libertà da parte del “nuovo” lavoratore, quella di dover decidere se affittare una parte determinante degli strumenti di lavoro a prezzi da strozzino dall’azienda con cui “collabora” o cercare un’altra soluzione sul libero mercato. La soluzione più razionale ed economica è al solito la più cara, nel nostro caso acquistare un furgone nuovo, ma il nostro (anti)-eroe non solo non può permetterselo, ma non può nemmeno accedere al mutuo necessario a pagarlo con gli interessi alle banche. La soluzione meno anti-economica alla sua portata resta prenderlo in affitto da una ditta esterna, ma anche in tal caso avrebbe bisogno di una significativa cauzione da depositare e, inoltre, sarebbe pienamente responsabile del suo strumento di lavoro. Per poter avere i soldi della cauzione è costretto, nei fatti, a imporre alla moglie la vendita della sua auto utilitaria, sebbene essa costituisca a tutti gli effetti un mezzo di produzione a lei necessario, dovendosi spostare come badante da una parte all’altra della metropoli.
In tal modo, grazie alla “libertà della donna concessa dalla società capitalistica”, entrambi i coniugi per poter riprodurre la propria famiglia proletaria sono costretti a lavorare fuori casa letteralmente dalla mattina alla sera. In effetti, ormai, per mantenere una famiglia proletaria non basta più il solo sfruttamento del capo famiglia, ma c’è bisogno dello sfruttamento a tempo pieno della stessa consorte, a proposito della parità di genere che garantirebbero le società liberal-democratiche. Si spalanca, così, una “nuova” tragedia “moderna” – avendo i coniugi, tornati stanchi morti dopo una giornata lavorativa, appena il “tempo libero” di addormentarsi dinanzi alla televisione, che contribuisce a renderli sempre più subalterni all’ideologia dominante – non c’è più nessuno che si occupa dei lavori di cura e, in primo luogo, dell’educazione e formazione della prole. Così i due figli minorenni restano abbandonati a loro stessi, costretti a vivere in una situazione sempre più frustrante, non potendo avere le necessarie cure dei propri genitori, né quel minimo sostegno economico indispensabile per mettere a frutto e valorizzare i propri talenti.
Così il più grande, che vive anche la fase in sé tragica dell’adolescenza, diviene sempre più uno sbandato, sempre meno rispettoso dei genitori. Anche perché, con il processo di privatizzazione e di smantellamento del sedicente “Welfare State”, con il progressivo venire meno di una alternativa socialista reale, la stessa scuola pubblica non garantisce più la possibilità ai più capaci e meritevoli di poter molecolarmente passare a una classe sociale più elevata. Con la perdita del valore legale del titolo di studio e il progressivo spostamento di risorse dalla scuola pubblica alla privata, solo a chi è in grado di pagarsi quest’ultima si dà la possibilità di poter vendere a un prezzo più elevato la propria forza lavoro, maggiormente specializzata. Ma si tratta appunto di una possibilità sempre meno concreta, con il processo di progressiva automazione della produzione che richiede una quantità sempre maggiore di forza-lavoro non specializzata. Perciò il figlio di un proletario, capace e meritevole, può accedere a studi superiori di qualità in una scuola privata solo indebitandosi per tutta la vita, senza avere nemmeno la garanzia di poter aver un posto di lavoro che gli consenta – pur continuando a vivere da proletario, a causa degli interessi sul debito – di avere un’attività lavorativa che un minimo lo realizzi, dopo anni di studio e di sacrifici da parte dell’intera famiglia.
Per altro le sue attitudini artistiche sono completamente frustrate non solo dal non potersi pagare una scuola in grado di poterle affinare, ma anche per le crescenti difficoltà a poter realizzare liberamente la propria arte. Anche perché nelle società liberaldemocratiche vi è una piena libertà di espressione, ma anche una completa “liberazione” dai mezzi di produzione e di sussistenza necessari a metterla in atto. Così il figlio di una famiglia proletaria per poter esprimere la propria attitudine nella realizzazione di graffiti, deve marinare la scuola – con le relative conseguenze repressive che ciò comporta – e violare la legge per trovare dove realizzare la propria arte e per poter accedere alle bombolette indispensabili alla sua attuazione.
Ciò comporta necessariamente il crescere degli attriti, delle incomprensioni, dell’intolleranza all’interno del nucleo familiare, tanto che alla fine, un padre sempre più sfiduciato nella possibilità di realizzare la propria funzione familiare, si vede costretto a prendere la scorciatoia repressiva. Ma, come è noto, violenza genera violenza.
Il principale limite del film è la deriva naturalistica dal punto di vista formale e presocialista dal punto di vista del contenuto, che porta il regista a raffigurare una famiglia inglese media, priva di coscienza di classe e, quindi, in completa balia del nemico sociale. In tal modo pare non esserci alternativa, si vive soltanto l’alienante esperienza di subire questo eterno ritorno dell’oppressione sociale, completamente schiacciati nella tenebra del presente, che impedisce sostanzialmente una qualsiasi efficace possibilità di reazione. In tal modo, non avendo mai la rappresentazione di come le cose cambierebbero mediante la coscienza di classe, la situazione attuale di sfruttamento finisce per apparire necessaria, naturale, quasi un oscuro destino cui non si può sfuggire.
Secondo e altrettanto tipico limite del film è la sostanziale mancanza di un efficace effetto di straniamento che consenta allo spettatore di non immedesimarsi ciecamente nel tragico destino del protagonista. In tal modo anche la sua modalità di agire finisce con l’apparirci necessaria, quasi naturale, tanto che tende a venir meno nello spettatore persino la sacrosanta indignazione dinanzi a una famiglia proletaria talmente subalterna da non trovare nemmeno la forza e il coraggio per iscriversi a un sindacato.