Soluzioni hegeliane è una raccolta di saggi di Francesco Valentini, dedicati in maniera diretta o indiretta a delucidare il pensiero hegeliano. Le tematiche affrontate nella prima sezione sono: la società civile, il mondo della ricchezza, la moralità, le prime categorie della Logica, l’interpretazione dell’illuminismo, il Sapere assoluto, la genesi della razionalità. Nella seconda, invece, Valentini analizza la filosofia di Eric Weil, una filosofia fortemente influenzata dal pensiero di Hegel come da quello di Kant. Il confronto tra questi due filosofi e l’interpretazione storicistica del pensiero hegeliano possono essere considerate le due caratteristiche fondamentali dell’approccio dell’autore alle differenti problematiche presenti nel suo libro.
Nel primo saggio dedicato alla società civile Valentini muove dalle critiche rivolte da Karl Marx e Rudolf Haym al pensiero “speculativo” hegeliano, al razionale che si pretende reale e che quindi “consacra contenuti empirici, qualificandoli razionali” [1]. Valentini rigetta queste critiche in quanto ritiene che “la compenetrazione di ragione ed empiria sia la conseguenza inevitabile (e plausibile) della polemica contro le filosofie della riflessione e corrisponda a un atteggiamento umano di conciliazione con il mondo, di pacificazione con le cose” (25). Valentini ritiene che nella filosofia hegeliana non vi sia affatto un dominio della logica sul dato empirico, dato che i concetti stessi in essa non sono altro che “condensazioni di fatti, hanno la loro nascita storica e la loro vicenda storica, e poi vengono tesaurizzati come categorie del discorso” (26).
Tratto caratterizzante della società civile è la scissione fra particolare e universale, per cui la sua struttura, da un punto di vista astratto, è quella della logica dell’essenza caratteristica della filosofia della riflessione; dato che qui “l’eticità immediata della famiglia si approfondisce, si ‘perde’ (per ‘ritrovarsi’ nello stato), e si manifesta nel fenomeno della società civile” (30). Da un punto di vista più immediato, storico-fenomenologico, siamo qui nel mondo estraniato della cultura, descritto nel sesto capitolo della Fenomenologia dello spirito, che deriva dalla scissione nei singoli soggetti di diritto dell’unità etica immediata della polis greca. Da una parte vi è la coscienza effettuale, fondata sull’intelletto e facente capo all’homo economicus, dall’altra il mondo della fede, fondato sulla cattiva infinità del dover essere. L’uomo in questa sfera non è libero, in quanto dipende da qualcosa di esteriore come le leggi economiche o la sfera dei bisogni e il suo stesso agire è ancora legato alla casualità dell’arbitrio. Così l’unità etica della famiglia è dispersa e ogni suo membro è abbandonato al suo destino, un destino dove dominano gli elementi del caso e dell’arbitrio. Lo “Stato” della società civile è, infatti, quello contrattualistico fondato sull’interesse e il benessere del singolo individuo. Dunque è mosso da un fine esterno, quello dell’individuo, è fondato sulla necessità, dettata dalle leggi economiche, e ha quindi le caratteristiche meccanicistiche dell’intelletto. Così in esso si genera il dualismo tra il lusso – in cui “la possibilità dell’appagamento infinito dei bisogni distrugge il concetto di individualità particolare attraverso la mala infinità dei bisogni” (37) – e la miseria, ovvero l’antitesi eguale e contraria tra individualità bisognosa e crescita tendenzialmente infinita delle privazioni.
In questa situazione generalizzata di scissione Hegel coglie una possibilità di risoluzione e di ricostituzione della totalità etica nella formazione (Bildung) e nel lavoro. Tuttavia, nella società civile, anche il lavoro è sottoposto al suo destino, generato dalla sua sempre maggiore particolarizzazione, scotomizzazione in mansioni sempre più meccaniche, tanto che in ultimo l’individuo è scalzato dalla macchina, alla cui ottusità era stato progressivamente ridotto. Hegel cerca, dunque, di ritrovare in questa dispersa sfera della differenza l’unità perduta. A un primo livello si serve dell’inconsapevole unità data dal concetto di “mano invisibile” Adam di Smith. Poi passa alla polizia, come regolamento ancora esteriore dato dallo Stato alla società civile. Infine passa all’elemento più concreto, in senso logico, quello delle corporazioni dove, sebbene al livello di una totalità ancora limitata, si compie la mediazione di universale e particolare.
Tuttavia, nonostante il meccanismo autoregolativo della “mano invisibile” e gli interventi regolativi dei poteri pubblici, al singolo non è affatto garantita un’adeguata partecipazione alla ricchezza generale che dipende, in ultima istanza, dalla casualità delle circostanze. Al di là delle circostanze particolari, Hegel si avvede anche che è lo stesso sviluppo della ricchezza nella società civile a produrre gli inconvenienti di una polarizzazione delle ricchezze e di una tale parcellizzazione del lavoro che di fatto esclude una classe intera dalla sfera spirituale. In ciò ha uno dei suoi fondamenti la formazione della plebe moderna, mentre l’altro ha natura “psicologico-morale”, è legato cioè alla consapevolezza di subire un torto. Da ciò deriva, a parere di Valentini, la contraddizione fondamentale della società civile: “essa ha un suo ethos, l’ethos del lavoro e dell’autosufficienza economica mediante il lavoro, e a ciò educa i suoi componenti. Ma la produzione ha le sue esigenze e le sue tecniche, e queste generano una massa di uomini che non possono fruire dei vantaggi della società stessa e sono perciò un elemento di sovversione” (53). La società civile infatti, nonostante le diverse forme di mediazione che produce al suo interno, non è in grado di venire definitivamente a capo di questa problematica.
Hegel cerca di risolvere il problema passando alla sfera superiore, organica dello Stato, dove le contraddizioni della società civile dovrebbero trovare la loro soluzione dialettica. Tuttavia Valentini ritiene che ciò non avvenga, che Hegel nonostante tutti gli sforzi non riesca, o meglio non possa, venire a capo dei problemi lasciati aperti dalla società civile. Questo porta Valentini a non considerare la sezione hegeliana dello Stato il tentativo di mistificare le problematiche della società moderna riportandole a una sfera puramente ideale di uno Stato organico. Per Valentini lo Stato di cui parla Hegel è lo Stato del suo tempo, o meglio il concetto dello Stato del suo tempo, in cui Hegel credeva di cogliere la possibilità di lenire le ferite apertesi nel corpo della società civile. Ciò nonostante Hegel non si sarebbe peritato affatto, secondo questa interpretazione, di mascherare in alcun modo le contraddizioni presenti nella sua epoca.
Nel secondo saggio Valentini illustra la critica hegeliana all’intellettualismo della moralità, “in quanto etica della legge formale, del soggettivismo e del dover essere” (61). Tuttavia questa critica non assume la forma della negazione semplice, in quanto Hegel riconosce allo stesso tempo alla moralità e più in particolare al dover essere un ruolo fondamentale, in quanto analisi più astratta dello spirito, colto nel suo in-sich-gehen.
Il diritto si realizza in quanto tale, acquista realtà e validità solo trapassando dialetticamente nella moralità del giudice, che rompe la catena naturale della vendetta e attraverso la pena ristabilisce, del tutto imparzialmente ossia moralmente, l’universale violato dal crimine. L’universale solo in sé del diritto formale diviene anche per sé solo attraverso l’agire morale della volontà soggettiva che sana la contraddizione tra l’in sé del diritto e il per sé del singolo che lo viola. La volontà morale è, tuttavia, affetta dalla contingenza del singolo, dalla sua particolarità. Siamo nella sfera kantiana della moralità come dover essere, del singolo che afferma la propria autonomia e libertà agendo sulla base dell’universale.
Il problema della morale kantiana è il suo permanere nel dualismo, nell’opposizione, nella finitezza che si assolutizza di fronte all’infinito e, quindi, nel dover essere del superamento, che per realizzarsi si deve negare come tale. Tuttavia Hegel non rigetta questa categoria della finitezza, ma la toglie dialetticamente unicamente dalla sua fissità, dalla sua astrazione inserendola nel processo dialettico. Mentre in Kant resta la difficoltà insuperabile di saldare la volontà particolare al suo fondamento: la legge e di dover, dunque, postulare un mondo intelligibile che dia senso alle scelte morali, sulla base di una esigenza contraddittoria della ragione. Secondo Hegel, l’accidentalità insita nella volontà particolare è però un dato ineliminabile; la ragione, la morale, il bene per realizzarsi devono passare necessariamente attraverso di essa. Ora, però, mentre il dover essere kantiano sembra accentuare questo lato formale della possibilità, Hegel pone l’accento sulla realtà, sulla realizzazione in cui questo lato accidentale ha perso il primato che gli competeva al momento della decisione. Kant invece non solo accentua il momento della decisione soggettiva, ma distingue al suo interno intellettualisticamente tra la dimensione universale dell’intenzione e quella particolare del proposito. Per Hegel al contrario questo elemento particolare, la tendenza al benessere del singolo, è necessariamente connessa con la dimensione universale, morale, dell’azione.
Tuttavia, dato che la singola autocoscienza per soddisfare il proprio bisogno ha bisogno dell’altro, la singola azione per realizzarsi entra in collisione con l’azione dell’altro, che mira ugualmente alla realizzazione del proprio benessere. Quindi il movente particolare dell’azione deve tenere conto della dimensione universale, morale, che implica il benessere dell’altro. A questo proposito si dà una sola significativa eccezione, ed è la lesione della proprietà altrui nel caso di uno stato di estrema necessità, dato che la vita ha la priorità sul diritto astratto, perché questo per potersi dare presuppone quella. Così, dunque, diritto e benessere si implicano a vicenda e sono quindi unificabili in una categoria superiore quella del bene, di cui costituiscono i momenti. Ma anche qui, siamo ancora nel terreno del kantismo, si produce una scissione, dato che sta sempre al singolo di dover realizzare il sommo bene. Benché il soggetto singolo abbia il sommo bene come suo oggetto necessario, sa solo che deve compiere il dovere per il dovere, mentre il contenuto specifico di tal dovere gli resta ignoto. Così il contenuto dell’assoluto dover essere morale rischia di essere abbandonato all’arbitrio, dato che una qualsiasi determinatezza può essere accolta – a causa dell’astrattezza formale del principio di non contraddizione – come legge universale. “Il principio d’identità è un criterio puramente formale, cioè non mi dà la verità, e tuttavia esercita un controllo sulla verità” (84). Il formalismo della coscienza morale ha in sé la possibilità di esaminare le leggi costituite e di rimetterle in discussione. D’altra parte a mettere effettivamente in discussione le leggi non è la troppo astratta coscienza kantiana, ma una coscienza dotata della certezza immediata di essere fondata sul bene come quella di Friedrich Heinrich Jacobi: il Gewissen, l’assoluta certezza dell’autocoscienza di essere legislatrice.
Note:
[1] Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini e associati, Napoli 2001, p. 25. E’ inserito direttamente nel testo, in parentesi tonda, il rinvio alla pagina di questo testo da cui la citazione è desunta.