Euforia di Valeria Golino Italia 2018, voto: 6,5. La cosa più notevole del film è di essere italiano. In altri termini, nel panorama davvero tetro del cinema italiano che abbiamo visto nelle sale quest’anno è certamente il meno peggio. Quindi, nella sua valutazione incidono evidentemente le basse aspettative. Il film, in effetti, si segnala più per la mancanza dei vizi così comuni a tanto cinema italiano contemporaneo, piuttosto che per quello che ha di speciale. In altri termini, il film si distingue nel panorama quanto mai deprimente del cinema italiano più recente in quanto, tolta la pessima scena iniziale, evita il formalismo, il postmoderno, il manierismo, il secentismo programmatico, l’ammirarsi la lingua, il parlarsi addosso, il gusto per il grottesco e il piacere nel rimestare nel torbido. In tal modo realizza un film tutto sommato pulito e discreto, tanto dal punto di vista formale che del contenuto, che riescono a trovare un equilibrio abbastanza avanzato, per essere un film contemporaneo italiano. Per cui fra le opere candidate a miglior film nei David di Donatello 2019, lo collocheremo al secondo posto, dopo il decisamente migliore Sulla mia pelle e, addirittura, gli avremo dato il primo premio fra i candidati alla miglior regia, considerata la caratura pesantemente ideologica e postmoderna delle opere degli altri registi in lizza. Più in generale fra i candidati ai David di Donatello lo collocheremo al terzo posto, dopo i primi due, inavvicinabili ovvero Santiago, Italia e Sulla mia pelle (anche se non siamo ancora riusciti a vedere, per la pessima distribuzione, il documentario La strada dei Samouni di Stefano Savona, che affronta una tematica certamente più sostanziale, quali gli effetti dell’occupazione della Palestina). Il film ha il grande merito, sempre in rapporto all’attuale cinema italiano, di essere sincero, di non voler strafare, mirando, più che mettere in luce l’astratta soggettività della regista, a porre in primo piano la cosa stessa che, per quanto sul piano individualistico-esistenziale, si confronta con una problematica sostanziale, ovvero il rapporto con una malattia mortale e il ridefinirsi su tale base dei rapporti con se stesso e gli altri. Dal punto di vista formale, tolta la caduta di tono iniziale, il film ha degli spunti e degli intenti genuinamente realistici, anche se finisce, il più delle volte, nello scadere nel naturalismo, uno degli altri vizi principali del cinema contemporaneo in particolare italiano. In tal modo il film finisce per essere sufficientemente godibile e lascia qualche cosa su cui riflettere allo spettatore, anche per un certo, implicito effetto di straniamento, da parte dei due personaggi principali, piuttosto ben interpretati da Scamarcio a Mastandrea.
Benvenuti a Marwendi Robert Zemeckis, Usa 2018, voto: 6+. Anche in questo caso giocano a favore del film le basse aspettative, dopo le ultime pessime prove del regista, e il non scadere negli aspetti più ideologici del pensiero dominante, dal postmoderno al formalismo etc. Anche in questo caso il film è un prodotto genuino, senza eccessive pretese, con una forma discreta corrispondente a un contenuto più che sufficiente. L’impostazione dal punto di vista del contenuto vuole essere una rappresentazione realistica di un artista statunitense, la cui produzione, per altro non eccelsa, è legata alle sue tragiche vicende biografiche, la seconda guerra mondiale e l’aver dovuto fare i conti con la barbarie nazionalsocialista e, in seguito, l’aggressione da parte di una gang machista e fascistoide che lo segna profondamente nel corpo e nello spirito. Abbiamo, dunque, una significativa presa di posizione contro la barbarie nazista di ieri e con il fascismo contemporaneo e quotidiano, tema particolarmente significativo dopo la vittoria nelle elezioni di Trump. Inoltre il protagonista rappresenta un personaggio antitetico al tipico protagonista dell’industria culturale statunitense, dai tratti superomistici, unilaterale, tutto di un pezzo, macho etc. Al contrario abbiamo un antieroe pieno di punti di deboli e di notevoli capacità di reazione avendo dovuto affrontare per ben due volte il male radicale nel corso della propria, tragica, esistenza, di cui l’arte rappresenta la catarsi, non solo dal punto di vista formale, ma contenutistico. Il personaggio è così rappresentato con un più o meno consapevole, ma certamente efficace, effetto di straniamento. Il difetto principale è, invece, costituito dal contenuto rappresentato, in sé troppo biografico e, quindi, poco sostanziale, più naturalistico che realistico. In altri termini il regista non riesce del tutto nel fare del suo personaggio particolare, a cui resta troppo legato, un personaggio di valore e respiro universale. Perciò il film, per quanto valido come denuncia, lascia un po’ con l’amaro in bocca, non riuscendo mai davvero a decollare.
Peterloo di Mike Leigh, Gran Bretagna 2018, voto: 6. In questo caso, al contrario dei due film precedenti, Peterloo tradisce le aspettative che aveva suscitato, per la sostanzialità del tema storico scelto e per le recensioni lette, che hanno messo in evidenza in modo al quanto unilaterale unicamente gli aspetti, indubbiamente positivi del film. Essendo questi ultimi stati messi esemplarmente in evidenza nella validissima recensione già pubblicata in questo giornale, ci limiteremo a mettere in evidenza gli aspetti per cui il film resta un opera importante, interessante, ma in fin dei conti come opera d’arte sostanzialmente mancata. La validissima scelta di partire da un evento particolare esemplarmente significativo per cercare di rappresentare un quadro sociale dell’epoca, ovvero del mondo capitalistico nella sua prima fase di sviluppo, è certamente in sé lodevole, ma proprio per questo i risultati rischiano di apparire quanto mai deludenti. In primo luogo per il consueto vizio di tanto cinema borghese contemporaneo di confondere il realismo proprio della vera opera d’arte, con il naturalismo sottoprodotto dell’ideologia anti-marxista e anti-hegeliana positivista, a lungo espressione della classe dominante borghese. In tal modo tutti i personaggi più che rappresentare dei veri e propri tipi sociali, sono delle macchiette, che tendono a rappresentare in modo unilateralmente intellettualistico e biecamente sociologico il rappresentate medio dei diversi tipi sociali del tempo. In tal modo l’artista più che mettere al centro dell’opera la cosa stessa, ossia le questioni sostanziali che potevano emergere, in buona parte ancora attuali, dagli eventi particolari narrati, da una parte si perde in particolari sostanzialmente inutili, che tolgono ritmo e sguardo unitario alle vicende narrate, a detrimento del godimento estetico che giustamente si pretende da una reale opera d’arte. Inoltre finisce per essere posto sempre in primo piano il giudizio, fondamentalmente moralistico e ultrasoggettivistico dell’autore che, pur prendendo giustamente posizione per le forze che si battono per l’emancipazione del genere umano e dei ceti sociali subalterni, in primis dei lavoratori, finisce con il suo scetticismo con l’esprimere un giudizio ingeneroso, in quanto antistorico, su tutti i personaggi messi in scena. Presumibilmente dietro questa nefanda abitudine si cela l’estremismo, malattia infantile del comunismo che, in nome di un astratto dottrinarismo, finisce con il condannare ogni realizzazione storica, necessariamente particolare e, quindi, parziale, dell’ideale, senza mai evidenziare la necessità dei limiti storici dei rappresentanti, in primo luogo, delle classi subalterne e degli intellettuali tradizionali che le egemonizzano. Da una parte, pur cogliendo tutti i limiti degli intellettuali borghesi tradizionali, schieratisi alla testa delle masse popolari, il regista ne mette in luce in modo estremistico i soli aspetti negativi. Allo stesso modo per mettere giustamente in luce il livello modesto di coscienza di classe delle masse popolari del tempo, digiune di socialismo scientifico, le riduce troppo spesso a patetiche macchiette, con un’attitudine paternalistica e gesuitica, che potremmo definire con Gramsci, da nipotino di Padre Bresciani. Infine, anche i personaggi che rappresentano le classi dominanti, di cui si mette a ragione in evidenza tutto lo spirito reazionario e antitetico all’emancipazione del genere umano, finiscono con l’apparire poco credibili e realistiche nel loro unilateralismo bozzettistico, che fa perdere di vigore ed efficacia al pur lodevole spirito di denuncia del regista.
Boy erased - Vite cancellate di Joel Edgerton, USA 2018, voto: 6. In questo caso, al contrario del film precedente, la valutazione positiva del film è condizionata dalle critiche unilateralmente negative lette. Al solito la “critica” acriticamente fedele all’ideologia dominante, funzionale al potere irrazionale della classe dominante, esprime giudizi unilaterali di tipo formalistico, in quanto considera essenziale l’apparenza formale, mentre trascura del tutto il contenuto sostanziale. In tal modo, questa sedicente critica esprime la sua apologia indiretta per un sistema a tal punto ingiusto e irrazionale da essere impossibile da difendere dal punto di vista del contenuto sostanziale, ma può essere difeso e rivendicato solo soffermandosi esclusivamente sulle apparenze e gli aspetti formalistici. Il film è infatti tanto interessante come denuncia di un aspetto decisamente reazionario degli Stati Uniti, potenza imperialista dominante a livello ideologico, quanto noioso e a tratti addirittura imbarazzante dal punto di vista formale. Anche in questo caso il problema di fondo è l’attitudine tipica degli intellettuali tradizionali borghesi di confondere il naturalismo positivistico con il realismo rivoluzionario. Perciò il film rappresenta, dal punto di vista del contenuto sostanziale portato al centro dell’attenzione, una sacrosanta e necessaria denuncia del carattere profondamente reazionario della società statunitense, in particolare per la pesante influenza di credenze religiose ormai decisamente arcaiche e antimoderne, che dimostrano una volta di più come l’emancipazione politica promessa dalle rivoluzioni borghesi non costituisca affatto la reale emancipazione del genere umano. Anche perché la società capitalista è a tal punto arida e priva di cuore, essendo tutta unilateralmente incentrata sulla necessità di massimizzare il profitto di un numero, per altro sempre decrescente, di individui, da favorire la conservazione di concezioni religiose che per quanto reazionarie tentano di fornire un cuore artificiale a un mondo che né è completamente privo. Nel caso specifico si tratta della presenza – proprio nel paese che si pretende campione a livello internazionale dei diritti civili, ovvero dei diritti umani individualistici e formali della tradizione liberal-democratica – nella maggior parte dei suoi Stati degli Usa di istituti religiosi volti a “curare”, come si trattasse di una malattia peccaminosa, ogni forma di sessualità non conforme al modello dominante WASP, filisteo e puritano.