I figli del fiume giallo

Film sopravvalutato che tende a naturalizzare i tragici effetti della reintroduzione in Cina di alcuni aspetti della società capitalista e della capacità di egemonia a livello globale dell’industria culturale occidentale


I figli del fiume giallo Credits: http://www.cineforum.it/recensione/I-figli-del-Fiume-giallo

I figli del fiume giallo di Jia Zhangke , Cina, Francia, Giappone 2018 è un film che lascia allo spettatore al quanto da riflettere sui processi in atto di profonda trasformazione del paese. Da questo punto di vista significativo è il contrasto – per quanto rappresentato in modo piuttosto schematico – fra la protagonista (divenuta la donna del capomafia in una povera città industriale cinese) e l’ormai anziano padre, che cerca ancora di portare avanti la lotta di classe a favore dei lavoratori di una miniera che rischiano di essere delocalizzati in una regione molto distante del loro enorme paese. La protagonista incarna la nuova generazione – post guerra fredda, rappresentata come completamente egemonizzata dal pensiero unico dominante occidentale – agli occhi della quale l’anziano padre, che ancora ragiona in termini di lotta di classe e di salvaguardia dei diritti dei lavoratori, appare completamente estraneo al nuovo orizzonte storico che si è aperto con la dissoluzione del blocco sovietico . La protagonista, al contrario, sembra aver fatto proprio lo spirito del tempo, fondato sul nuovo imperativo categorico dell’arricchimento individuale e sulla concezione denghista – espressione della componente di destra che ha preso il pieno controllo del partito comunista cinese poco dopo la morte di Mao – per cui non è importante se il gatto sia rosso o nero, in quanto l’unica cosa che conta è che acchiappi i topi.

Sulla base di questo utilitarismo individualista, importato dalla società capitalista, non può che apparire – agli occhi di chi, come la protagonista, si pone acriticamente dal punto di vista dell’uomo del corso del mondo – un inconsistente cavaliere della virtù, un residuo del passato chi è rimasto fedele al precedente spirito collettivistico e all’interpretazione della storia come lotta di classe , in cui vale ancora il principio etico per cui bisogna prendervi parte a fianco degli sfruttati e dei subalterni, in funzione dell’ulteriore emancipazione del genere umano. Quello che appare, o quanto meno è presentato dal regista, come lo spirito dei tempi – che sarebbe divenuto pienamente egemone anche nella Repubblica popolare cinese – sembra dare pienamente ragione alla scelta opportunista e individualista della figlia, che non si interroga più sulle grandi questioni etico-politiche, ma ha di mira unicamente il nuovo principio edonistico e consumistico importato, acriticamente, dall’occidente. Ha così del tutto abbandonato le alte aspirazioni universalistiche a cui continua ad aggrapparsi il vecchio padre – anche per dare un senso alla sua, altrimenti misera esistenza, cui resterebbe come unico certo orizzonte lessere per la morte – in nome delle piccole ambizioni individualistiche.

Se, dunque, la strada più breve per poter godere del nuovo consumismo ed essere cooptata nella nuova classe economica sempre più dominante, arrivista e spietata, è quella di divenire la donna del boss, agli occhi della protagonista non resta che percorrerla nel modo più determinato, senza interrogarsi sul valore etico, politico e morale del proprio agire. Al punto da non mettere in discussione la sua pressoché completa sottomissione al proprio uomo, in quanto tale posizioni gli assicura potere, prestigio sociale e sfrenato consumismo.

Così, a differenza dell’uomo, che da vero capo gangster si pone al di sopra del bene e del male, la donna nel suo ruolo di genere subalterno, diviene sino in fondo fedele all’eticità, per quanto primitiva, della tradizione mafiosa cinese. In tal modo, per quanto possa apparire pienamene al passo con i tempi, questo rimanere legata al vecchio e tradizionale codice d’onore sarà letale ai protagonisti, dal momento che, dando libero sfogo alla volontà di potenza del singolo, vi saranno sempre e necessariamente nuove leve, appartenenti alle nuove generazioni, ancora più spietate e naturalmente in grado di porsi ancora più senza remore al di là del bene e del male. Tanto che, nel momento in cui il suo uomo e boss sta per venir vampirizzato dalle nuove generazioni, ancora più assetate di potere e denaro, la protagonista non esita a rompere quel codice d’onore che lega la criminalità organizzata alle forze dell’ordine costituito, per cui ogni reato o delitto resterà impunito se i mafiosi manterranno salve le apparenze e garantiranno apparentemente l’ordine.

Rompendo questo tacito accordo la donna si espone, decidendo ostinatamente di non tradire il proprio partner, alla rappresaglia delle forze dell’ordine costituito che la condannano a cinque duri anni di prigione. Carcere che sembra aver mantenuto le dure forme spartane dei tempi del maoismo, senza conservarne in nessun modo lo spirito che, per quanto spesso in modo distorto, mirava a rieducare il malvivente per poterlo reinserire a pieno titolo nella società.

Al contrario delle condizioni di detenzione così dure e spersonalizzanti, particolarmente odiose in un’epoca dominata dall’individualismo più sfrenato, non possono che essere vissute come ingiuste dal detenuto, in quanto la pena non può che apparire come del tutto sproporzionata al reato. In tal modo la pena detentiva non favorisce nessuna presa di coscienza dei gravi errori di valutazione che hanno portato la donna, vittima più o meno consapevole del pensiero unico, a regredire al codice etico primitivo della tradizionale mafia. Così facendo, non può che prepararsi inconsapevolmente la prossima stazione del suo tragico destino, ostinandosi nel non voler prendere coscienza che il suo sacrificio, per il suo ex amante – totalmente in balia della propria volontà di potenza – non ha alcun valore etico-morale, ma è considerato in modo meramente strumentale.

Del resto è la protagonista a essere rimasta, dopo solo cinque anni di reclusione, non più al passo con i tempi, in quanto la vecchia e tradizionale mafia cinese è ormai stata messa completamente da parte per l’affermarsi di una nuova e ben più moderna malavita organizzata, pienamente inserita nel mondo degli affari, in cui l’unico valore resta il profitto privato. Così il suo ex non solo la ha abbandonata al suo destino, ma ha tentato di riciclarsi nel nuovo mondo del crimine sposando la sorella del nuovo boss emergente, non a caso laureato in economia aziendale.

La nostra, al di là delle proprie capacità di sopravvivenza individuale nella moderna giungla della città, non dispone dei mezzi, né della determinazione necessaria per inserirsi nel nuovo mondo degli affari al confine fra il legale e l’illegale, e finisce con il riassumere la sua vecchia funzione di maitresse nel mondo, sempre più residuale ed emarginato, della vecchia tradizione mafiosa, dei cui valori primitivi è rimasta prigioniera. Così quando il suo ex, colpito da problemi fisici, viene scaricato dal nuovo mondo ancora più spietato del business, la donna cerca di reintegrarlo nel vecchio ruolo. Anche in tal caso la sua prospettiva non può che apparire un nostalgico residuo di un passato ormai definitivamente superato dal corso del mondo, come le era apparso quello del suo anziano genitore. Così non può che concludersi in modo drammatico il suo ultimo tentativo di ricostruire il vecchio quadro di valori in cui far rivivere il suo modello piccolo borghese di vita etica.

Si tratta di una conclusione pseudo-tragica, in quanto manca la minima traccia di una, anche solamente possibile, prospettiva e/o catarsi, anche semplicemente indicata al pubblico. Per questo il film non può che lasciare con un senso di amarezza e di delusione lo spettatore che, alla fine, si domanda il motivo di realizzare un’opera nel momento in cui non si ha nulla di sostanziale da comunicare. Il film si riduce a una naturalistica fotografia, decisamente unilaterale e faziosa, delle conseguenze catastrofiche che non può che avere sulla Repubblica popolare cinese il sostanziale abbandono della stessa transizione al socialismo per la realizzazione di un necessariamente spurio capitalismo di Stato. Quest’ultimo tema, decisamente significativo, del resto è del tutto assente nel film, in cui ci si limita a cogliere in modo del tutto unilaterale alcuni aspetti fenomenici e piuttosto superficiali degli effetti catastrofici che ha sulla Cina l’egemonia esercitata dal pensiero unico dominante.

Per come lo descrive il regista questo mesto e deprimente destino sembra quasi un esito naturale, necessario e scontato della storia contemporanea del suo paese. In tale sconsolato e disfattista quadro manca del tutto il ruolo della Cina come attuale fabbrica mondiale e come paese decisivo per lo sviluppo delle forze produttive a livello internazionale. Manca del tutto il determinante ruolo che il paese svolge al suo interno e, spesso, anche al suo esterno per fare uscire aree disastrate dal sottosviluppo e una parte consistente della popolazione internazionale dalla miseria. Come manca del tutto il ruolo internazionale del suo paese quale indispensabile contrappeso allo strapotere delle potenze imperialiste e il sostegno generalmente garantito, in un modo o nell’altro, dalla Repubblica popolare cinese ai paesi posti sotto attacco dall’imperialismo transnazionale in quanto non accettano di piegarsi alla sua, altrimenti incontrastata, volontà di potenze ed egemonia.

I personaggi del film sono piuttosto schematici e privi di reali contraddizioni e tantomeno di un effettivo sviluppo, anche solo in senso negativo. Inoltre non abbiamo una sola figura alternativa, positiva, che possa indicare una qualche possibilità di aprire una nuova prospettiva dinanzi a questa interpretazione deterministica e a tinte unilateralmente oscure del presente e del futuro del proprio paese.

Tutto ciò ci porta ad alcune considerazioni di carattere più generale su quelli intellettuali di paesi che, in un modo o nell’altro, si oppongono al dominio internazionale dell’imperialismo e che, perciò, sono osannati in occidente, generalmente anche dalla (a)sinistra, come dissidenti, di cui il regista de I figli del fiume giallo Jia Zhangke rappresenta un significativo caso, a suo modo, esemplare. Evidentemente sviluppare un pensiero critico e inconciliabile con il pensiero dominante nel proprio paese, espressione delle classi dominanti, è indizio di libertà di pensiero, di spirito critico e di un intellettuale non asservito al potere. D’altra parte, non appena si allarga la nostra considerazione su un piano più ampio, in una prospettiva internazionale – sempre più necessaria per comprendere, sino in fondo, le problematiche di un pianeta sempre più mondializzato – le conclusioni cui possiamo e dobbiamo giungere mutano sensibilmente e, sotto un certo punto di vista, si rovesciano.

L’essere un intellettuale dissidente nei confronti di un paese che, per una ragione o per l’altra, si contrappone alle politiche, fondamentalmente guerrafondaie, dell’imperialismo per affermare il suo dominio incontrastato a livello mondiale, nella maggior parte dei casi finisce per essere, per quanto inconsapevolmente, facilmente strumentalizzabile dal pensiero unico dominante. Anzi, una critica così ingenerosa e unilaterale di uno dei principali avversari dell’imperialismo – se non viene portata avanti in funzione di rilanciare una prospettiva più efficace, avanzata e universalizzabile antimperialista – finisce per divenire, nei fatti, un’apologia indiretta di quella società capitalista, rappresentata come il migliore dei mondi compossibili da parte del pensiero unico dominante.

15/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: http://www.cineforum.it/recensione/I-figli-del-Fiume-giallo

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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