Dopo una lunga serie di film mediocri, di cui non valeva nemmeno la pena fare una recensione, finalmente abbiamo visto – in una stagione cinematografica particolarmente grigia – un film che non può che lasciare molto da pensare allo spettatore: End of Justice - Nessuno è innocente del regista statunitense Dan Gilroy, con protagonista un eccellente Denzel Washington. Il grande attore afroamericano interpreta un indomito cavaliere della virtù, che si è scontrato con coraggio e perseveranza contro un corso del mondo quanto mai ostile, ovvero il sistema profondamente classista dell’amministrazione della giustizia negli Stati Uniti. Alla base di esso vi è il puritanesimo, vero fondamento ideologico della società statunitense, in cui la giustizia è implacabile nel condannare la massa damnationis costituita dai subalterni, mentre non si sogna nemmeno di considerare come uguali dinanzi alla legge la ristretta cerchia degli eletti, che dimostrano di essere i pochi predestinati attraverso il successo nella sfera economica della società civile.
Tale ideologia è talmente pervicace che finisce con il condizionare in profondità, in modo del tutto inconsapevole, anche chi ha dedicato tutta la vita a contrastarla, nell’ostinata lotta contro i mulini a vento per affermare che anche nella società WASP e borghese la legge deve essere uguale per tutti e che bisogna, quindi, necessariamente ricomprendere lo sfondo economico e sociale che porta, molti subalterni a divenire dei piccoli delinquenti. Si tratta, dicevamo, di una battaglia donchisciottesca dal momento che, per quanto puro e indomito, il nostro cavaliere della virtù non potrà che andare a infrangere i propri elevati ideali contro un corso del mondo che procede ostinatamente nel senso opposto. La struttura sociale capitalista, anche nella sua forma più pura statunitense, è attraversata da un profondo razzismo verso gli afroamericani e gli immigrati ispanici che costringe, molti di questi veri e propri paria, a sopravvivere attraverso le attività illegali cui è sostanzialmente condannato il sotto-proletario privato di qualsiasi coscienza di classe. Quest’ultimo ha di fronte degli apparati repressivi dello Stato, profondamente razzisti e protetti dall’ideologia dominante e dal sistema della (in)giustizia borghese. Grazie a quest’ultima i tutori della legge, atta a preservare i sempre più irrazionali rapporti di produzione e di proprietà, possono utilizzare regolarmente mezzi illegali per estorcere, al sospetto subalterno, una pronta confessione del delitto. Dinanzi alla quale, l’implacabile (in)giustizia puritana – non tenendo conto né della presunta eguaglianza della legge, né del contesto economico e sociale in cui assume senso il movente del delitto – si limita ad applicare, in modo meccanicistico, le leggi draconiane che puniscono sempre con il massimo della pena ogni lesione del diritto di proprietà da parte dei diseredati. La totale insensibilità degli organi giudiziari, in massima parte costituiti da WASP – che porta a condannare per diffamazione l’avvocato che, in nome del principio dell’eguaglianza della legge, pretende che il magistrato si metta nei panni del diseredato reo confesso – dipende dalla totale incapacità di chi fa parte della ristretta schiera degli eletti di riconoscersi in un esponente della massa damnationis, persino nel caso si tratti di un minorenne.
A ciò si aggiunge la tendenza generalizzata degli avvocati – che si riconoscono quasi tutti nella ristretta cerchia degli eletti, dei possidenti – di sfruttare ai fini della propria carriera e del proprio profitto i subalterni che si trovano costretti a pagare la loro ben remunerata capacità di lavoro. Consapevoli di non poter spremere oltre un certo limite i propri assistiti diseredati, li inducono a patteggiare delle pene draconiane per i loro piccoli delitti, presentandogli i rischi quasi certi di pene notevolmente più pesanti nel caso in cui si ostinassero a ottenere giustizia. I rei non possidenti sono considerati a tutti gli effetti, dal sistema giudiziario a stelle e strisce, dei faux frais ovvero delle false, in quanto considerate inutili, spese dell’attività produttiva giudiziaria. Lo scopo della legge, in questa società classista, consiste nel difendere i sacri diritti naturali e, quindi, umani, della proprietà privata e della libertà e sicurezza del suo possessore e, quindi, non può essere intralciata da un’assurda e ideologica pretesa di ottenere giustizia da parte di un non proprietario. A quest’ultimo è al massimo concesso una riduzione della pena draconiana che lo aspetta – in quanto violatore della persona sacra del proprietario e della sua estensione nella proprietà privata – rinunciando a intralciare ulteriormente il “naturale” corso della giustizia.
Il nostro cavaliere della virtù, nel suo ingenuo idealismo da anima bella, confida realmente nell’imparzialità della legge, e proprio per questo non teme di affrontare il corso del mondo. In realtà ha potuto mantenere la propria anima pura e ingenua in quanto l’avvocato dello studio legale nel quale ha lavorato per tutta la vita, gli ha lasciato, nella divisione del lavoro, la parte di esegeta in senso garantista della legge, evitandogli di doversi sporcare le mani, nell’aspro e necessariamente perdente confronto che lo attenderebbe nelle reali aule di giustizia.
Il nostro eroe si troverà così, del tutto impreparato, a dover affrontare i mulini a vento del “naturale” corso delle cose, nel sistema classista e razzista statunitense, dinanzi all’improvviso infarto dell’avvocato proprietario dello studio. In tal modo farà la tragica scoperta del fatto che il suo principale, che aveva creduto un altrettanto integerrimo cavaliere della virtù, in realtà era stato costantemente costretto, nelle necessarie contraddizioni della vita reale – in cui l’ideale ha necessariamente a che fare con l’altro da sé – a scendere a patti con il corso del mondo. Quest’ultimo è plasticamente rappresentato da un giovane allievo del vecchio avvocato colpito dall’infarto, che al contrario del nostro protagonista si è determinato come uomo del corso del mondo. In tal modo ha abbandonato le grandi ambizioni astratte cui è rimasto ancorato il nostro eroe, ma ha così potuto realizzare le sue piccole ambizioni da arrivista di successo, che si può giovare del vento alle spalle del corso del mondo che invece sferza, senza pietà, il cavaliere della virtù che si ostina a procedere contro vento.
Ecco che allora, nonostante la compresa necessità di sporcarsi le mani con il corso del mondo, il vecchio avvocato, rimasto fedele ai suoi alti ideali, ha lasciato ai propri cari un cumulo di debiti, che solo il giovane esponente del corso del mondo può sanare. È quindi quest’ultimo a ereditare lo studio legale e al nostro eroe non resta – se non vuole precipitare anch’egli, nella sua non più tenera età, nel sottoproletariato – a lavorare al servizio dell’uomo del corso del mondo. Il suo ingenuo tentativo di prendere alle spalle – con i suoi astratti, in quanto soggettivi, ideali – il corso del mondo non può che renderlo alla mercé di quest’ultimo. L’anima bella, non volendosi riconoscere nel proprio tragico destino, di cui è per quanto inconsapevolmente responsabile, cerca come ultima via di fuga di sfruttare, per il proprio tornaconto individuale, il corso del mondo. Così, segue inconsapevolmente la tragica sorte dei sottoproletari che ha per una vita assistito, credendo di poter sfruttare a proprio vantaggio la legge della giungla che pare essere l’unica in vigore nel corso del mondo.
In realtà, anche in tal caso, si tratta di una coscienza distorta dal proprio soggettivo idealismo, che crede di poter sfruttare a proprio vantaggio la corruzione di un sistema che, però, funziona solo per gli eletti, per i proprietari e non per i diseredati che pretendono di sfruttare la situazione pretendendo di avere la propria parte saltando sul carro dei vincitori.
Come avrebbe dovuto sapere, se non fosse stato accecato dal proprio idealismo individualista, il nostro cavaliere della virtù, in questi casi la legge segue il suo spietato corso, punendo in modo inflessibile il piccolo delinquente. Vana è, dunque, l’ultima illusione del nostro eroe, di autodenunciarsi dinanzi alla giustizia, per essere così al contempo l’accusato e l’accusatore, sognando in tal modo di autoassolversi, avendo ormai compreso la logica di chi è sceso, a diversi livelli, a patto con il corso del mondo e avendolo così, infine, riconosciuto e perdonato.
Così, pur non potendosi sottrarre al tragico destino, che per quanto inconsapevolmente si è colpevolmente preparato, ha superato il proprio idealismo soggettivo da anima bella, riconciliandosi con coloro che si erano macchiati le mani, scendendo a patti con il corso del mondo, che precedentemente aveva astrattamente condannato, non potendovisi riconoscere. Ora, invece, proprio macchiandosi a sua volta di una grave colpa, tradendo i propri ideali e scendendo a patti, in modo irrazionale e ingenuo, con il corso del mondo, il nostro eroe ha finalmente compreso la necessità di assumere un’attitudine di tolleranza nei confronti delle colpe del proprio prossimo, quale unica strada per poter giungere al perdono delle proprie, inevitabili, colpe.
A tradirlo è però, ancora una volta, quell’individualismo che ha ideologicamente sempre combattuto, ma del quale è stato in realtà sempre prigioniero nella determinazione che si è scelto di cavaliere della virtù. Il perdono e la riconciliazione avviene sempre nel rapporto con gli altri, aprendosi agli altri e uscendo dal proprio Sé necessariamente unilaterale e, perciò, altrettanto inevitabilmente colpevole.
Così il lieto fine, ovvero la conciliazione attraverso la catarsi della tragedia propria di ogni azione, non può che sfuggire al nostro eroe, che si incaponisce in un’impossibile e necessariamente velleitaria via di fuga individuale. La catarsi e la conseguente conciliazione è, invece, raggiunta dai due giovani personaggi con cui era entrato in contrasto, in quanto si erano sporcati le mani, sebbene in misura ben differente con il corso del mondo. Sono questi ultimi ad aver compreso in pieno la propria unilateralità, la propria colpa, e ad aver così compreso la unilateralità opposta del cavaliere della virtù, dei cui alti, per quanto astratti, ideali avevano bisogno per uscire dalla propria asfittica adesione al corso del mondo. Saranno, dunque, proprio loro a proseguire in modo non più donchisciottesco la battaglia astrattamente giusta dell’uomo della virtù. Anche se, chi la condurrà avanti in modo realistico e, quindi, concreto e non destinato alla sconfitta, è la giovane donna, che aveva mantenuto un rapporto maggiormente dialettico fra gli ideali e il corso del mondo, e ritrova così la forza di riprendere la lotta in un ambito, tendenzialmente, vincente in quanto collettivo. Mentre l’uomo del corso del mondo, che in modo alquanto irrealistico abbraccia la battaglia idealistica del proprio precedente oppositore, corre il rischio di ereditarne le donchisciottesche illusioni, proprie, per altro, di ogni finale hollywoodiano.