Gianluca Consoli, filosofo e pedagogo, dopo aver scritto diverse opere di rilievo in ambito filosofico scientifico e pedagogico, ha trovato anche il tempo per scrivere il suo riuscito primo romanzo. Sebbene non possa che essere un romanzo filosofico, il libro è molto emozionante si legge tutto d'un fiato ed è scritto in modo democraticamente pedagogico, ovvero è leggibile un po’ da tutti. Anche perché il libro è privo di alcuni dei principali difetti degli odierni letterati, ovvero non sta lì a rimirarsi la lingua, non si perde in questioni soggettivistiche e non lascia nessuno spazio all’ideologia dominante post-moderna. Il romanzo non ha nulla di ermetico e, per quanto scavi in profondità, non perde mai la lucidità e la chiarezza espositiva.
La cornice del romanzo è forse la parte meno riuscita e anche la più ostica, anche se tocca, comunque, degli aspetti significativi come la questione dei ghost writer, in gergo “schiavi”, ossia intellettuali costretti a vendere la propria capacità di lavoro creativo a un autore famoso e affermato che ne spaccia le opere con il proprio nome altisonante. Inoltre affronta anche la questione particolarmente attuale ed emblematica di come la società ordoliberista europea si sia dimostrata del tutto incapace a far fronte alla pandemia, abbandonando i più deboli e meno abbienti a un tragico destino. Ecco, per esempio, una lucidissima descrizione della drammatica situazione che abbiamo vissuto: “la follia sarebbe non credervi, non prenderlo sul serio, come è stato fatto all’inizio, quando il virus contagiava silenzioso nell’indifferenza delle autorità e si preparava a divenire una pandemia globale. Bisognava avere un piano d’azione preventivo per un’emergenza di questo tipo e non improvvisare. E continuare diabolicamente a prendere provvedimenti inadeguati e in ritardo, sempre un passo indietro alla corsa incontrollabile del contagio” [1] (75).
Ancora più significativa è la descrizione di come, anche nel caso della pandemia, le classi dominanti siano in grado, nel modo più spietato, di farne ricadere gli effetti più deleteri sui ceti subalterni: “nella faccia stanca e tirata di Angelina [cassiera in un supermercato], nascosta dietro l’ingombrante mascherina, sono riuscito a cogliere tutta la verità dell’abisso in cui siamo precipitati. La fatica ancestrale di portare a termine il turno di lavoro, sotto un padrone oppressivo e dispotico. La difficoltà di fronteggiare l’isteria dilagante delle altre persone, angosciate, aggressive, violente. La paura di contagiare i propri figli una volta tornati a casa. E questo in cambio del misero stipendio che entra a fine mese e che basta a malapena per comprare da mangiare” (164-65).
Infine il romanzo ha anche la salutare funzione di consentire al lettore di poter fruire con un certo sguardo critico, consentito dall’effetto di straniamento, gli eventi per altri versi decisamente coinvolgenti, torbidi e melodrammatici che racconta. Peraltro, pur conducendo la narrazione in prima persona, ci presenta sempre dei veri e propri antieroi, ovvero personaggi di cui non si celano tutti i lati oscuri, contraddittori e anche decisamente negativi.
Nel complesso ne viene fuori un del tutto realistico quadro del progressivo disfacimento delle società a capitalismo maturo che vivono una situazione di crisi sistemica generalizzata a tutti i livelli. Crescono spaventosamente le differenze sociali, attraverso una polarizzazione sempre più evidente fra i pochi profittatori che vivono dello sfruttamento della grande maggioranza: “nel paese erano esplose di nuovo feroci proteste di massa contro il carovita. Effettivamente, avevo letto anche io che la situazione economica era precipitata un’altra volta. La grande parte della popolazione ormai viveva intorno alla soglia di povertà, mente i pochi ricchissimi stavano rinserrati in ville fortificate all’interno dei quartieri bene e giravano per le strade con macchine blindate e guardie del corpo” (95).
Spietata e senza mezzi termini è la critica all’ideologia dominante, al potere costituito e a tutti i suoi apparati, da quelli necessari all’egemonia a quelli altrettanto necessari che sorreggono il sistema mediante il monopolio della violenza legalizzata. Per quanto riguarda l’efficace critica dell’ideologia dominante, rinviamo a un brano esemplare: “di tutto quel sedicente progresso oggi non rimane alcuna traccia. Da decenni nella mia patria il boom è solo quello dell’inflazione e della disoccupazione. Il prodotto interno è sempre meno di zero, i debiti dello Stato e delle persone invece hanno sempre più zeri” (92). Particolarmente incisiva è la critica all’industria culturale e al consumismo indotto dalle società a capitalismo avanzato: “iniziavo a rendermi conto sulla mia pelle che il miraggio del benessere materiale e della felicità di massa che i negozi imbanditi e la televisione urlante mettevano in bella mostra, in verità, non erano altro che illusioni fittizie. Inganni a danno della povera gente come noi, finalizzati esclusivamente a omologarci, a incatenarci a bisogni inventati e a consumi compulsivi” (176). Per quanto riguardo il sempre più necessario ricorrere del sistema agli apparati repressivi per difendere i privilegi della classe dominante divenuti sempre più ingiusti e irrazionali, indebolendo la capacità di egemonia sui subalterni, citiamo un passo particolarmente significativo: “tutti questi militari in giro aumentano il mio senso di estraneità. È come se fossimo un paese in guerra. Senza accorgercene, lentamente, siamo precipitati in uno stato d’assedio totalitario. Sopra di me sento distintamente il ronzio ininterrotto degli elicotteri che, dall’alto, controllano ogni angolo di strada e monitorano che non ci sia mai nessun tipo di assembramento. L’altezzosità dei mezzi militari, le divise impeccabili, le armi luccicanti fanno da controcanto alla povertà delle strade dissestate, all’immondizia accatastata intorno ai secchioni, ai palazzi sverniciati” (149).
Il progressivo incancrenirsi e decomporsi della società a capitalismo avanzato e le contraddizioni dirompenti che sempre con maggiore difficoltà comprime al proprio interno sono così rappresentate: “di sottofondo si sente il consueto festival di clacson che suonano istericamente e di guidatori che si insultano come se fossero dei nemici mortali. Per la frustrazione sono tutti arrabbiati e aggressivi. Basta un pretesto puerile che scoppiano liti furibonde. Anche io che non capisco niente di queste cose mi accorgo che la città sta diventando una polveriera” (45).
La crescente crisi di civiltà dell’attuale società, che non appare in grado di superare in un modo di produzione più razionale e giusto le contraddizioni sempre più sistematiche e insuperabili del modo di produzione capitalistico, finiscono per frustrare le speranze e le aspettative in primo luogo delle giovani generazioni: “questo paese non è in crisi da oggi. Sono anni che non offre più nessuna prospettiva di futuro, che ti toglie la voglia di vivere, soprattutto se sei giovane. Davanti a te non c’è niente, nessun obiettivo che puoi raggiungere” (117).
Particolarmente significativa è la denuncia di come l’ideologia dominante riesca a far scomparire completamente le principali contraddizioni che segnano la crisi dell’ordine costituito, scaricando la giusta rabbia degli oppressi esclusivamente in una fratricida guerra fra poveri: “la discussione del giorno riguardava proprio questo, la causa reale del disfacimento del paese. Stavolta, però, erano tutti largamente d’accordo. Non si trattava della mafia, della corruzione, dell’evasione fiscale, di cose serie di questo tipo. No, secondo l’ossessione sempre più in voga di questi tempi, la causa profonda della deriva del paese sono i migranti, lo sparuto numero di disgraziati che, secondo l’opinione comune, ci sta invadendo e conquistando secondo un piano studiato a tavolino. Sono terroristi e criminali. Violentano le nostre donne, portano via i nostri bambini, rubano i nostri beni. Non rispettano le nostre tradizioni e le nostre regole. Occupano i posti in ospedale e portano nuove malattie. Sottraggono il lavoro ai giovani e ricevono le case popolari al posto dei poveri autoctoni, mandano i figli al nido senza pagare la retta e così via, secondo i noti pregiudizi dei tanti idioti avvinti nel sonno profondo della loro ragione pigra” (94).
Significativa e molto realistica è la descrizione, davvero tipica, dello sfruttamento nella società capitalista del lavoro salariato dei proletari. Ecco un efficace spaccato della miseranda condizione della classe operaia all’interno del modo capitalistico di produzione: “mi alzavo molto presto alla mattina, intorno alle cinque. Prendevo la corriera sia all’andata sia al ritorno e rincasavo non prima delle sette di sera, esausto e svuotato. Quando tornavo avevo solo la forza di cenare e di buttarmi sul letto” (89). Allo stesso modo viene molto efficacemente descritto il continuo conatus del capitale a massimizzare lo sfruttamento aumentando il plusvalore assoluto e relativo: “eravamo vincolati a un cronoprogramma serrato, con carichi di lavoro studiati al secondo per ciascuno di noi. Non avevamo respiro, anche il tempo destinato alla mensa era ridotto al minimo. Se avessero potuto, ci avrebbero impedito perfino di andare in bagno. Come in tutte le fabbriche del mondo, non eravamo che mere unità di produzione da sfruttare fino all’esaurimento” (89). Altrettanto azzeccata e toccante è la descrizione di come il capitale scarichi gli effetti più deleteri della propria crisi sugli umiliati e offesi lavoratori salariati proletari: la “proprietà, anche se l’azienda era in attivo, ha deciso comunque di delocalizzare. Così hanno spostato via via tutte le attività produttive in paesi con un costo del lavoro inferiore” (90). Efficace è anche la descrizione dell’apparato repressivo dello Stato, da cui emerge nel modo più crudo il suo essere una dittatura di classe della grande borghesia: “per tentare di resistere alla chiusura abbiamo organizzato diversi scioperi. Alcune volte ce la siamo vista anche molto brutta: la polizia è sempre dalla parte dell’ordine costituito, cioè dei padroni, così caricava le nostre manifestazioni senza scrupoli, manganellandoci come se fossimo dei teppisti” (90).
Al contempo assistiamo alla tragedia di tanti giovani che, pur essendosi formati per poter dare un significativo contributo allo sviluppo sociale, vengono costretti per poter sopravvivere a lavori alienanti in cui è impossibile riconoscersi: “anche se ero partito studiando il cosmo, in tutto il mio contributo all’umanità è stato quello di tenere in ordine dei registri di speculatori, facendo quadrare bene i loro sporchi affari” (91).
Tutti gli anni migliori della propria esistenza sono sacrificati alla mera esigenza “animale” di potersi riprodurre come forza lavoro da sfruttare e quando arriva il tanto mitizzato tempo libero i proletari non possono che divenire coscienti che, dopo essere stati spremuti come limoni, non hanno più la forza per potersi dedicare a un’attività in cui sarebbe possibile, infine, riconoscersi: “quando lo sono andato a trovare a casa, era sconsolato. Aveva aspettato una vita, sprecando i suoi occhi per limitarsi a fissare annoiato il vuoto del negozio, mentre vendeva pesce congelato, e ora che gli servivano davvero per poter lavorare accuratamente il legno, non funzionavano più” (92).
I limiti del romanzo emergono quando si tratta di evidenziare le forze che, in una situazione tanto difficile, non hanno perso il principio speranza in una società più giusta e razionale e lo spirito dell’utopia indispensabile per provare a rovesciare il sistema. In primo luogo, in effetti, pur denunciando a ragione la deriva neocorporativa dei principali sindacati, in particolare in Italia, si finisce quasi per naturalizzare questa deriva, quasi si trattasse di un destino ineluttabile. In tal modo viene meno l’ottimismo della volontà e appare la visione sconsolata di un sistema generalizzato di corruzione che sembra rendere impraticabile ogni possibilità di rovesciamento dello stato di cose esistenti: “chiaramente, la rete di complicità non si limitava ai soli imprenditori ed esponenti del sindacato, ma si allargava a membri della prefettura, della questura, dell’agenzia delle entrate, degli enti assistenziali. Una vera associazione mafiosa, come fu definita con nettezza nelle sentenze. Tutto a danno degli ultimi della terra. Alla fine, i migranti erano costretti a lavorare nelle stesse condizioni che erano state secoli prima degli schiavi nelle piantagioni americane e che ancora oggi sono proprie di tanti altri schiavi sparsi per il mondo” (157).
Dinanzi al completo tradimento delle tradizionali organizzazioni dei subalterni, a partire dai sindacati, alle giovani generazioni prive di coscienza di classe sembra presentarsi come unica possibile opposizione un nichilismo anarchico: “anche se non me ne frega proprio niente della politica, ogni tanto mi viene una gran voglia di partecipare alle proteste di questi giorni, così, giusto per rompere qualcosa. Mi piacerebbe tanto frantumare una vetrata imbellettata di un negozio da ricchi, prendere a sprangate una di quelle smisurate automobili di lusso che costano più di una casa, lanciare sassate alle guardie infami al soldo dei padroni. Distruggere con l’unico scopo di resistere al disfacimento definitivo e finale del paese” (41-42).
La conclusione appare priva di ogni possibile via di uscita. Venuta meno la possibilità di anche immaginare una soluzione progressista alla crisi del capitalismo, nella costruzione di una società socialista, sembra non esservi nessuna alternativa al precipitare nel gorgo della crisi e nella rovina reciproca delle stesse classi in lotta: “una città in pieno disfacimento, come tutta la nazione. Restano vive solo la povertà delle persone, la loro rabbia e la loro tristezza, il furore inutile degli scontri di queste settimane e la brutalità della repressione” (141).
Si dà così per scontato un futuro necessariamente distopico con una spaventosa crisi di civiltà, dinanzi alla quale appare vana ogni forma di resistenza: “oggi esiste solo l’ancestrale sopraffazione dei più forti sui più deboli, l’odio e la frustrazione che rimbalzano e si rinfocolano sui mass media, le proteste estemporanee di questi giorni, mere esplosioni di rabbia senza ideologia e senza prospettiva, che presto verranno sedate nel sangue. Siamo di nuovo al medioevo, quando le rivolte endemiche dei contadini contro i nobili si risolvevano solo in una grande carneficina. Quando i poveri non avevano a disposizione neanche le parole giuste per rappresentare a se stessi la propria schiavitù” (142-43).
Anche i ricordi di un passato in cui erano decisamente più forti e diffusi i movimenti di lotta sociale dal basso, viene riconsiderato alla luce della attuale sconfitta storica, come dei tentativi di riscatto vani e illusori, destinati necessariamente alla sconfitta: “all’epoca, però, credevo a tal punto (…) nella possibilità di cambiare il mondo che, a costo di ritardare ulteriormente gli esami, ebbi la forza di proseguire l’intensa attività politica con il mio gruppo di amici. Eravamo felici insieme. La voglia di esistere, di contare, di lottare si rifletteva nello sguardo di ciascuno di noi: era sufficiente fissarci reciprocamente negli occhi per confortarci dalle sconfitte che ognuno di noi subiva quotidianamente nelle nostre battaglie fallimentari” (144-45).
Il solo caso di resistenza vittoriosa finisce così per apparire qualcosa di soprannaturale, di miracoloso, di non riproducibile: “era la vittoria di tutte le donne e di tutti gli uomini che rifiuteranno ancora e sempre il fascismo eterno, che con la loro purezza d’animo saranno un baluardo inespugnabile per il fascismo come categoria inestirpabile dello spirito. In questo luogo che oggi è chiuso e morto quella volta si è manifestato il sacro, l’origine inattingibile del bene e del male” (154).
Particolarmente deprimente è la tragica fine che si prospetta, negando qualsiasi possibilità di riscatto, anche all’unico personaggio positivo del romanzo, che ha un barlume di coscienza di classe, ma sembra avere, anche in questo caso, ereditato la disillusione delle precedenti generazioni figlie della sconfitta: “Marta mi rivela che freme per partecipare alle manifestazioni di questo periodo, ma non vuole tradire la fiducia dei suoi genitori, terrorizzati dal rischio che anche lei faccia la stessa fine del padre. Parla in maniera appassionata, con una bellezza che risplende non solo dal volto meraviglioso, ma anche dalle parole piene di coraggio e determinazione. Mi spiega che, secondo lei, la prima regola del potere per renderci schiavi, e soggiogare le nostre menti, è persuaderci che non possiamo farcela. Che non abbiamo alcuna possibilità. E, proprio perché questo è vero, dobbiamo agire come dei disperati, come se in ogni nostro comportamento ne andasse della salvezza di tutto il mondo” (49). Arriviamo così alla più completa negazione del principio speranza e dello spirito dell’utopia e al compiuto abdicare all’indispensabile ottimismo della volontà: “sono sicura che tra le disperate rinchiuse qui dentro vi siano anche molte ragazze che hanno partecipato alle proteste e alle sommosse di qualche mese fa. È la giusta punizione che il nostro Stato, nascosto dietro la mano prezzolata dei cattivi e dei fuorilegge, infligge alle donne che non sanno stare al loro posto. Marta, l’unico essere umano con cui ogni tanto riesco a scambiare di nascosto qualche parola mentre siamo in fila per lavarci, mi ha rivelato piangendo che l’hanno rapita durante una manifestazione. Una storia sentita già tante altre volte” (132).
Note:
[1] Essendo, quando abbiamo scritto questa recensione, il romanzo ancora in via di pubblicazione, abbiamo potuto far riferimento per le citazioni unicamente a una versione digitale gentilmente messaci a disposizione dall’autore, che citeremo direttamente nel testo, mettendo fra parentesi tonde il numero della pagina.