Cafarnao – Caos e miracoli terzo film della libanese Nadine Labaki, finanziato da una coproduzione libanese e statunitense, ha ottenuto un numero eccezionale di riconoscimenti nei più diversi festival del cinema del mondo. Premiato come miglior film a Melbourne, Sarajevo e San Sebastian, ha ricevuto il premio della giuria al festival di Cannes, e ha ricevuto la nomination come miglior film straniero dagli Oscar, ai Golden Gobes, dal BAFTA, al Cesar, ai Critics Choice Award. Ciò ha consentito al film di avere una ampia distribuzione a livello internazionale.
Il film è, inoltre, presentato dalla sua regista come un film impegnato, in quanto appunto il cinema non deve, a suo avviso, mirare soltanto a divertire, ma deve far riflettere lo spettatore, in funzione di un’azione che trasformi il tragico stato delle cose esistenti. Tale necessità è fondata su di una naturalistica documentazione delle condizioni di vita dei settori più deboli e fragili della società, i bambini poveri e gli immigrati clandestini, destinati a cercare di sopravvivere senza documenti, cercando disperatamente di farsi sfruttare, nelle bidonville di tutto il mondo.
Da questo punto di vista il film ha il merito, anche senza esplicitarlo, di mostrare il paradosso del modo di produzione capitalistico, colto già dal suo primo teorico A. Smith, per cui la ricchezza delle nazioni si sviluppa in funzione di una parte crescente della popolazione condannata a vivere in una condizione di miseria. La rappresentazione della miseria non è edulcorata e la regista mostra anche, in modo realistico e verosimile la cattiveria che la povertà stessa produce. Persone che sono costrette a lottare quotidianamente per la loro sopravvivenza, finiscono spesso per essere sopraffatte dalla stessa legge della giungla, cui sono costantemente costrette ad adattarsi.
La regista, inoltre, nello spirito del neorealismo cerca di far interpretare i ruoli dei reietti, degli esclusi per antonomasia, anche nelle società liberal-democratiche, da loro stessi. Ecco che il dodicenne protagonista del film è un figlio di profughi siriani, costretto a lavorare dalla più tenera età senza poter frequentare la scuola. Anche l’altro bambino coprotagonista è “interpretato” da una bambina di due anni i cui genitori, immigrati clandestini arrestati dalla polizia sono stari costretti ad abbandonare. Infine, anche l’interprete dell’immigrata madre del bambino è una clandestina che ha subito anch’essa la tragica esperienza del carcere per mancanza di documenti. L’unica “attrice professionista” è la stessa regista, che fa l’avvocato difensore del protagonista ed è l’unica rappresentante dei ceti dominanti, tanto che viene accusata dalla madre del bambino, sul banco degli accusati, di non poter capire veramente la loro tragica condizione, per non averla mai vissuta sulla propria pelle.
Interessante è anche l’aspetto che ha lo Stato nei confronti di questi personaggi che rappresentano e incarnano la plebe moderna; esso nei loro confronti si manifesta esclusivamente nella sua funzione predominante di guardiano dei rapporti di proprietà e, quindi, come strumento di criminalizzazione e repressione preventiva degli working poor. Anche perché, per quanto sfruttati e ultra-precari, i protagonisti sono comunque espressione del proletariato moderno, che rischia costantemente di essere ricacciato nel sottoproletariato.
Valida è la denuncia delle tragiche condizioni di vita dei lavoratori costretti a cercare di sopravvivere come immigrati clandestini, non solo sfruttati senza pietà dai proprietari, ma costantemente minacciati di essere arrestati dalle forze dell’ordine costituito. Tanto che questo mondo è rappresentato dalla regista efficacemente con l’antica città di Cafarnao, dove Gesù ha fatto i suoi primi miracoli, manifestando così la sua essenza, sebbene non sia stato riconosciuto dagli abitanti della città, in cui domina il caos, e che, perciò, sarà maledetta con i suoi cittadini dal Cristo. Nel caso specifico si tratta dei proprietari autoctoni che non riconoscono in nessun modo i miracoli che devono fare ogni giorno i lavoratori immigrati clandestini per riprodursi insieme alla loro famiglia, o i bambini destinati a crescere in una situazione di violenza e miseria, ma che li disprezzano e mirano unicamente a sfruttarne senza pietà le debolezze.
La cinica e spietata brama di profitto mediante lo sfruttamento dei più deboli da parte della borghesia è ben rappresentata nel film dal padrone autoctono, presso il quale deve fare i lavori più umili il bambino figlio di profughi. Quest’ultimo, sfruttando il fatto che la famiglia di immigrati clandestini vive in un appartamento di sua proprietà, ottiene di poter prendere in sposa la figlia undicenne dei profughi. Quest’ultima passa così direttamente nella condizione di schiavitù domestica del proprio marito-padrone, che sfruttandola anche sessualmente ne provoca il rapido decesso. L’altro esponente della piccola borghesia autoctona cerca, invece, di sfruttare il fatto che il bambino, di appena due anni, rischia di rimanere solo – a causa della povertà che non consente alla madre di poter avere, nonostante si ammazzi di lavoro, il permesso di soggiorno, e, quindi, del suo conseguente arresto – per acquistarlo a un prezzo di favore e rivenderlo con profitto nel losco giro della tratta dei minori.
Significativa, infine, è la condizione di carcerazione che finiscono per patire sia il bambino povero, che la immigrata costretta a vivere da clandestina, che dimostra come non siano riconosciuti come esseri umani dalla società in cui sono costretti a cercare di sopravvivere.
Questa tragica situazione ha il pregio di essere rappresentata nel film in modo verosimile, ma ha il difetto di non essere rispecchiata in modo adeguatamente realistico, ma in modo naturalistico. Anzi, da questo punto di vista – come accade purtroppo non di rado fra i registi della classe dominante dei paesi sottosviluppati – vi è la tendenza a realizzare opere alla maniera di registi europei considerati, generalmente a torto, d’avanguardia, spesso per il loro essere soggetti all’ideologia dominante post-moderna. In tal modo, questi intellettuali tradizionali dei paesi in via di sviluppo finiscono per divenire dei meri epigoni di intellettuali tradizionali europei decisamente discutibili. Nel caso specifico la regista libanese si richiama essenzialmente allo stile ultra-naturalistico dei fratelli belgi Dardenne, noti per raccontare storie tragiche, prive di catarsi, di umiliati e offesi, senza un briciolo di coscienza di classe, dal loro punto di vista particolaristico e inconsapevole. Così abbiamo da una parte fastidiose riprese con la telecamera a mano che letteralmente braccano i propri personaggi, che vengono utilizzati come cavie di esperimenti sociali di tipo positivista, secondo una visione del mondo deterministica, dove a priori non esiste una prospettiva di superamento della tragedia.
Inoltre, volendo riprodurre tale tragica condizione dal punto di vista di un umiliato e offeso privo di coscienza di classe è evidente che di tale condizione se ne possano cogliere soltanto gli aspetti immediati e superficiali e tale condizione rischia sempre di essere in tal modo naturalizzata. Per cui questa è sempre stata e sempre sarà la sorte degli umiliati e offesi della plebe moderna. In tal modo il pubblico, generalmente composto da benpensanti del ceto medio riflessivo, esce rincuorato da questo spettacolo. Si sente con la coscienza a posto per essersi dovuti immedesimare nelle drammatiche condizioni di vita dei grandi esclusi delle società “opulente” e, al contempo, esce dalla sala ancora più convinto che così, purtroppo, va il mondo e che la pioggia non potrà che continuare sempre a cadere dall’alto verso il basso.
Ecco che i personaggi non sono dei viventi e reali tipi sociali realisticamente rappresentanti, ma sono mere maschere che rispecchiano l’individuo medio di un determinato gruppo sociale. Questo porta lo spettatore benpensante del ceto medio riflessivo a compiangerne la triste sorte dei protagonisti senza riconoscervisi realmente, in quanto appunto sono mere maschere di una condizione sociale incomparabilmente più bassa e disperata. Tanto che l’umiliato e offeso non viene riconosciuto nemmeno realmente come uomo, ma quasi come se fosse nato e si fosse naturalmente e necessariamente sviluppato quale membro medio della moderna plebe.
Certo tale assoluta incapacità di riconoscimento è propria più dell’intellettuale tradizionale europeo, che di quello dei paesi sottosviluppati che, in qualche modo, sono costretti a fare i conti costantemente anche nella realtà, e non solo nei film, con queste condizioni di estrema miseria. Questo porta giustamente la regista libanese a cercare di risalire alle cause di questa tragica condizione, per poter individuare anche delle possibili e realistiche soluzioni.
Ma qui emerge chiaramente tutto il limite dell’intellettuale tradizionale espressione delle classi dominanti, ovvero il suo non poter risalire alle cause reali di tale situazione di miseria perché questo significherebbe dover mettere in questione i propri privilegi di classe e non poter più fare l’ideologo riconosciuto e premiato in quanto espressione, per quanto apparentemente di sinistra, dell’ideologia dominante. Non avendo avuto il coraggio di mettere in discussione i propri privilegi di classe e il proprio mestiere di intellettuale di regime, apologetico per quanto in forma indiretta del (dis)ordine costituito, l’intellettuale tradizionale non si lascia minimamente condizionare da l’unica concezione del mondo realmente autonoma e antagonista all’ideologia dominante, ossia dal marxismo. Resta, così, per quanto inconsapevolmente, prigioniera dell’ideologia dominante, che emerge nel modo più drastico non appena smette di ricalcare in modo naturalisticamente miope la drammatica condizioni delle classi subalterne.
Ecco che, in effetti, la risposta della regista coincide, per quanto inconsapevolmente, con la più antica, primitiva, apologetica, ideologica e mistificante spiegazione della produzione in scala allargata della plebe moderna da parte del modo capitalistico di produzione, ovvero la spiegazione pretesca formulata dal benestante pastore anglicano T. R. Malthus. Secondo quest’ultimo, come è noto, la colpa della condizione di miseria vissuta dal numero crescente di diseredarti, nelle sempre più opulente società capitalistiche, è colpa dei poveri stessi. In quanto, incapaci di tenere a freno i propri istinti animali, continuano a mettere al mondo figli, che non sono in grado di educare e che, quindi, finiranno per creare una povertà ancora più diffusa. Infatti, mentre le risorse – anche nelle società capitalistiche – tenderebbero ad aumentare secondo un ordine aritmetico (1,2,3,4, etc.), gli individui si riprodurrebbero, a causa dell’incoscienza e incontinenza dei poveri, in un ordine geometrico (1,2, 4, 8, etc.). In tali condizioni la presenza di sacche crescenti di povertà, anche nelle società più opulente, non solo sarebbe normale, necessaria, ma anzi tenderebbero ad aumentare. A meno che, i poveri non fossero costretti a non mettere più al mondo figli. Per Malthus, che aveva ancora fiducia in una soluzione necessariamente sociale di tale drammatica situazione, intendeva far pressione sulle autorità costituite affinché controllassero anche il residuo tempo libero degli working poor, costringendoli, per non cadere preda del peccato della fornicazione, a seguire cerimonie religiose. La regista Nabaki, che ha invece introiettato in pieno la prospettiva individualistica dell’ideologia dominante, mira a dare il buon esempio, in quanto dovrebbero essere a suo avviso gli intellettuali illuminati come lei a istigare e a sostenere le denunce dei figli dei poveri nei confronti dei loro stessi genitori, colpevoli di averli messi al mondo.