Una sveglia suona. È l’alba ed una nuova giornata inizia. Ma non per l’operaio François, che si è sparato un colpo di rivoltella al petto.
No, non siamo all’inizio della storia raccontata. Ma proprio agli ultimi fotogrammi, in cui prorompono le luci di ciò che è invece simbolicamente rappresentativo di ciò che comincia.
Torniamo a Francois.
Ha resistito ad un giorno d’assedio della polizia, barricato nella sua modesta abitazione fatta di una stanza o poco più.
Il giorno prima ha ucciso un uomo, il losco domatore di cani Valentin, che nella storia d’amore tra Francois e la giovane fioraia Françoise, ha scorto un ostacolo al torbido rapporto che ha instaurato con la ragazza.
Questi pochi elementi, uniti al fatto che gli occhi del protagonista hanno l’incantevole azzurro malinconico di Jean Gabin, conducono il sesto senso cinematografico ad inquadrare il capolavoro di Marcel Carné, come uno dei primi noir, intessuto con i fili del realismo politico francese e in cui compaiono molti tratti archetipici che faranno la fortuna del genere negli anni successivi, anche nella cinematografia d’oltreoceano.
Ma è proprio, o meglio, solo così?
François e Valentin hanno modo di parlare spesso nel film. Dai loro dialoghi traspare la distorta moralità del vecchio reprobo. Ma, in modo almeno altrettanto rilevante, compaiono sistematicamente riferimenti alla condizione di lavoratore del suo interlocutore.
Oltre ad un sotterraneo disprezzo, dalle parole di Valentin è possibile ricavare una sorta di tesi, che lui utilizza per François delle immani difficoltà di una sua relazione con la ragazza.
L’asse portante di questa tesi, è che il vantaggio della gioventù di Francois è irrilevante a fronte di ciò che lui non possiede e che è destinato ad attrarre le donne: la cultura, il fascino delle esperienze di viaggio, poco importa se vere o fittizie, se poi ad accompagnarle vi è la capacità affabulatoria di saperle narrare. E tutto ciò è fuori delle possibilità di un operaio, per le ristrettezze economiche, certo, ma ancor di più, per il tempo sottratto all’esistenza dal lavoro.
La sveglia che richiama alla vita, quella che rende consapevoli che le jour se lève, è al contempo la mannaia che recide alla radice qualsiasi progettualità esistenziale autonoma e si ritrova ad essere richiamata nelle schermaglie tra i due, oltre che nelle amare constatazioni di Francois (questi la ricarica più volte durante la storia, ricordandone la funzione, che scandisce i suoi tempi di uomo sfruttato).
Per Valentin, François sbaglia persino nel tirare in ballo l’amore nelle loro accese conversazioni. Nelle relazioni tra uomo e donna non è esso a governare gli eventi, ma la rispondenza o meno della capacità di attrarre l’altrui sesso a certi parametri, strettamente collegati alla connotazione sociale dell’individuo.
La violenta predeterminazione del campo dell’umano ad opera dei rapporti sociali improntati al dominio di una classe sull’altra, è presente nella coscienza dell’operaio. L’amore, per François, è possibilità che sfugge alle strettoie della ipocrita libertà borghese, ma non diviene mai sogno utopistico, fabula svincolata dal costo materiale della scelta.
A sottolineare la sopravvivenza della dimensione poetica all’interno di una lucida coscienza materialista, concorrono la fotografia - un meraviglioso bianconero di Curt Courant - e gli elementi scenici, gli interni, ma ancor più gli oggetti, che per alcuni critici assurgono quasi a coprotagonisti del film.
E a questo equilibrio convergono come due affluenti, la sceneggiatura di Jacques Prévert (su soggetto di Jacques Viot) e la maestria della messinscena di Carné, irrorando di energia vitale la scena madre del film.
Francois si affaccia sul balconcino del suo appartamento e vede la gran folla assiepata in strada. La scena sembra ricordare l’imminenza di un discorso pubblico.
E tale sarà, ma grondante verità, perché non voluto, non preparato, ma rispondente all’istinto sociale dell’oratore.
Dinanzi a loro, dice François, c’è un assassino. Cosa si aspettano tutti? Sono lì come spettatori di un suo gesto drammatico? Se è così, tornassero pure a casa. La storia sarà raccontata nei minimi dettagli dai giornali e loro potranno apprendere la verità comodamente seduti. Dovranno semplicemente immergere lo sguardo tra i fogli di uno dei quotidiani, i dispensatori della verità, tanto che si può dire che qualcosa accade, solo se ne è riportata la notizia tra i caratteri di stampa.
E poi cos’è un assassino? Il mondo è pieno di assassini. Non solo quelli che hanno le mani macchiate del sangue altrui. Ma soprattutto quelli che uccidono gli uomini lentamente, giorno per giorno.
L’intensità della recitazione di Gabin diviene parossistica. Gesticola con violenza, ha la voce che in alcuni momenti si frantuma per la nota alta.
E la reazione del popolo, lavoratori, massaie, avventizi che sbarcano il lunario in qualche modo, li riconduce dalla passività di spettatori curiosi, alla loro comune condizione di compagni di sventura di Francois, a riconoscersi in quelle vittime silenziose che vengono uccise ad ogni quotidiano suonar di sveglia, pronti a disperdere le energie vitali e il tempo dell’esistenza nelle categoriche necessità dell’economia da sfruttamento.
Ed è difficile non vedere che la foga di François è concepita per infrangere l’iniziale distacco di altri spettatori, non solo quelli che ora fanno da barriera umana contro la polizia, per proteggere il loro compagno, ma anche quelli dall’altra parte dello schermo, nell’universo in cui si dispiega la narrazione filmica.
Non sorprende in tal senso che Alba tragica, film del 1939, fosse ritenuto dalla censura militare demoralizzante. Con il secondo conflitto mondiale in procinto di scoppiare, mal poteva adattarsi al clima di unità nazionale tipico di certi momenti, un film in cui viene instillato il dubbio nelle propagandate (ed interessate) certezze da coesione sociale, in una società in cui invece, già fin dal levar del giorno, non ha nulla di eguale tra gli oppressi e gli oppressori.