Disclaimer: Il seguente articolo è stato scritto per una ricerca studentesca, di seguito viene portata una trascrizione il più fedele possibile.
Cosa intendiamo come allevamento intensivo e quali sono i loro effetti?
Con l’espressione “allevamento intensivo” si definisce una pratica che soddisfa la sempre più crescente richiesta di prodotti di origine animale. Questa forma di allevamento del bestiame massimizza la produzione e riduce al minimo sindacabile le spese e gli spazi: essa è resa possibile attraverso la meccanizzazione e l’industrializzazione dei sistemi di allevamento tradizionali.
L’obiettivo degli industriali è quello di abbattere i costi di produzione, per rendere i prodotti derivati dagli animali adatti al consumo di massa e, quindi, di offrire a basso costo i beni più richiesti sul mercato alimentare.
L’allevamento di bestiame a rendimento elevato viene considerato una delle cause principali del riscaldamento globale, per le emissioni e la deforestazione.
Gli allevamenti intensivi in Italia sono tra le maggiori cause dell’inquinamento da particolato atmosferico – definito come l’insieme delle particelle presenti in atmosfera, che siano di derivazione naturale o antropica – il quale rappresenta uno degli inquinanti più frequenti nelle aree urbane, responsabile di contaminare l’aria, più delle emissioni degli autoveicoli.
Nel 2006, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) ha descritto l’allevamento intensivo come “[...] uno dei fattori che maggiormente contribuiscono ai più gravi problemi ambientali attuali”.
Un aspetto da non sottovalutare riguarda il consumo delle risorse naturali e del suolo; il settore dell’allevamento, infatti, rappresenta il maggiore fattore d’uso antropico delle terre.
Viene a crearsi così un paradosso: mentre gli animali sono costretti alla sopravvivenza in piccolissimi spazi, l’industria zootecnica arriva ad occupare il 30% del suolo calpestabile ed è responsabile della deforestazione in tutto il mondo – circa del 90% della distruzione della foresta amazzonica.
Ciò avviene perché risulta necessario coltivare mangime, destinato a sfamare gli animali da macello (si stima che il 90% delle coltivazioni di soia sia destinata solo alla produzione di mangime per gli allevamenti), con 136 milioni di acri di foresta pluviale distrutti fino ad oggi.
Il modello di allevamento “crescita rapida, rendimento elevato” risulta inefficiente e insostenibile, perché sfrutta delle quantità considerevolmente elevate di cereali e di soia, la quale è ricca di proteine per rispondere alle necessità alimentari degli animali; inoltre, le colture di cereali ricevono quantità massicce di pesticidi e di fertilizzanti ricchi d’azoto e fosforo per stimolarne la crescita; ciò è problematico perché una gran parte di questi prodotti può diffondersi nei terreni e nelle falde freatiche.
Gli animali degli allevamenti producono ogni giorno grandi quantità di rifiuti, ricchi anch’essi di azoto e fosforo. Tali prodotti, nell’ipotesi in cui siano distribuiti correttamente, risultano ottimi nutrienti per il terreno. Nei fatti, però, negli allevamenti intensivi la quantità degli animali disposti all’interno dei capannoni chiusi è elevata; ciò implica che i loro rifiuti risultano fortemente concentrati su zone relativamente ristrette. In termini quantitativi, la produzione di feci animali arriva a 50 kg ogni secondo, e questo solo in America.
Nella Pianura Padana – nello specifico tra Milano, Mantova, Brescia e Cremona – si conta:
1) La maggiore concentrazione di inquinamento in Italia.
2) Metà della produzione nazionale di suini e un quarto della produzione di bovini.
Questa è una concentrazione talmente alta che si stima che in queste zone vi sia, all’incirca, un suino ogni due abitanti e circa 180 suini per chilometro quadrato.
La causa principale dell’inquinamento di allevamenti intensivi è costituita dallo spargimento di gas e reflui zootecnici dannosi, emessi sia legalmente sia illegalmente.
Secondo quanto riportato da Greenpeace sulla base dei dati Ispra maggiori sono gli spandimenti di reflui zootecnici, maggiori sono le emissioni di ammoniaca, che a sua volta portano a incrementare il livello di particolato, e quindi di percentuale di smog nell’aria.
Nel corso di un anno un solo suino può produrre feci pari a 15 volte il suo peso, quindi oltre 10 milioni di suini confinati negli allevamenti italiani inquinano al pari di un’ipotetica popolazione aggiuntiva di 25,5 milioni di persone nel nostro paese.
Esistono delle leggi che regolamentano lo smaltimento di questi rifiuti, e che servono a regolare lo spandimento sui terreni agricoli per evitare che questo abbia gravi ripercussioni su suolo e falde acquifere; i reflui zootecnici infatti sono responsabili dell’acidificazione del suolo e dell’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee, minacciando la qualità degli approvvigionamenti idrici umani.
Le leggi esistono, ma non sempre vengono rispettate: così, oltre all’esalazione di gas nocivi dovuti alla presenza degli animali e al loro ciclo di vita, anche i terreni vengono continuamente contaminati da un’eccessiva quantità di reflui che vengono diffusi sui terreni anche al di fuori dei periodi consentiti in modo illegale.
La presenza massiccia di fosforo e azoto nelle acque provoca lo sviluppo di alghe che monopolizzando l’ossigeno presente nell’acqua, uccidono le altre piante e gli animali, se non addirittura lasciare delle vaste «zone morte» nelle quali possono sopravvivere solo poche specie.
L’allevamento del bestiame è responsabile di oltre il 60% delle nostre emissioni globali di ammoniaca e del 65% di quelle di ossido nitroso, ed è previsto che dovrebbe incrementare del 80% entro il 2050.
La zootecnia rimane il principale motivo di consumo delle risorse idriche disponibili, sfruttandone circa il 70% quando 2,2 miliardi di persone al mondo non hanno accesso ad acqua potabile; una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora.
Per la produzione di un semplice hamburger da 100 g sono necessari 2.500 litri d’acqua (la quantità media utilizzata per farsi la doccia in due mesi).
Per la produzione di 0,50 kg di carne ci si aggira intorno ai 10.000 litri d’acqua consumata, tra i 1.800 e i 3.500 per i suoi derivati come uova e formaggi.
Solo in America il consumo idrico domestico, che corrisponde mediamente a 220 litri a persona al giorno, è vicino al 5% del totale delle acque sfruttate, mentre per l’allevamento e l’agricoltura ne viene utilizzato il 55%
Le problematiche dell’eccessiva richiesta nel mercato della carne
L’industria della carne, oggi, opera tra due forze in tensione. Da una parte ci sono le istituzioni come le Nazioni Unite, le quali chiedono una riduzione rapida e drastica del consumo globale di carne per limitare i suoi effetti negativi sull’ambiente, mentre dall’altra la domanda di proteine animali continua a crescere con l’aumento della popolazione mondiale, arrivando ad uccidere 75 miliardi di animali l’anno.
Riuscire a nutrire il mondo in modo etico e sostenibile è una delle sfide più pressanti della nostra epoca e la carne gioca un ruolo centrale nella strategia per combattere la crisi climatica.
Negli ultimi 50 anni la popolazione globale è raddoppiata, ma il consumo di carne è triplicato, con una produzione che ha toccato le 340 milioni tonnellate nel 2018.
L’agricoltura animale è arrivata a produrre il 14,5% delle emissioni di gas serra, diventando la seconda fonte di emissioni antropocentriche dopo il settore energetico, che emette il 76% di tutti i gas serra nell’atmosfera.
La commissione Eat-Lancet suggerisce di ridurre il nostro consumo di manzo del 90% rispetto agli standard attuali, che equivarrebbe a consumare circa una bistecca al mese o mezzo etto di carne alla settimana.
Per aiutare il nostro pianeta viene suggerito di mangiare più fagioli e legumi, noci e semi.
Diete a base di verdure e legumi hanno un’impronta sul clima significativamente minore. Entro il 2050 i cambiamenti dietetici e la maggiore propensione alle diete vegetali potrebbero liberare diversi milioni di chilometri quadrati di terra e ridurre le emissioni globali di CO2 fino a 8 miliardi di tonnellate all’anno, che equivalgono circa al 21% delle emissioni odierne.
Le diete a base di carne sono responsabili di quasi il doppio delle emissioni di gas serra al giorno rispetto a quelle vegetariane e circa due volte e mezzo rispetto alle vegane.
Ad esempio, se un amante della carne è responsabile, ogni anno, di circa 3,3 tonnellate di CO2, un vegetariano è responsabile solo di 1,7 tonnellate, ed un vegano di 1,5. Rinunciare alla carne rossa farebbe, da sola, una grande differenza, riducendo la propria impronta di carbonio a 1,9 tonnellate di CO2.
Inoltre, bisogna tenere in considerazione che se i trend di crescita della popolazione mondiale dovessero rimanere invariati allora entro il 2050 la popolazione potrebbe toccare i 10 miliardi di individui. Considerando che già oggi circa un miliardo di persone soffre di denutrizione e che l’umanità è già in debito con la Terra con le risorse naturali, occorre trovare qualcos’altro da mettere nel piatto.
Diventa allora necessario sperimentare generi alimentari alternativi, sostenibili, nutrienti e che possano bastare per un gran numero di persone.
Una valida soluzione è il passaggio a una dieta vegana: se sono infatti necessari 930 kg di cereali per nutrire, indirettamente, per un anno una persona la cui alimentazione si basa su alimenti di origine animale, ne basterebbero 180 kg per un’alimentazione su base vegetale [1].
Il nostro attuale regime alimentare è insostenibile, che sia il passaggio a una dieta completamente vegetariana o vegana, un cambiamento è necessario, per noi e per il nostro pianeta.
L’alimentazione vegetale è una scelta sostenibile
Questo studio di Alexi Ernstoff, Qingshi Tu, Mireille Faist, Andrea Del Duce, Sarah Mandlebaum, Jon Dettling (2019) confronta l’impatto ambientale dei pasti senza carne e dei pasti contenenti carne negli Stati Uniti in base ai dati di consumo, al fine di identificare opportunità commerciali per ridurre l’impatto ambientale dei pasti.
Il consumo medio dei tipi di pasto è stato analizzato utilizzando la valutazione del ciclo di vita.
Secondo quanto viene fuori da questa analisi, i pasti senza carne hanno una riduzione di oltre il 40% degli impatti ambientali rispetto a qualsiasi indicatore (impronta di carbonio, uso dell’acqua, consumo di risorse, impatto dell’inquinamento sulla salute e qualità dell’ecosistema); i maggiori vantaggi sono stati osservati per occasioni come la cena, a causa del maggior consumo di carne in tale pasto rispetto ad altri.
In generale, i prodotti animali sono stati i principali fattori di impatto tra gli indicatori.
Concentrarsi sui sostituti della carne a basso impatto per, ad esempio, le cene, e i sostituti del latte e dello yogurt per le colazioni, sono esempi di piccoli ma significativi cambiamenti che si possono apportare ai nostri pasti per contrastare l’impatto ambientale.
Note:
[1] Millstone and Lang, The Atlas of Food: Who Eats What, Where and Why, 2003.
Fonti:
Cowspiracy – il segreto della sostenibilità ambientale (documentario con regia di Kip Andersen)
Seaspiracy – esiste la pesca sostenibile? (documentario con regia di Ali Tabrizi)
In poche parole – L’avvenire della carne (documentario)
https://animalequality.it/news/2021/11/12/nuovo-reportage-come-
allevamento-intensivo-inquina-la-pianura-padana/
https://www.ciwf.it/impatti/inquinamento/
https://ilgiornaledellambiente.it/allevamento-intensivo-inquina-ambiente/
https://www.mercatocircolare.it/il-cibo-del-futuro-quali-alternative-per-il-benessere-del-pianeta/
https://www.sivempveneto.it/la-sfida-della-sostenibilita-allevamenti-intensivi-tra-richieste-di-riduzione-per-limitare-gli-effetti-negativi-sullambiente-e-una-domanda-di-proteine-animali-in-continua-crescita-con-lau/
https://thesis.unipd.it/bitstream/20.500.12608/10747/1/Golia_Rossana.pdf
https://ecologiapoliticatorino.noblogs.org/
Inoltre ho intervistato un attivista di un movimento ambientalista torinese che ha deciso
di rimanere anonimo.