La politica estera americana è giunta ad una svolta? Sta per chiarirsi la direzione verso cui muove l’Amministrazione Trump dopo il suo primo anno di insediamento? Questi interrogativi tengono banco nel dibattito politico di questi giorni, e non soltanto negli USA.
Una serie di avvenimenti di particolare rilevanza si sono susseguiti ad un ritmo piuttosto intenso nelle ultime settimane ed hanno dato la sensazione di un’accelerazione degli eventi con segnali sempre più evidenti di una svolta impressa dall’attuale amministrazione, soprattutto nella strategia di politica estera, con intrecci e ripercussioni anche in questioni di politica interna.
Ripercorriamo quindi brevemente la successione dei più importanti recenti avvenimenti e proviamo poi ad individuare delle possibili chiavi di lettura.
In ordine cronologico, il primo di questa serie di eventi è stato l’annuncio, da parte del Presidente Trump, a fine febbraio scorso, tramite il suo strumento di comunicazione preferita, cioè il “cinguettio” mediatico di un tweet, di voler incontrare il leader Nordcoreano Kim Jong Un, per aprire un negoziato diretto, con l’obiettivo dichiarato di ridimensionare i programmi nucleari della Corea del Nord. Un’apertura avvenuta in coincidenza con le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud, dove si è verificato un evento simbolico di portata storica: un team misto di atleti nord e sudcoreani ha gareggiato sotto un’unica bandiera simboleggiante l’unità del popolo coreano. Un evento da molti considerato un grande successo diplomatico dell’attuale presidente della Corea del Sud, Moon Jae In. [1]
Successivamente, sul fronte della politica commerciale, è arrivato l’annuncio, da parte dello stesso Trump, di imposizione di dazi aggiuntivi sulle importazioni negli USA di acciaio ed alluminio, annuncio seguito, l’8 marzo, da un proclama presidenziale, firmato di fronte a lavoratori e manager del settore metallurgico, uno dei più colpiti dai processi di deindustrializzazione che hanno interessato l’economia americana nell’ultimo ventennio e sui quali Trump ha imperniato parte della sua campagna elettorale. La motivazione ufficiale del provvedimento è stata la sicurezza nazionale: una legge del 1962, residuo della guerra fredda, consente infatti al Presidente di adottare provvedimenti restrittivi all’importazione di merci in settori ritenuti di rilevanza strategica per la sicurezza nazionale. Dopo le prime incertezze interpretative, il provvedimento ha poi assunto dei contorni più definiti: sono stati da subito esentati Messico e Canada, paesi partner nel NAFTA, a condizione che accettino di proseguire i negoziati di revisione del trattato secondo i dettami del governo americano. Quindi, dopo una prima reazione di Bruxelles, piuttosto tiepidina per la verità, è stata deliberata l’esclusione dei paesi membri dell’Unione Europea, unitamente a Corea del Sud e Australia, in quanto paesi “alleati” e quindi “affidabili” in termini di sicurezza nazionale. Se si dà un’occhiata alle statistiche dell’import USA di acciaio e alluminio, al netto di tutte queste esclusioni ed eccezioni, tra i principali paesi esportatori il principale bersaglio dei dazi appare chiaramente essere rappresentato dalla Cina, e subito a seguire, dalla Russia. [2]
Mentre apriva un fronte di possibile guerra commerciale con la Cina, Trump consumava la definitiva rottura con il suo Segretario di Stato, quel Rex Tillerson, ex CEO della Exxon, liquidato con il solito tweet presidenziale di rientro da una missione in Africa, e sostituito con il Direttore della CIA, Mike Pompeo, considerato da tutti uno dei principali “falchi” dell’Amministrazione Trump. Secondo le cronache presidenziali, che negli USA ormai vanno per la maggiore e sono più popolari delle serie televisive, pare che Pompeo fosse già da tempo uno degli uomini più ascoltati e considerati dal Presidente che, non a caso, ha voluto rimarcare in diverse occasioni la loro sintonia di vedute in politica estera. Pompeo, ex ufficiale dell’esercito poi entrato in politica nelle fila della destra conservatrice del “tea party”, è una personalità diversa dal manager Tillerson, mai entrato in empatia con Trump. Se Tillerson poteva essere considerato il principale mediatore con la Russia di Putin, in virtù dei suoi trascorsi aziendali, quando perseguiva gli interessi petroliferi ed energetici della Exxon, molto consistenti in Russia, Pompeo è invece un convinto sostenitore della Russia come principale nemico, in stile guerra fredda. Da aggiungere che la posizione di Pompeo come Direttore della CIA è stata assunta da Gina Haspel, un alto funzionario che, dopo l’11 settembre 2001, era stata coinvolta in uno scandalo per il ricorso sistematico a metodi di tortura durante lo svolgimento del suo incarico in Thailandia. [3]
Intorno alla metà marzo si apre intanto la cosiddetta “crisi delle spie”, a seguito della vicenda del presunto avvelenamento dell’ex spia russa, residente in Inghilterra, Sergei Skripal. Partita inizialmente come scontro diplomatico tra Gran Bretagna e Russia, la questione diventa motivo di un’escalation di tensioni diplomatiche tra Russia da un lato e Gran Bretagna e Stati Uniti dall’altro, seguiti da altri alleati occidentali della NATO. Da evidenziare che la Russia ha sempre e costantemente negato ogni responsabilità sulla vicenda. A dispetto della posizione russa, seguono una serie di provvedimenti reciproci di espulsione di personale diplomatico, con la tensione che rimane tuttora al massimo livello e potrebbe sfociare in un confronto più serio e preoccupante. [4]
Nel frattempo, il 23 marzo, giunge l’annuncio della Casa Bianca sull’avvicendamento di un’altra figura chiave nello staff presidenziale: il Generale Mc Master, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, riceve anche lui il benservito e dal 9 aprile lascia il posto a John Robert Bolton, uomo politico della destra repubblicana, un altro super-falco, recentemente distintosi, tra l’altro, per aver invocato la necessità di una guerra nucleare di Israele nei confronti dell’Iran. [5]
Il 30 marzo è invece il momento dell’annuncio di Trump, in conferenza stampa, di un presunto imminente ritiro militare degli USA dalla Siria, con il commento: “lasciamo che siano gli altri (gli alleati, ndr) ad occuparsene”. Tre giorni dopo, il 2 aprile, il presidente americano sospende l’autorizzazione di un budget di circa 200 milioni di dollari che finanzierebbe costi militari e di ricostruzione nel territorio siriano rioccupato dalla coalizione di forze sostenute dagli USA, e precedentemente sotto il controllo dell’ISIS. [6]
E siamo a domenica 1 aprile, quando vengono avviate le esercitazioni militari annuali congiunte USA-Corea del Sud. Un fatto apparentemente di routine ma che quest’anno, per la prima volta dopo diversi anni, non prevedono l’invio da parte USA di armamenti pesanti e di vettori nucleari. Alle esercitazioni sul campo prendono parte circa 12.000 soldati USA e 200.000 truppe sudcoreane, mentre è prevista anche un’esercitazione di guerra simulata al computer. Molti osservatori allineati con l’amministrazione considerano tali esercitazioni essenziali per la strategia USA mirata ad un confronto con la Corea del Nord su posizioni di forza. [7]
Il 2 aprile giunge dalla Cina la notizia di nuove tariffe doganali che colpiscono un centinaio di prodotti esportati dagli USA in Cina, per un valore di circa 2 miliardi di dollari, varate in risposta ai dazi USA su acciaio e alluminio. Le tariffe cinesi colpiscono soprattutto esportazioni agricole, in particolare carni suine, frutta e altre derrate agricole. Risparmiate al momento le importazioni di soia e semi di soia, di cui la Cina è il principale consumatore mondiale. [8]
Lo stesso giorno gli USA, in tutta risposta, annunciano l’adozione di ulteriori misure di ritorsione. Sembrerebbe quindi aprirsi una vera e propria guerra commerciale. Tuttavia le nuove misure minacciate dagli USA nei confronti della Cina, che andrebbero a colpire settori di tecnologia considerati strategici, dovranno prima essere precedute da una consultazione con le rappresentanze di categoria dei settori produttivi coinvolti, entro un termine di 30 giorni, ed ulteriori 180 giorni per prendere una decisione. Un lasso di tempo che, a giudizio di molti, lascerebbe un margine per l’avvio di eventuali negoziati. D’altronde, dei tentativi di apertura di un tavolo negoziale con la Cina erano stati già fatti nei giorni precedenti dal Segretario al Tesoro USA, Steve Mnuchin, e dal Rappresentante del Commercio, figura che rientra nello staff del Presidente. Nel frattempo, diversi grandi gruppi industriali non aspettano tempo per esprimere il loro dissenso contro una possibile guerra commerciale contro la Cina. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i produttori agricoli, considerati peraltro le prime vittime dei dazi cinesi. [9]
Fin qui i fatti, almeno quelli più rilevanti. Da questa carrellata ci sembra possibile individuare almeno quattro fronti sui quali si potrà capire, nelle prossime settimane o mesi, se siamo effettivamente in presenza di un’autentica svolta nella strategia di politica estera americana.
Il primo fronte è quello del confronto con la Russia. La fobia anti-russa è ormai da diversi anni una costante della politica americana e ne sta condizionando pesantemente sia la politica estera e, recentemente, anche la politica interna: ricordiamo infatti l’inchiesta sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane del 2016, che va avanti e continua a tener banco nel dibattito politico interno. [10]
Su questo fronte si sta determinando, più o meno involontariamente, la convergenza di due schieramenti, o blocchi di potere, differenti. Da una parte l’apparato militar-industriale, rappresentato dal Pentagono e dalle agenzie per la sicurezza nazionale (NSC e CIA), che sono intrecciati con settori importanti del grande capitale industriale: quella filiera industriale degli armamenti e dell’aerospazio che continua ad avere un peso importante nell’economia americana. Questi settori hanno sempre avuto storicamente bisogno di un nemico chiaro e facile da individuare. La Russia rappresenta oggi il miglior candidato, sia perché, di fatto, è la potenza militare di maggior peso a livello internazionale, dopo gli USA (seppur di entità molto più modesta, in un rapporto di 10 a 1), sia perché con la Russia risulta più facile, a livello di propaganda di massa, evocare i temi ed i toni della guerra fredda, da sempre un ottimo motivo per scatenare nella popolazione il timore di un futuro conflitto mondiale e fargli quindi accettare politiche di riarmo, per un budget di 800 miliardi di dollari all’anno, in aumento, nonché misure di sicurezza e di controllo. [11]
L’altra componente dello schieramento anti-russo è rappresentata invece dal Partito Democratico, o almeno dal suo gruppo dirigente dominante, saldato a quello dei media “progressisti” (si fa per dire!) che agisce soprattutto per interessi politici più contingenti e, sin dal momento della sconfitta elettorale di Hillary Clinton, ha abbracciato la storia delle presunte, e mai dimostrate fin qui, interferenze russe sulla campagna elettorale in favore di Trump come principale cavallo di battaglia per tentare la scorciatoia dell’impeachment, ossia dell’incriminazione di Trump secondo quanto previsto dalla Costituzione, per toglierlo di mezzo prima che completi il suo mandato. [12]
La direzione che Trump intende intraprendere verso la Russia rimane però ancora tutta da verificare. Se è vero, come abbiamo visto, che le recenti nomine di Pompeo e Bolton, sembrano significare una chiara virata verso le posizioni del Pentagono e dell’estrema destra repubblicana, e la tensione sulla vicenda delle spie sembra rafforzare questa tendenza, è altrettanto vero che il 20 marzo Trump avrebbe invitato Putin ad un incontro alla Casa Bianca in data da definirsi. Notizia confermata il 2 aprile dal consigliere di politica estera del Cremlino, Yuri Ushakov, che ha confermato anche la disponibilità da parte di Putin. [13]
Il secondo fronte da considerare è quello del confronto nucleare. Anche in questo caso entra in gioco il complesso militar-industriale, ed il Pentagono che, nel suo rapporto annuale pubblicato all’inizio del 2018, ha fortemente insistito sulla necessità per gli USA di rinnovare il proprio arsenale nucleare, soprattutto di tipo tattico, in risposta alle minacce evidenziate da parte di Russia e Cina, ma anche di Iran e Corea del Nord, sempre considerati nemici internazionali di primo livello nelle analisi dei referenti per la difesa e la sicurezza che, con Pompeo e Bolton entrati nella cerchia più ristretta della Casa Bianca, troveranno adesso orecchi molto più attenti e sensibili di quanto già non ve ne fossero prima. [14]
All’orizzonte si profilano due scadenze importanti. Il prossimo 27 aprile è previsto un incontro tra il leader nordcoreano, Kim Jong Un, e la presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, proprio al termine delle esercitazioni militari congiunte con gli USA; l’incontro rappresenterà un test per le effettive possibilità di avvio dei negoziati tra gli USA e la Corea del Nord e dell’incontro diretto tra Trump e Kim, proposto per la fine di maggio. Sempre a maggio scade inoltre l’ultimatum che gli USA hanno lanciato all’Iran, pretendendo l’abbandono di ogni programma di armamento nucleare; molti osservatori ritengono che sarà il momento propizio per determinare la rottura definitiva con la strategia di Obama e ripristinare quindi le sanzioni contro Teheran.
Il confronto con l’Iran ci porta al terzo fronte caldo della politica estera americana, intrecciato naturalmente con i primi due, cioè il Medio Oriente, e specialmente la Siria. L’Iran rappresenta infatti, nella visione strategica della destra e del Pentagono, il principale ostacolo per il pieno dominio in Medio Oriente dell’asse USA-Arabia Saudita, sostenuto da Israele. Da questo punto di vista c’è da capire se il recente annuncio di Trump di voler smobilitare l’impegno militare in Siria non rappresenti semplicemente un tentativo di responsabilizzare maggiormente gli alleati nella regione, e in particolare l’Arabia Saudita. Vi sono naturalmente, sempre in seno allo schieramento dei falchi, voci contrarie a questa decisione, evocanti il rischio di un effetto Obama 2.0, in analogia a quanto accadde quando l’amministrazione Obama decise il ritiro delle truppe dall’Iraq, fattore che, secondo questi analisti, determinò la perdita del controllo di una parte rilevante di quel paese. Sarà presto facile comprendere dove si sta dirigendo l’amministrazione Trump a trazione Pentagono-CIA, con il sostegno del settore più tradizionale, imperialista e guerrafondaio del grande capitale.
Il quarto fronte, non per ordine di importanza ma in un orizzonte più lungo, è quello del confronto di potenza con la Cina, un confronto che per il momento sembra svolgersi prevalentemente sul terreno economico-commerciale, ma ha le sue implicanze rispetto, ad esempio, alle relazioni con la Corea del Nord, autentico banco di prova geopolitico per le relazioni USA-Cina. Qui non ci sono scadenze particolari in vista, se non quelle delle annunciate adozioni di ulteriori dazi. Ma in questo caso Trump dovrà fare i conti soprattutto con il fronte interno: si potrebbe assemblare un blocco del dissenso abbastanza significativo e non è un caso che l’andamento della Borsa di Wall Street stia risentendo pesantemente di questa situazione. E Trump non può permettersi di perdere il supporto discreto che fin qui la finanza newyorkese, al di là di qualche distinguo individuale, gli ha offerto.
In attesa che questi eventi permettano di delineare con maggior chiarezza la direzione che l’imperialismo statunitense sta prendendo sotto l’amministrazione Trump, un paio di conclusioni si possono intanto trarre rispetto a quanto già visto e analizzato: la prima è che questo presidente e la sua cerchia di potere più ristretta, al di là delle apparenze e dei toni dipinti dai media, lungi dall’essere un manipolo di maldestri e fanatici improvvisatori, sembrano piuttosto consapevoli di poter condurre un gioco alquanto spregiudicato e opportunista nell’ambito di uno scenario dagli equilibri instabili, cercando di compattare a proprio sostegno alcuni blocchi di potere esistenti e influenti; la seconda conclusione è il leitmotivche caratterizza lo stile del presidente nella conduzione personale della politica estera (come quella interna): un’alternanza, di impronta molto paternalista, di “bastone e carota”, tanto nei confronti delle potenze rivali quanto nei confronti di alleati piccoli e grandi. Premessa e conseguenza di questo stile è un ritorno pieno al bilateralismo come approccio diplomatico univoco. Con il rischio di gravi errori di prospettiva che potrebbero mettere ulteriormente in serio pericolo un equilibrio globale già abbastanza instabile.
Note
[1] The Wall Street Journal, 2 aprile 2018, “Allied Drills Test North Korea Diplomacy”.
[2] People’s World, 9 marzo 2018, https://www.peoplesworld.org/article/trumps-steel-tariffs-for-the-workers-or-the-steel-bosses.
[3] Workers World, 13 marzo 2018, https://www.workers.org/2018/03/13/trump-promotes-extreme-right/.
[4] The Wall Street Journal, 31 marzo 2018, “Few simbolic steps left in Russia’s, West’s Diplomatic War”.
[5] The Washington Post, 23 marzo 2018, “John Bolton will be the new national security adviser”.
[6] The Wall Street Journal, 31 marzo 2018, “Trump freezes Syria funds”.
[7] The Wall Street Journal, 2 aprile 2018, cit.
[8] The Jacobin, Marzo 2018, https://www.jacobinmag.com/2018/03/donald-trump-tariffs-protectionism-trade.
[9] The Wall Street Journal, 3 aprile 2018, “U.S. Farmers brace for tariffs” e New York Times, 3 aprile 2018, “Industry Giants Register Dissent on Trump’s Trade Actions Against China”.
[10] Le Monde Diplomatique, Dicembre 2017, “Ingérence russe, de l’obsession à la paranoïa”.
[11] Id.
[12] Id.
[13] New York Times, 3 aprile 2018, “Russia sends hasty RSVP to Trump invitation”.
[14] The Jacobin, Marzo 2018. https://www.jacobinmag.com/2018/03/donald-trump-cabinet-bolton-mcmaster-war. Vedi anche Le Monde Diplomatique, Marzo 2018, “Washington relance l’escalade nuclèaire”.