La questione della dissoluzione dell’URSS è stata rapidamente accantonata persino da quelli che, nonostante tutto, continuano a definirsi comunisti, anche perché non è certo facile fare i conti con le sconfitte e con gli aspetti più dolorosi della propria storia.
Proprio per questo due luoghi comuni su questo tema continuano a circolare sconfessati e ripetuti assai spesso: tale processo è stato sostanzialmente pacifico e i suoi promotori sono da identificarsi in coloro che detenevano alte cariche nello Stato sovietico e nel PCUS. Per esempio, scrive Giovanna Cigliano per il Mulino: “La leadership di Gorbaciov, insignito nell’ottobre 1990 del premio Nobel della pace, ha contribuito inoltre in modo significativo alla modalità prevalentemente pacifica della dissoluzione, diversa da quanto accaduto su scala ridotta nella ex Jugoslavia…”. Nonostante quest’affermazione l’autrice è costretta poi a sottolineare che circa 25 milioni di russi furono esclusi dalla Federazione russa, si accesero di conflitti etnici locali e regionali e un grande quantitativo di armi, convenzionali e nucleari, dislocate sul territorio rimasero prive di controllo.
La seconda tesi, insieme alla prima, viene ampiamente smentita da un interessantissimo e documentatissimo libro che per sorte mi è capitato tra le mani e di cui è autore il professor José Antonio Egído, di origine basca, dottorato in Sociologia conseguito presso la Università della Provenza (Francia). Il titolo del libro, in corso di pubblicazione, è ¿Porqué cayó la URSS y nació la Rusia actual? E il suo scopo è proprio quello di rispondere a questa domanda, ispirandosi a un’opera precedente di due studiosi marxisti statunitensi, Roger Keeran e Thomas Kenny, Socialism Betrayed: Behind the Collapse of the Soviet Union (2010). Ho scelto di trattare solo questi due temi del densissimo libro di Egído per il fatto che essi sono stati abbandonati nel dimenticatoio, ma mi riservo in futuro di intervenire ancora sulla questione generale della scomparsa dell’Unione Sovietica, perché è anche da questo tragico evento che è scaturito l’attuale drammatico conflitto nel cuore della cosiddetta pacifica Europa.
È alquanto noto che, quando nel 1990 Boris Eltsin fu eletto presidente del Presidium della Repubblica federativa sovietica di Russia, per poi uscire subito dopo dal PCUS, una squadra di agenti della Cia, arruolata dal FMI, si dette da fare per applicare una terapia di shock, come era già stato fatto in Polonia e Brasile. L’obiettivo del FMI e della Banca mondiale era quello di trasformare l’Unione Sovietica in un paese esclusivamente venditore di materie prime, senza processarle in loco e quindi a basso costo e senza poter mantenere in vita il suo sistema industriale. Egído ricorda che nella fase socialista l’Unione Sovietica esportava trattori, aerei, elicotteri, prodotti di alta tecnologia e il petrolio rappresentava solo il 16% delle sue esportazioni [1]. Dal 1992 al 1993 il 40% delle industrie ormai russe viene privatizzato, 122.000 imprese sono vendute in cambio di buoni in rubli rapidamente svalorizzati e acquisiti dalla nuova mafia – formatosi in quel contesto degradato –, i prezzi dei prodotti vengono liberalizzati. Aleksandr Solgenitsin, il noto oppositore, ha commentato questi eventi affermando che la proprietà statale era caduta nelle mani di imbroglioni e svergognati. Migliaia di industrie furono chiuse, lo Stato non finanziò più quelle ancora in funzione, il Gosplan (Comitato per la pianificazione) fu cancellato, una grande quantità di capitali, illegalmente costituiti, si rifugiò all’estero, i mafiosi rivendevano fuori del paese a 150 dollari il petrolio acquistato a 17 dollari al barile, depositando in banche straniere i loro profitti. Nel frattempo importanti politici ed economisti lodavano questi processi, osservando che si trattava di realizzare l’accumulazione originaria prevista da Marx per poi avviare l’attesa restaurazione capitalistica, mentre di fatto si stava trasformando la ex Unione Sovietica, dissolta nel 1991, in un paese del Terzo Mondo.
Secondo il professor Egído le diverse forze politiche che appoggiavano questa vera e propria controrivoluzione erano composte da chi già operava nell’economia illegale, dagli impresari privati che apparvero a partire dal 1988 con le riforme gorbacioviane [1], dai tecnici, dagli scienziati, dagli insegnanti, dagli artisti, dagli intellettuali attratti da Eltsin, da settori dei lavoratori, da membri del partito avvicinatisi alla socialdemocrazia e da discendenti delle antiche classi dominanti (p. 76).
Mentre si dispiegavano questi eventi sul piano economico, sul piano politico occorre ricordare la decisione, presa dalla terza sessione del Soviet supremo nel 1989, di cancellare l’articolo sesto della Costituzione del 1977 che attribuiva al PCUS un ruolo centrale nella vita politica del paese (p. 25), messo poi fuorilegge da Boris Eltzin. Successivamente, nonostante questa decisione destabilizzante, nella primavera del 1991, il deprecato Michail Gorbaciov [2], presidente del governo federale, e i suoi alleati tentarono di mantenere in piedi la federazione degli Stati, stipulando tra questi un nuovo trattato. Contro questa possibilità l’8 dicembre del 1991, Eltzin, presidente della Russia, si incontrò con altri capi delle 15 repubbliche sovietiche, il presidente ucraino Leonid M. Kravchuk, il leader bielorusso Stanislav Shushkevich, i quali firmarono insieme il Trattato di Belovezh, con il quale l’Unione Sovietica veniva disgregata e sostituita dalla Comunità degli Stati indipendenti. Questa decisione non era gradita a gran parte della popolazione, che nel marzo del 1991 – dove era stato possibile – aveva votato a favore del mantenimento dell’Unione Sovietica, all’esercito, ai servizi segreti e a gran parte dei membri del partito comunista. Nel mese di agosto queste forze, capeggiate dal primo ministro sovietico Valentin Pavlov, dal ministro dell’Interno Boris Pugo, dal vicepresidente Gennadij Janaev e dal capo del KGB Vladimir Krjuckov, tentarono senza successo di opporsi a questa deriva ormai prevista.
Eltsin approfittò di questa circostanza per assicurarsi il potere con l’appoggio dell’estrema destra russa, lituana, lettone, estone, armena, georgiana etc. e soprattutto in sintonia con i presidenti degli USA, Regno Unito, Germania, Francia e con la NATO, che gli diedero ampio sostegno. (p. 35).
Gli oppositori di Gorbaciov, che dovette prendere atto della vittoria di Eltsin e ritirarsi, non erano rappresentati soltanto da quest’ultimo e dai suoi seguaci. Anche l’ala sinistra del partito comunista aveva cercato di organizzarsi per fronteggiare le politiche antipopolari su descritte e per contrastare il dissolvimento della seconda potenza del mondo, ricca di materie prime e di storia. Il professor Egído descrive in maniera approfondita i vari raggruppamenti che si formarono nel seno dello stesso PCUS, quali il Fronte unito dei lavoratori, capeggiato da M. Popov e da altri, Iniziativa comunista costituitasi come il primo nel 1989, che accusava Gorbaciov di essere un traditore dell’Unione Sovietica e del socialismo, il Partito Comunista della RSS della Russia, che comprendeva tre tendenze: quella marxista-leninista, quella riformista e quella nazional patriottica di Gennady Zyuganov, attuale segretario del Partito Comunista Russo e che nel 1996 sfidò Eltzin nelle elezioni presidenziali, risultando sconfitto a causa di probabili frodi. Da menzionare tra gli altri numerosi gruppi anche il Movimento Unità fondato da Nina Andreyeva sempre nel 1989 (pp. 28-29).
Di fronte a questi drammatici processi nelle varie regioni del paese si verificarono mobilitazioni, scioperi e proteste dei lavoratori, delle organizzazioni contadine, dei membri del partito, tra le quali ricordo la concentrazione di 150.000 persone il 7 novembre 1991 nella Piazza Rossa di Mosca per protestare contro la proibizione del PCUS, la cui esistenza evidentemente un regime “democratico” non può tollerare. Il 17 marzo del 1993 ci fu un altro corteo che aveva come finalità la restaurazione dell’URSS e del socialismo. Eventi simili si verificarono anche in altre regioni dell’ex URSS, tra questi menziono la mobilitazione in Tostk negli Urali contro le manovre congiunte dell’esercito russo e statunitense, previste per l’estate del 1993. I lavoratori protestarono con uno sciopero anche contro i bombardamenti effettuati dalla NATO sulla Serbia e sul Montenegro, in precedenza nel 1995 un grande sciopero aveva coinvolto milioni di persone (pp. 57-58).
Il risultato della terapia di shock, che Eltsin aveva dichiarato voler realizzare in 500 giorni, fu sconvolgente. Solo alcuni dati, tra i quali lo spaventoso impoverimento della popolazione, non più sostenuta dai servizi sociali, dovuto anche al terribile aumento di tutti i prezzi (dal cibo, ai trasporti, affitti etc.), il licenziamento di milioni di lavoratori, la crisi demografica, che secondo calcoli ipotetici avrebbe prodotto tra il 1992 e il 2021 la scomparsa di 20 milioni di persone, il tristissimo fenomeno dei bambini abbandonati, la rapida diminuzione della speranza di vita (57-59 anni), la riapparizione delle malattie legate alla povertà (tubercolosi, poliomielite, colera). A questi aspetti dobbiamo aggiungere la presenza di migliaia di mendicanti nelle strade delle grandi città, la diffusione dell’alcolismo e della malattie mentali, dovuta all’instabilità sociale, la malnutrizione, l’aumento vertiginoso della tassa dei suicidi, la perdita dei diritti da parte delle donne, la distruzione dell’apparato scolastico, universitario e scientifico che aveva fatto dell’URSS uno dei paesi più colti al mondo etc. (pp. 58-64).
A ciò dobbiamo associare circa un milione di morti provocati dalle guerre civili scatenate dalle decisioni dei restauratori del capitalismo in Russia, Moldavia, Azerbaijan, Abazia, Ossezia del Sud, Georgia, Tajikistan e in altre regioni secondo quanto afferma il dirigente del PCFR Viktor Ilyukhin. Più di 10 milioni di cittadini sovietici dovettero abbandonare le loro terre e trovare rifugio altrove. Gli oppositori alla restaurazione capitalistica giunsero alla formazione di milizie popolari, tentando di contrastare con le armi in mano lo smembramento dell’URSS in Lettonia, Lituania, Russia, Cecenia etc. (pp. 78-79).
Mi chiedo se questi fatti possano essere considerati l’esito di una trasformazione pacifica, che ha provocato processi di destabilizzazione di cui il conflitto in Ucraina è solo un’espressione.
Inoltre, come ci ricorda Egído, molti tra le file del partito e dell’esercito furono gli oppositori che pagarono con il carcere, la persecuzione e l’esilio la denuncia del carattere reazionario e impopolare del misure prese prima da Gorbaciov e poi da Eltsin, come per esempio Oleg Shenin, consigliere internacionalista in Afghanistan. Antico membro del Politburó, nel gennaio 1991, durante il Comitato centrale del PCUS, questi chiese la presa di provvedimenti giudiziari contro chi guidava i gruppi nazionalisti e antisovietici. Fu incarcerato e lo fu anche Alfred Petrovich Rubiks, che era stato sindaco di Riga e segretario del Partito Comunista lettone, e che si rifiutò sempre di collaborare con la nuova dirigenza (p. 18).
Numerosi sono i casi di importanti personaggi della dirigenza sovietica citati da Egído che furono uccisi, tra questi menziono il maresciallo e antico capo dello Stato maggiore delle Forze Armate Serguei Fedorovich Agromejeev probabilmente assassinato il 24 agosto del 1991 e ritrovato semiseduto e impiccato.
Questa conflittualità sempre più visibile sfociò in scontri nelle strade e nelle piazze e si manifestó pienamente nell’assalto alla Casa Bianca, sede del Soviet supremo, l’allora parlamento, cui parteciparono, bombardandola il 4 ottobre 1993, lo squadrone speciale Agosto 1991, formato da 40.000 uomini, e il gruppo sionista Betar, entrambi voluti da Eltzin per combattere le sommosse popolari (p. 67). Questa fu la sanguinosa conclusione dello scontro, durato mesi, tra il presidente e il Soviet supremo, che si combatterono reciprocamente, promulgando leggi e decreti di segno contrario e dichiarandosi mutuamente illegittimi. Quando apparve evidente l’impossibilità di una qualche mediazione, il 21 settembre 1993, Eltsin dichiarò la dissoluzione del Soviet supremo, organizzò un referendum per l’approvazione di una nuova costituzione fondata sul presidenzialismo e nuove elezioni legislative per dar vita al nuovo parlamento, la Duma di tradizione zarista, da celebrarsi a dicembre di quell’anno. Tuttavia, secondo la costituzione del 1978 ancora in vigore, Eltsin non godeva dei poteri che si era attribuito, eppure i media occidentali non gridarono al colpo di Stato. Pertanto, seicento parlamentari oppositori si riunirono nella Casa Bianca, votarono la destituzione di Eltsin ed elessero al suo posto Alexandr Rutskoi, un liberale moderato. Come risposta, il 24 settembre, Eltsin fece tagliare elettricità, acqua e telefoni all’edificio del parlamento e pochi giorni dopo nelle strade di Mosca cominciarono le proteste a difesa di questa istituzione democratica, i cui deputati si erano preparati a resistere. Con l’appoggio di Bill Clinton e della stampa occidentale Elztin autorizzò l’attacco al parlamento con mezzi pesanti e artiglieria. Il conflitto durò dieci giorni e fu presentato come lo scontro tra i riformatori “democratici” e i conservatori, che volevano mantenere in vita un regime antidemocratico, illiberale e in crisi e costò circa 2.000 morti.
Dalle documentate informazioni e dai dati riportati da Egído si ricava che anche la seconda tesi sulla dissoluzione dell’Unione Sovietica è infondata, in quanto coloro che beneficiarono di tale disastroso collasso, non appartenevano direttamente alla cerchia degli alti dirigenti sovietici. Del resto, il PCUS aveva subito negli ultimi anni infiltrazioni ideologiche di vario genere, che certamente contribuirono al processo dissolutivo.
Nel 1994 si erano costituiti otto nuovi gruppi che concentravano nelle loro mani il capitale russo, ottenuto per espoliazione dei cittadini sovietici, e nessuno di essi aveva relazioni dirette con l’apparato statale e con i membri del PCUS (pp. 77-78). Tra questi ricordo l’oligarca, ossia il miliardario Michail Chodorkovsky, proprietario della banca Menatep, considerato uno degli impresari russi più ricchi, condannato per frode e poi esiliato nel 2013; Boris Abramovich Berezovskij, membro dell’Accademia russa delle Scienze che insieme a Badri Patarkatshishivili fondò il gruppo automobilistico LogoVaz, sfruttando la tecnologia dell’impresa sovietica AvtoVaz. Berezovskij creò la sua fortuna negli anni ’90, quando si appropriò del primo canale televisivo del paese, e grazie al fatto che aveva lavorato nella più grande fabbrica di automobili sovietica, divenne il principale concessionario, vendendo le auto all’estero a un prezzo maggiorato rispetto a quello che avevano in Russia. In virtù dei suoi guadagni in questo settore cominciò ad allargarsi ai lucrosi settori bancari e del petrolio. Ha sostenuto il partito di Putin Unità da cui poi si è politicamente allontanato per trasferirsi in Gran Bretagna.
Non possiamo evitare di dedicare qualche parola all’ormai famoso gruppo Gazprom, presentato come uno dei responsabili dei nostri disastri economici, che è stato addirittura in parte nelle mani dell’ENI. Alle sue origini sta la figura di Roman Arkadievič Abramovič, che grazie alle “riforme” negli anni ’80 dette vita a medie imprese. Nel 1995, insieme al su citato Berezovskij assai vicino a Eltsin, si impadronì di Sibneft, ora filiale di Gazprom, ottenendo grazie ad appoggi criminali e mafiosi, le azioni del più grande gruppo statale russo, che si occupava di tutte le fasi della produzione del petrolio. Attraverso spregiudicate operazioni speculative ne fece lievitare il valore. Gazprom nasce, invece, in seguito alla privatizzazione del ministero del gas sovietico, ora controllata dallo Stato al 40%, che vende ancora oggi il suo gas naturale attraverso gasdotti sia all’Asia centrale che all’Europa, benché a seguito della guerra stia riorientando i suoi sbocchi. Come sempre accade, questi grandi gruppi estendono i loro interessi ad altri settori produttivi, commerciali finanziari.
Concludendo, possiamo osservare con tristezza lo sconvolgente quadro che Egído ha dipinto per noi, toccando con mano la vera natura del capitalismo, che mostra l’autentico se stesso in queste drammatiche fasi di crisi, nelle quali purtroppo anche noi ci troviamo senza per ora intravedere nemmeno un’ipotesi di via di uscita.
Note:
[1] Consiglio vivamente di leggere l’articolo dello storico Luciano Beolchi (L’ultima chance. La cibernetica in soccorso dell’URSS, “Alternative per il socialismo”, n. 61, 2021) sullo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico sovietico, che già negli anni ’50 aveva permesso di costruire potenti calcolatori e di prefigurare una rete di connessione tra questi per razionalizzare l’utilizzazione delle informazioni a livello economico e militare. Alcuni scienziati sovietici arrivarono a parlare di cybercomunismo.
[2] Come ricorda Egído, nel 1990 Gorbaciov, allora presidente dell’Unione Sovietica, non accettò che il cancellerie Kohl pagasse al paese l’indennizzo per la ritirata delle truppe dalla Germania e gli cedette le proprietà sovietiche nella Germania orientale per un valore di 28 miliardi di dollari. In cambio, il governo tedesco gli attribuì il titolo di “tedesco dell’anno” (p. 25).
[3] Centrale fu la legge sulle aziende di Stato, entrata in vigore il primo gennaio 1988 con la quale il centro della gestione e della pianificazione della produzione veniva trasferito direttamente alle aziende, i cui direttori dovevano preoccuparsi del loro funzionamento, trovando i fondi necessari, gli sbocchi mercantili etc.