A margine di un accordo italo-tedesco sulla formazione professionale, il ministro Giannini e quello tedesco Wanka hanno parlato di abbattere “la rigidità novecentesca” per affermare un modello che ponga le basi sulla estrema flessibilità dei lavoratori. È una risposta alle esigenze delle imprese, che sgretola anche la famiglia come organizzazione sociale che non risponde più all’attuale grado di sviluppo della produzione. La risposta deve essere una lotta alla precarietà, quale battaglia politica concreta ma che va al cuore del problema: il modo di produzione capitalistico.
di Carmine Tomeo
Che ne direste di essere parte di un modello di stampo statunitense, nel quale “La rigidità novecentesca va abbattuta” ed in cui “le persone devono potersi muovere e spostarsi a seconda di ogni evenienza umana e lavorativa”? Si sta dicendo di un modello che per rispondere, al solito, alle sfide della competitività, sia basato su una flessibilità così alta che “dovrà rientrare nella normalità” una donna che, appena avuto un bambino, deve lasciare casa per andare a lavorare lontano. Che ne direste, insomma, di un modello nel quale la famiglia così come l’abbiamo conosciuta finora non sia più intesa come forma di stabilità e di sicurezza per l'individuo, se la flessibilità invadesse anche i nuclei familiari per rispondere alle esigenze (economiche, d’impresa, ça va sans dire) di flessibilità lavorativa e sociale? Non vi piace? E allora converrà organizzarsi per opporsi a quel modello, perché è quanto ha in mente il ministro Giannini.
Il virgolettato, infatti, è ripreso da un’intervista che ha fatto molto discutere in questi giorni, rilasciata dal ministro Giannini a margine di un accordo tra Italia e Germania sulla formazione professionale. L’intervista era stata inizialmente pubblicata dall’Huffington Post, che poi l’ha rimossa. In realtà in quell’articolo pare fossero stati non correttamente riportati gli appunti del giornalista. Ma la lettura della trascrizione corretta degli appunti del freelance svizzero, Luca Steinmann data dal Corriere del Ticino, non cambia molto la sostanza.
Ora, sia chiaro, qua non si vuole sostenere la necessità etica o morale di tutelare la famiglia cosiddetta tradizionale. Il falso moralismo su cui quella difesa si basa, la lasciamo volentieri ai vari Adinolfi, Alfano e alle sentinelle in piedi. Noi comunisti sappiamo, con Marx, che “la società, quale che sia la sua forma”, è “il prodotto dell'azione reciproca degli uomini” e che gli uomini non sono affatto “liberi di scegliersi questa o quella forma sociale”, compresa la forma che assume la famiglia. Sappiamo bene, quindi, che presupposto un determinato grado “di sviluppo della produzione, del commercio e del consumo” avremo “una forma corrispondente di ordinamento sociale, una organizzazione corrispondente della famiglia, dei ceti o delle classi” [1].
Il ministro Giannini, facendo eco all’idea di flessibilità del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei ha delineato soprattutto il modello di flessibilità verso il quale si vuole spingere lo sviluppo della produzione, del commercio e del consumo, necessari al rafforzamento dell’accumulazione capitalistica e dei rapporti di produzione capitalistici favorevoli al padronato. Engels ci ricorda che “la produzione e la riproduzione della vita immediata” è “di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza […]; dall'altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali […] sono condizionate da entrambe le specie della produzione; dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e della famiglia dall'altra” [2].
L’attuale stadio dello sviluppo del lavoro è quello del Jobs act e della Buona Scuola di Renzi, tanto che l’accordo sulla formazione professionale tra Italia e Germania si pone in continuità con quei provvedimenti, “per colmare - afferma Giannini - la discrepanza che divide l'Italia con altri Paesi competitivi, come la Germania”. Nelle parole di Giannini, il modello di istruzione che ha in mente il governo è quello che formi “persone altamente qualificate come il mercato richiede” ed al mercato, alle aziende, al padronato, non serve il sapere ma il “saper fare”; non persone che sanno, ma “muscoli, nervi, cervello, ecc. umani” [3] da dispiegare nel processo produttivo.
La stessa riproduzione dei lavoratori è un “momento della produzione e della riproduzione del capitale, tanto che avvenga dentro o fuori dell’officina, fabbrica, ecc., dentro o fuori del processo lavorativo” [4]. E qui torna in causa la famiglia, come organizzazione sociale nell’attuale sviluppo capitalistico. La famiglia, nella forma attuale, non corrisponde più alle necessità di sviluppo della produzione, del commercio e del consumo; non ha più senso nella sua funzione di riproduzione di “muscoli, nervi, ossa, cervello” da impiegare nel processo produttivo.
Nell’incontro per l’accordo sulla formazione, il ministro tedesco Wanka ha fatto notare che in Germania c’è un calo della natalità, con dati di calo demografico simili a quelli italiani. Wanka non nasconde certo il fatto che la precarietà significa assenza di stabilità, quindi precarietà di legami familiari, che condiziona inevitabilmente la natalità, anche laddove dovessero esserci miglioramenti nella situazione economica. Ma il calo demografico, osserva il ministro tedesco, può essere controbilanciato dall’arrivo di immigrati. Si parla, cioè, di nuovi “muscoli, nervi, ossa, cervello” da inserire nel processo di produzione e consumo, che per condizioni oggettive sono più facilmente inseribili nel contesto di alta precarietà lavorativa e di vita che si va sviluppando. Inquadrata la situazione in questi termini, è fin troppo chiaro qual è il senso delle politiche di accoglienza: economico e non umanitario; per rifornire i Paesi di forza-lavoro quale merce a buon mercato e non per aiutare persone in fuga da guerre e miserie. Da ciò, ovviamente, non bisogna cadere nel tranello populista e xenofobo di destra, nascosto nella retorica del “aiutiamoli a casa loro” che non fa altro che giocare a favore del padronato che vuole i lavoratori divisi. Occorre invece spostare la questione immigrazione dalle basi etiche nella quale viene spesso relegata ad una analisi di classe.
In conclusione, non ha alcun senso soffermarsi sulla difesa della famiglia, di un ceto, di una particolare condizione sociale: non si farebbe altro che lavorare, pure se inconsapevolmente, alla frammentazione di classe, favorendo così gli interessi (di classe) padronali. Pure nelle importanti e necessarie lotte di categoria o per conquiste parziali, bisogna portare una lettura di classe. Significa, però, attrezzarsi di un progetto politico di classe da declinare anche nelle lotte specifiche. È in questo modo che alla lotta alla precarietà si può dare una dimensione più ampia, in grado di riconnettere giovani e meno giovani, studenti e lavoratori, uomini e donne, nativi e immigrati, e con una valenza internazionalista. In questo modo la lotta alla precarietà può diventare una lotta alla portata delle necessità attuali, una battaglia politica concreta, ma capace di andare al cuore del problema: il modo di produzione capitalistico attuale ed il suo sviluppo.
Note:
[1] Marx in una lettera a Pavel Vasilevic Annenkov, il 28 dicembre 1846
[2] Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato
[3] Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione II – La trasformazione del denaro in capitale
[4] Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione VII – Il processo di accumulazione del capitale