La “modernizzazione” di Marchionne è l’aumento dei ritmi, la riduzione dei diritti e la cancellazione del ruolo del sindacato. Ora si aggiunge un nuovo tassello: la flessibilizzazione del salario che dipenderà dagli obiettivi d’impresa. Confindustria e i sindacati “firmatutto” plaudono, la Cgil timida per non rompere con Cisl e Uil. Restano Fiom e sindacati di base a resistere.
di Carmine Tomeo
I toni eccessivamente entusiastici che hanno accompagnato l’annuncio di Marchionne di legare gli aumenti salariali agli obiettivi di impresa, lasciano intendere poco di buono per le sorti dei lavoratori.
Nelle intenzioni di FCA, secondo le dichiarazioni del suo amministratore delegato, «se gli obiettivi finali del piano saranno quelli attesi tutti i nostri lavoratori in Italia avranno vantaggi economici di assoluto rilievo, che deriveranno direttamente dal loro lavoro e dal loro impegno». Certo, dopo il panino con la porchetta come premio per gli operai della Sevel di Atessa per il 5 milionesimo furgone prodotto in quello stabilimento, leggere che un operaio specializzato potrà avere un aumento medio di 1400 euro in caso di raggiungimento degli obiettivi, può suscitare speranze di una nuova fase all’interno del gruppo FCA. Ma noi sappiamo che a differenza degli annunci, “i fatti hanno la testa dura”.
Parlare di nuova fase e cose simili è quanto meno fuori luogo. Basterebbe infatti notare che di salari legati alla produttività si parla da anni. È il classico canto della sirena padronale, intonato in coro con i sindacati “firmatutto”. E’ la stessa FCA a legare «questo nuovo sistema» al Contratto Collettivo Specifico di Lavoro del 2011, cioè il contratto separato Fiat che segnò l’uscita del gruppo da Confindustria e che permise a Marchionne di avere mani libere nei rapporti con i sindacati. Attraverso quel contratto, che rivedeva le regole in materia di organizzazione del lavoro e dei rapporti sindacali, la Fiat mise la Fiom e gli altri sindacati conflittuali fuori dai propri stabilimenti.
La nota di FCA non potrebbe essere più esplicita in questo senso, quando parla di «avanzamento del processo di modernizzazione delle relazioni industriali nel nostro Paese che Fca ha intrapreso con la sottoscrizione del Contratto Collettivo Specifico di Lavoro nel 2011». È la modernizzazione alla Marchionne, che prevede aumento dei ritmi di produzione, riduzione dei diritti dei lavoratori, soffocamento dei rapporti sindacali. Rispetto a questa «modernizzazione», finora, la Fiom risulta essere una delle poche voci fuori dal coro, con Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri che sposano la linea Marchionne e con la Cgil che esprime timidamente la propria contrarietà. La sensazione è che la Cgil non voglia forzare la mano temendo una rottura con i sindacati “firmatutto”, dopo i tentativi di nuove intese che si sono ripetuti a partire dallo sciopero generale del 12 dicembre dello scorso anno. È vero quanto afferma Landini: la “rivoluzione” di Marchionne «cancella il ruolo del sindacato riducendolo a spettatore notarile» e «finge una partecipazione dei lavoratori ai destini aziendali su cui invece non hanno alcuna possibilità di parola». Ma è il caso di andare anche oltre.
La flessibilità del salario è infatti assolutamente legata alla flessibilità della forza lavoro ed alla flessibilità del capitale, soltanto in ragione delle quali è concessa una “redistribuzione” dei profitti. In ragione, insomma, di un maggiore e più efficace comando padronale sul lavoro. L’idea di Marchionne di salario legato ai risultati d’impresa deve quindi essere inserita nel solco della necessità del capitale di ottenere maggiori profitti spremendo una maggiore quantità di lavoro. L’esatto opposto di quanto sarebbe necessario per un miglioramento delle condizione dei lavoratori; ma esattamente ciò che serve al capitale nel processo di accumulazione.
Così posta, Marchionne ha ragione di auspicare che sia «finita la contrapposizione stagnante tra capitale e lavoro», perché, dalla sua prospettiva, significherebbe avere il pieno comando sul lavoro. Sta ai lavoratori, spingendo nelle organizzazioni sindacali e politiche di appartenenza affinchè si apra una vera stagione di conflitto, dimostrare che quella contrapposizione non è finita e non può finire, perché insanabile.
Una stagione che deve porre al centro delle questioni la partecipazione dei lavoratori alle scelte organizzative del lavoro e un’adeguata redistribuzione di quest’ultimo, sgomberando il campo dalle pie illusioni come le partecipazioni agli utili aziendali e le fantomatiche politiche di redistribuzione del reddito.