Con questo approfondito e attento studio sulla figura di Lukács nella sua tempestosa epoca storica, il prof. La Porta intende contribuire alla ripresa della riflessione e del confronto teorico intorno a uno dei massimi esponenti del marxismo novecentesco. Nello specifico nel presente saggio l’autore fa i conti principalmente con due spinose questioni: le autocritiche di Lukács e il controverso rapporto con lo stalinismo
di Lelio La Porta
Il 13 aprile del 1885, ossia 130 anni fa, nasceva a Budapest György Lukács. Si tratta di uno dei maggiori filosofi marxisti del secolo scorso, autore di opere importanti come Storia e coscienza di classe, La distruzione della ragione, Ontologia dell’essere sociale. A queste vanno aggiunte altre opere di contenuto letterario, politico e storico. La produzione di Lukács attraversa il tempo storico che va dalla prima guerra mondiale al processo di destalinizzazione subendo le svolte di quel lungo periodo vista la notevole attività politica messa in atto dal pensatore. Infatti Lukács fu nel 1919 commissario del popolo all’istruzione e commissario politico della quinta divisione rossa durante la Repubblica dei Soviet di Béla Kun in Ungheria; fuggito dal suo paese a seguito della sconfitta della Repubblica, visse fra Vienna e Berlino; il suo libro Storia e coscienza di classe, attraverso Zinoviev, fu condannato per idealismo dall’Internazionale inducendolo a ritirarlo dalla circolazione. Nel 1928 redasse le tesi politiche note come Tesi di Blum, dal nome assunto nella clandestinità [1], che gli valsero l’accusa di deviazionismo di destra e l’espulsione dal Comitato centrale del Partito comunista ungherese. L’anno dopo pronunciò un’autocritica. Trasferitosi a Mosca nel corso degli anni Trenta, vi rimarrà fino alla fine della seconda guerra mondiale presso l’Istituto di filosofia dell’Accademia delle Scienze. Durante il conflitto è arrestato dalla Polizia di Stalin e liberato grazie all’intervento di Dimitrov [2]; rientra in Ungheria dove è membro del Parlamento e della direzione dell’Accademia delle Scienze nonché professore di estetica e di filosofia della cultura all’Università di Budapest. Una critica ad un suo lavoro sui rapporti fra letteratura e democrazia lo induce a ritirarsi dalla vita politica nel 1947. Nel 1956 ritorna alla politica e viene eletto di nuovo nel Comitato centrale del Partito comunista ungherese. Durante gli eventi rivoluzionari di quell’anno in Ungheria è nominato ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Nagy; deportato in Romania a seguito dell’intervento sovietico, rientra in Ungheria nell’aprile del 1957 ritirandosi interamente a vita privata, nonostante la riammissione nel partito nel 1967, fino alla morte sopraggiunta il 4 giugno del 1971.
Sarebbe semplicistico affrontare un discorso su uno dei pensatori del secolo trascorso, in possesso del profilo biografico appena, seppur per sommi capi, descritto, prendendo le mosse dai giudizi sommari, più che critici, di quanti, nell’analizzarne il pensiero, sono partiti dall’ottica del pregiudizio post festum piuttosto che da quel normalissimo, ancorché non sempre seguito, criterio costituito dalla contestualizzazione, che non è detto sia dozzinale esercizio di storicistico giustificazionismo, del pensiero e del suo sviluppo nell’epoca storica in cui esso affonda le sue radici. Questo, rigorosamente applicato, obbliga a ripercorrere la vicenda politica ed intellettuale di Lukács nel rispetto della frattura tragica che consentì al filosofo ungherese di approdare al marxismo e al comunismo e, quindi, alla dialettica, vivendo e soffrendo un tempo storico la cui invadenza si è riflessa in maniera fin troppo esplicita sulla sua opera, sul suo pensiero e sulle sue scelte apparentemente riconducibili alla categoria dell’opportunismo o della mera tattica, segnate, invece, da una evidente “dissimulazione onesta” emblematicamente significativa se applicata a chi ha operato in un contesto di ferro e di fuoco quale indubbiamente fu la cornice entro la quale agì e pensò Lukács.
La sua vita turbolenta e tempestosa è una di quelle vite che costringono il pensiero a sottomettersi quasi totalmente alle stesse svolte imposte dall’esistenza storica. L’autocritica all’epoca della condanna di Storia e coscienza di classe (1923) va inquadrata nel contesto del superamento del messianismo rivoluzionario e settario che Lukács aveva ereditato dalla sua giovanile frequentazione degli scritti di Dostoevskij [3] più che da una riproposizione in chiave dialettica del nesso Hegel-Marx; ed è altrettanto evidente che l’autocritica maturi, negli ambienti dell’emigrazione viennese, di pari passo con la progressiva e sempre più convinta acquisizione del leninismo quale momento fondamentale dell’abbandono dell’iniziale settarismo. Anche l’autocritica all’atto dell’esclusione dal Comitato centrale del Partito comunista ungherese, con l’accusa di deviazionismo di destra, dopo la stesura delle Tesi di Blum (1928), in cui propone la costituzione dei fronti popolari contro la posizione dell’Internazionale che parlava di socialfascismo, va colta nel contesto del particolare passaggio vissuto dal movimento comunista internazionale e dalla necessità per l’intellettuale, e militante, di accettare una revisione del proprio punto di vista per non compromettere la partecipazione attiva alla lotta contro il fascismo e, poi, anche contro il nazismo [4].
Quest’insieme di considerazioni pone in primo piano il rapporto del filosofo ungherese con Stalin e lo stalinismo. Lo stesso Lukács cercò di chiarire quale fosse stata la sua reale compromissione con lo stalinismo in uno scritto del 1969 nel quale, da un serrato elenco di giustificazioni, trapela un atteggiamento di dissimulazione insieme ad un’immagine particolarmente inquietante di quell’epoca [5]. Davanti ad una nuova critica nei confronti di un suo scritto sulla letteratura e la democrazia (1947), Lukács si ritirò dalla vita politica tornando sulla scena pubblica, dopo un’altra autocritica, nel 1949 con lo scritto Esistenzialismo o marxismo? Il 29 giugno del 1951 tenne all’Accademia Ungherese delle Scienze una conferenza sulla linguistica [6], o meglio, "sui contributi staliniani ai problemi della linguistica" [7]. Nella Premessa all’edizione italiana del 1957 del volume edito da Feltrinelli [8], Lukács si espresse nel modo seguente: “Per ciò che concerne il modo tenuto nell’esposizione, è doveroso ammettere che un autore marxista, nei tempi trascorsi, più di una volta si trovò nella necessità di venire a compromessi, per potere in generale pubblicare le proprie opere ed esercitare una influenza. (…) Questi compromessi si concentravano sulla persona e sull’operato di Stalin. (…) L’ultimo saggio di questa raccolta tratta dello scritto di Stalin sulla linguistica. Il lettore attento non avrà difficoltà a notare che la mia conferenza confuta senz’altro, - o per lo meno sostanzialmente corregge - in due punti importanti le affermazioni di Stalin.” Dopo aver sottolineato i punti del suo dissenso da Stalin, Lukács conclude così: “Date le circostanze in cui la conferenza fu tenuta e pubblicata, questa polemica contro Stalin non poteva essere espressa altrimenti che sotto forma di interpretazione. E posso anche dire che è stata una fortuna che la mia forzata mimetizzazione teorica sia riuscita e la critica nascosta non sia stata svelata come tale” [9].
Non si tratta soltanto di dissimulazione ma anche di un aspetto tipico della personalità lukácsiana riconducibile ad un suo modo d’essere che prende forma dall’adolescenza. Quando, per punizione, la madre lo chiudeva nello stanzino della legna, il piccolo Lukács ragionava nel modo seguente: “Se mi ci chiudeva il mattino alle dieci, io alle dieci e cinque domandavo perdono e tutto era a posto. Mio padre tornava a casa all’una e mezzo. Mia madre non voleva che al suo arrivo ci fossero tensioni in casa. Per cui io, se venivo messo nello stanzino dopo l’una, per nulla al mondo avrei chiesto perdono, perché sapevo che cinque minuti prima dell’una e mezzo sarei stato fatto uscire senza aver chiesto perdono” [10]. L’autocritica, quindi, in presenza di tempi non troppo favorevoli alla liberalizzazione della società socialista, era un modo per avere a disposizione quella calma e tranquillità nello studio che avrebbero favorito l’individuazione degli strumenti teorici adatti ad una critica radicale dello stalinismo.
Questo “onesto dissimulatore” intervenne a favore di due giovani intellettuali accusati di essere agenti maoisti; scrisse a Kádár, segretario del Partito comunista ungherese, sostenendo che il procedimento contro i due giovani era lesivo della legalità socialista che lo stesso Kádár avrebbe dovuto garantire. La prosecuzione della persecuzione verso i due determinò la nascita di un movimento di protesta all’interno dell’Università di Budapest, peraltro represso. I due furono imprigionati e soltanto l’intervento autorevole del filosofo, ormai prossimo alla morte (i fatti accadevano nel marzo del 1971 e Lukács morì a giugno), consentì la loro liberazione [11]. Quindi, Lukács difensore dei diritti negati dal socialismo reale ancora erede dello stalinismo.
Ma lo stesso atteggiamento il filosofo lo ebbe nei confronti della negazione dei diritti da parte del capitalismo. Sempre nel corso del 1970-71 Lukács si fece promotore di una campagna per la difesa della leader dei neri americani Angela Davis. In questa campagna internazionale, l’ormai vecchio filosofo impiegò non soltanto tutto il peso della sua indiscutibile autorevolezza ma anche ingenti somme di denaro, come testimoniato dall’appello pubblicato sul quotidiano l’Unità il 28 febbraio 1971 [12].
Il concetto che più di altri consente di penetrare il senso profondo della critica di Lukács allo stalinismo è quello di democratizzazione [13]. Il testo lukácsiano è del 1968 e segue di poco l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Al di là del culto della personalità, già messo sotto accusa nel corso del XX Congresso del Pcus del 1956, compare nel testo tutta una serie di riflessioni sull’esigenza del pluripartitismo come forma politica adatta all’affermazione di trasformazioni socialiste anche in società capitaliste. La riflessione del filosofo ungherese si proietta nel solco delle vie nazionali al socialismo e richiama da molto vicino l’elaborazione togliattiana [14]. Il concetto di democrazia della vita quotidiana coglie in pieno la sintesi di democrazia socialista e di democrazia politica individuando non tanto quell’insieme di norme e di regole che garantiscono il potere di intervento dei cittadini nella vita politica quanto piuttosto il rapporto vivo e attivo che ognuno intrattiene con la società entro la quale vive e che ha il suo elemento distintivo nel contenuto umano rappresentato da ogni singolo individuo che fa parte di quella specifica formazione economico sociale. La stessa socialità, riempita di contenuti democratici, non sarà più il presentarsi dell’uomo all’uomo in una forma estranea: “La democrazia socialista – basata sull’uomo attivo com’egli è davvero, come è costretto a manifestarsi nella sua pratica quotidiana – nel suo massimo e più intimo esprimersi tramuta i prodotti cui gli uomini giungono inconsapevolmente (o con una falsa coscienza) in oggetti fatti consapevolmente per l’uomo stesso, la cui produzione perciò fornisce all’attività soggettiva un senso, una soddisfazione, che trasforma la presenza dell’altro, da limite della nostra prassi, in cooperazione ed aiuto indispensabile e quindi bene accolti” [15].
Lukács nota che il socialismo che nasce dalla democrazia della vita quotidiana ha bisogno di strumenti ad hoc che vengono individuati nell’autogestione delle masse. Infatti, mentre l’evoluzione del capitalismo ha partorito le due figure contrapposte del borghese e del cittadino, tutta la storia del socialismo, dalla Comune di Parigi alle due rivoluzioni russe, si è mossa nell’ottica della democrazia consiliare la quale altro non è che la democrazia della vita quotidiana. L’autorganizzazione e l’autogestione vanno estese fino al livello della vita quotidiana per essere di lì nuovamente diffuse in maniera che sia il popolo a prendere le decisioni essenziali sui problemi più importanti. Già è stato sottolineato come questo testo lukácsiano sia di fatto la risposta all’invasione della Cecoslovacchia, alla quale partecipò la stessa Ungheria. Una risposta che mette in evidenza la necessità per il rinnovamento del socialismo dell’introduzione dei diritti civili borghesi e di una dose sempre maggiore di cultura che è la bussola attraverso la quale è possibile orientarsi nella vita al fine di capire "se questo o quel fenomeno corrispondono alla propria concezione della vita" [16]. Sulla fine di quel mondo che Lukács avrebbe voluto riformare, e su quello che è accaduto nella stessa Ungheria dopo il 1989, ci sarebbe da dire e scrivere molto di più di quanto è stato fatto fino ad oggi. Ma non è il compito che ci si propone in questa sede.
Si è scritto della prima autocritica di Lukács dopo la condanna di Storia e coscienza di classe da parte di Zinoviev; si ricordi l’accusa: idealismo. Che nella posizione lukácsiana di allora ci fosse un elemento di idealismo è fuori di dubbio anche se oggi è consentito sostenere ciò in modo disincantato e non con lo spirito iconoclasta dei dirigenti terzinternazionalisti. Procedendo lungo la via del disincanto, il vizio idealistico presente nell’opera del 1923 portava con sé la separazione fra natura e storia, fra la produzione materiale delle cose e i rapporti socio-politici. Intorno a questa questione la posizione di Marx può essere sintetizzata nel modo seguente: non è possibile distinguere e separare natura e storia, storia della natura e storia dell’umanità per il semplice fatto che si condizionano reciprocamente: “Pare che il Lukácz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l’uomo egli ha torto […] ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? (Q11, 34, 1449)” [17]. Quasi certamente Gramsci non conosceva in modo diretto il testo di Lukács e per questo è portato ad affermare che la sua conoscenza è vaga, ma il fatto che si rivolga al filosofo ungherese indicandolo come il "Prof. Lukácz" (Q4, 43, 469) [18], cioè nel modo con cui era definito dai suoi accusatori della Terza Internazionale, lascia intendere che Gramsci sapesse del libro e dei suoi contenuti attraverso la condanna espressa dall’Internazionale. La critica gramsciana consiste nel ritenere che posizioni simili a quella di Lukács avrebbero potuto impedire al marxismo di pervenire al conseguimento di quello statuto di scientificità che era invece presente come obiettivo prioritario nella mente di Marx. E’ lo stesso Lukács ad auspicare ricerche nella direzione indicata da Gramsci ritenendo che il marxismo debba sottrarsi, da un lato, dalla stretta mortale del dogmatismo di stampo staliniano e, dall’altro lato, "dalle tradizioni della imborghesita socialdemocrazia" [19]. Insomma, la ricerca di una terza via teorica e pratica.
Probabilmente Lukács stesso la stava indicando nel momento in cui evocava le ricerche che in Italia si stavano realizzando intorno a Gramsci [20] individuando in lui, nella schiera dei pensatori marxisti e in prospettiva, quello più capace di affrontare le problematiche che avrebbero potuto portare il marxismo fuori dalle secche del meccanicismo secondinternazionalista: “Negli anni Venti, Korsch, Gramsci e io tentammo, ciascuno a modo suo, di affrontare il problema della necessità sociale e della sua interpretazione meccanicista, che era eredità della Seconda Internazionale. Ereditammo questo problema, ma nessuno di noi – neanche Gramsci, che era forse il migliore di tutti noi – poté risolverlo. Tutti noi ci sbagliammo…” [21].
Ma lo stesso filosofo ungherese può essere indicato come esempio di cosa debba intendersi per terza via se si prendessero in considerazione le parole di uno dei suoi maggiori studiosi: “Lukács è l’esempio tipico dell’intellettuale comunista dai percorsi complicati, spesso preso tra due fuochi” [22].
Note
[1] Lo stesso Lukács ricorda il particolare rispondendo a István Eörsi: “Blum era allora il mio nome di battaglia” (G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, intervista di István Eörsi, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 99).
[2] Dall’interrogatorio del 5 agosto 1941: “Lo ammetto, ho polemizzato con Engels sono stato un pensatore idealista”. DOMANDA: “Che “errori” ha commesso?” RISPOSTA: “Nel 1923 uscì il mio libro Storia e coscienza di classe (una raccolta di articoli scritti nel 1919-1922). Questo libro è la “sintesi filosofica” delle mie idee ultrasinistrorse di questo periodo. La base di questa “filosofia” è la sopravvalutazione dei fattori soggettivi e la sottovalutazione dei fattori oggettivi. Ho sopravvalutato il ruolo storico della società e ho sottovalutato il ruolo storico della natura. Ho polemizzato contro Engels nella questione della dialettica della natura (…). Tutto ciò dimostrava che nel campo della filosofia ero un idealista”. Le circostanze dell’arresto e della liberazione sono raccontate dallo stesso Lukács in Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, cit. pp. 127-130.
[3] In una lettera del marzo 1915 inviata da Heidelberg a Paul Ernst, Lukács scrive: «Adesso finalmente mi sono messo sul mio nuovo libro: su Dostoevskij (l’Estetica per il momento riposa). Conterrà però molto più che Dostoevskij: grosse parti della mia etica metafisica, della filosofia della storia etc.» (G. Lukács, Epistolario 1902-1917, Editori Riuniti, Roma 1984, p 353). Gli appunti per questo libro mai scritto sono nella traduzione italiana di Michele Cometa: G. Lukács, Dostoevskij, SE, Milano 2000. Sul rapporto fra il filosofo ungherese e lo scrittore russo mi permetto di rinviare al mio Etica e rivoluzione nel giovane Lukács, L’ed edizioni, Roma 1991.
[4] Nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, Lukács stesso propone una sorta di storia delle sue autocritiche, da quella del 1924 dopo l’accusa di idealismo e di revisionismo che l’Internazionale, per bocca di Zinoviev, lanciò contro Storia e coscienza di classe a quella del 1929 successiva alla condanna delle Tesi di Blum. Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1974, pp. XI-XIII e p. XXXIII.
[5] G. Lukács, Sozialismus als Phase radikaler, kritischer Reformen in Ausgewahlte Schriften IV: Marxismus und Stalinismus – Politische Aufsatze, Rowohlt, Reinbek 1970, pp. 646-657.
[6] Il testo è in G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1957, 1966, 1975, con il titolo Il carattere soprastrutturale dell’arte e della letteratura, pp. 461-490.
[7] Ivi, p. 461.
[8] Vedi nota 4.
[9] Ivi, p. 8.
[10] G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 29.
[11] Per questa vicenda si veda G. Lukács, Testamento politico y otros ecritos sobre politica y filosofia, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Ediciones Herramienta, Buenos Aires 2003, pp. 21-22. Il testamento politico di Lukács compare nella traduzione italiana di Antonino Infranca in appendice al volume T. Szabó, György Lukács. Filosofo autonomo, La città del sole, Napoli 2005, pp. 255-307.
[12] Tutta la vicenda è stata ricostruita in Lukács, Bloch, Berlinguer, Carteggio su Angela Davis, a cura e con introduzione di Lelio La Porta, Critica marxista, 5/1988.
[13] G. Lukács, L’uomo e la democrazia, a cura di A. Scarponi, Lucarini, Roma 1987 (le citazioni avverranno da questa edizione); ora anche G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, manifestolibri, Roma 2013.
[14] Si veda l’intervista concessa da Togliatti alla rivista «Nuovi argomenti» diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci. Nel numero 20 del maggio-giugno 1956 la rivista aveva rivolto a diverse personalità della cultura e della politica «9 domande sullo stalinismo». Il testo integrale in P. Togliatti, Sul movimento operaio internazionale, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 231-265. La risposta di Lukács fu pubblicata nel n. 57-58 del 1962 e si può leggere con il titolo Lettera al sig. Carocci in G. Lukács, Marxismo e politica culturale. Socialismo e libertà, il Saggiatore, Milano 1972, pp. 143- 169.
[15]G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., pp. 97-98.
[16] G. Lukács, Cultura e potere, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 93.
[17] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975; si citano i Quaderni del carcere indicando il Quaderno, il paragrafo e la pagina.
[18] Toni ugualmente sarcastici nei confronti di Lukács sono usati, nel pieno della crisi ungherese del 1956, da Togliatti in una lettera a Carlo Muscetta, direttore di "Società" e fra i promotori di un documento in cui si criticava la dirigenza comunista italiana per la lettura data di quei fatti. Così scriveva il Segretario comunista il 27 ottobre del 1956: “Tutta questa agitazione non poteva che contribuire alla preparazione di una sommossa, e ora a noi non resta che augurarci che coloro che l’hanno condotta o favorita non si vedano tra poco una seconda volta ridotti a scriver saggi di estetica nei caffè di Vienna” (P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco e M. L. Righi, Einaudi, Torino 2014, p. 249). Il riferimento al filosofo ungherese è chiaro. Si ricorderà che Lukács era stato esiliato in Austria dopo aver partecipato alla Repubblica ungherese dei Consigli nel 1919 e che, nel 1956, era stato uno degli animatori dei dibattiti successivi al XX Congresso del Pcus fino a divenire ministro della Pubblica Istruzione nel governo di Imre Nagy. Ma le strade di Lukács e Togliatti si erano già incrociate; infatti nell’ottobre del 1947 il filosofo aveva inviato una lettera al Segretario comunista affinché facesse passi per la pubblicazione di una sua opera in italiano e è presumibile che Togliatti abbia fatto da intermediario con Einaudi. Inoltre, il 29 luglio del 1960, Togliatti scrive una lettera all’editore torinese nella quale auspica la pubblicazione di Il Giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, che doveva aver letto nell’originale tedesco: “Quello che non mi devi far mancare è il Giovane Hegel , lo scritto più interessante, secondo me, del Lukács “ (Ivi, p. 293).
[19] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale I, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 280.
[20] Ibidem.
[21] Si tratta di un passaggio dell’intervista concessa da Lukács alla «New Left Review» nel luglio del 1969 e pubblicata in francese con il titolo Lukács, sur sa vie e son oeuvre, nel volume G. Lukács, Littérature, philosophie, marxisme 1922-1923, introduzione di M. Löwy, Puf, Parigi 1978, p. 158. A quanto ci è dato sapere non esiste la traduzione italiana dell’intervista.
[22] N. Tertulian, Lukács e lo stalinismo in Lukács-Hofmann, Lettere sullo stalinismo, Bibliotheca, Gaeta 1993, p. 96.