Come mostrato copiosamente dalla cronaca, sbollite da tempo le ebbrezze e le iperboli retoriche, che seguirono la caduta del Muro di Berlino, la “riunificazione” delle due Germanie e il crollo dell’URSS, hanno preso a circolare versioni assai meno trionfalistiche di quella temperie e proiezioni meno ottimistiche circa le sue ambizioni intrinseche e le potenzialità evolutive. Anche se soffocate dal tambureggiare professionale di una dis-informazione a forte timbro totalitario, dunque fondamentalmente estranee ai circuiti e alle patine dell’ufficialità, le letture inquiete e problematiche di quegli eventi hanno preso a sostanziare la trama di una coscienza diffusa, che non abdica al compito salutare di ricondurre la realtà a se stessa, di spogliarla dei belletti che le sono stati mediaticamente spalmati addosso e di fornire letture dissonanti, rispetto alle trombe e ai trombonismi del mainstream, variamente dislocati e declinati. E anche se si misurano con la disarmante assenza di un’organica sponda conflittuale organizzata e coordinata a livello di massa, esse costituiscono per la loro parte il rimando storico e analitico obbligato per qualsivoglia movimento che impugni in modo responsabile la questione di un superamento del regime capitalistico e delle sue abiezioni sistemiche, denudate ed esasperate proprio a partire dagli accadimenti che avrebbero voluto certificarne l’assolutezza, definitività e “superiorità”, pertanto l’intranscendibilità storica, rispetto a qualsivoglia istanza antagonistica o alternativa.
Da quell’autunno del 1989, allorché le televisioni di tutto il mondo (da noi, “madrina” una sovreccitata Lilli Gruber, speaker compiaciuto un compassato e sornione Paolo Frajese) diffusero le immagini del prorompente e pacifico pronunciamento di massa, che decretava la fine (altrettanto pacifica) della Repubblica Democratica Tedesca, sulla quale da decenni pesava la greve etichetta di satellite “pierino” dell’URSS e “primo della classe” (p. 379) tra i paesi socialisti, su quell’area della nazione riunificata si è depositata la coltre omissiva di una memoria convenzionale e stereotipata, che ne fissava e irrigidiva, vittoriosamente e irrevocabilmente consegnandola all’archeologia politica, l’immagine di grigia e oppressiva modalità dell’organizzazione sociale dall’alto, spazio esemplare e raggelato della “tristezza di vivere” (p. 57), costitutivamente gravato del peso insostenibile di una dittatura che, benché “comoda” (nelle parole di un tardivamente resipiscente Günther Grass) pareva l’algida replica della tirannia sovietica in salsa teutonica, col valore aggiunto di una occhiuta e “prussiana” perversione amministrativa ed efficientistica.
Saltando a piè pari, per comodità, gli anni intercorsi da quel memorabile 9 novembre[1], abbrivio (assai magniloquente e frettoloso, fa notare l’Autore di questo libro…) di una ricca fioritura di promesse, la Germania orientale mostra oggi un paesaggio sociale e culturale assai incerto e tormentato, che “scarica” sull’intero Paese, già destinalmente ricomposto, oggi decisamente inquieto e impaurito, ormai mesta (e pericolosa) ex-locomotiva continentale, le ombre di una massiccia crisi sociale, oltre che l’incognita di una proliferazione incontrollata di formazioni di estrema destra, dalle sfacciate coloriture neo-naziste, che specularmente evocano esangui scenari da Union Sacrée, senza che ci si interroghi sulla qualità e i caratteri del percorso a suo tempo intrapreso, sul suo “segno”, col risultato di tornare a bollare quell’area (come emerse ai bei tempi aurorali) persino del vieto stigma antropologico.
È qui che si inserisce con impietosa precisione chirurgica la contro-storia di Claudio Guidi, operazione di igiene storiografica che marca un’autentica novità nel panorama degli studi relativi e si staglia solitaria nella sua ispida e anche divertita (ma documentalmente amplissima) cavalcata diacronica e tematica, che “smonta” con pazienza certosina e precisione meticolosa le superficiali e persistenti retoriche “europeiste” e liberal-democratiche, che hanno condito le analisi degli osservatori sulla vicenda tedesca, a partire dai giorni memorabili dell’ottobre/novembre 1989.
Il successo registrato a suo tempo dal film del già sconosciuto Florian Henckel von Donnersmarck “Le vite degli altri”, premiato con l’Oscar nel 2006 come migliore pellicola straniera (alla cui vicenda, filmica e umana, Claudio Guidi dedica un imprescindibile, assai poco convenzionale e rivelatore abbrivo “genealogico” e contestuale), è indicativo del sigillo di unilaterale e monocroma definitività apposto alla vicenda di quel paese, costretta nell’angustia della pigra rappresentazione ideologica dello stato di polizia, sulla quale pochi, anche a sinistra, hanno in passato preso la briga di indagare sfumature, precisare dettagli e articolare gli opportuni distinguo, contestualizzandone la fluida e complessa temperie. Ma è proprio partendo dall’analisi del film, e dell’operazione politico-culturale ad esso sottesa, che Guidi scandisce con spigliatezza (nonostante le dense e ponderose 596 pagine) una riflessione dissonante, provocatoria ed eccentrica rispetto al sentito dire e ai cascami del vecchio (in realtà mai veramente sopito) anticomunismo viscerale della Guerra fredda (a diretta trazione tedesco-occidentale, oltre che statunitense) e dei suoi tanti frantumi postumi. Un’ampia riflessione critica che scardina fragorosamente gli assunti macchiettistici, che tuttora dominano una cultura giornalistica largamente debitrice (e paga) del suo ruolo ancillare, rispetto ai dettami occidentalocentrici imposti dal pensiero unico.
È quell’opera cinematografica, infatti, a scolpire in modo irrevocabile e sigillare senza appello nell’immaginario l’identificazione tra lo stato tedesco orientale e la soffocante onnipresenza della famigerata Stasi (Staatssichereit), l’organismo preposto al controllo capillare di un’opinione pubblica ritenuta in larga parte inaffidabile. De “Le vite degli altri”, Guidi traccia in pagine significative retroscena, retropensieri e retrogusti, articola biografie, che ne sbriciolano l’immagine di alto “documento” morale e testimonianza apodittica ed esemplare, la seriosità pensosa e sofferta, che ne hanno accompagnato la diffusione dalle nostre parti, contribuendo in modo solenne a “giustificare” la narrazione delle cancellerie europee (a cominciare, come al solito, da quella di Bonn). Che Guidi rovescia “filologicamente”, ricordandoci come “menzogne ben confezionate e propagandate finiscono per diventare verità storiche” (p. 20) e che la sorte toccata alla parte orientale della Germania, a partire dall’isterica, massiccia e sistematica aggressione ideologica, non l’ha mai beneficiata di, non diciamo indulgenti, ma neanche distaccate e serene cautele analitiche, ad essa riservando solo le tossiche iperboli propagandistiche della Guerra fredda e gli stereotipi manichei legati alla finalità di sottoporla a un incessante logorio. Confine incandescente tra i “blocchi”, la Germania Est ha sopportato più di altri il peso dell’attrito ideologico e delle manovre di destabilizzazione di quella complessa fase della politica mondiale, senza mai ottenere sconti o vedersi concedere le attenuanti implicite dell’aporia geo-politica e delle titaniche fatiche di una ricostruzione solitaria, pressata dai mille vincoli, che Bonn mai avrebbe conosciuto. Di cui fa fede l’ostinato rifiuto (almeno fino agli anni Settanta) di riconoscere alla fantasmatica Zone [sic!] , ormai decima potenza industriale del mondo, e vera avanguardia di un welfare moderno, dinamico e perentoriamente egualitario, uno statuto esistenziale da parte della democratica controparte occidentale.
La lunga, fitta e documentatissima ricognizione dell’Autore nell’ultra-decennale e complessa avventura del Paese di Ulbricht e Honecker ne abbraccia l’intero arco temporale distendendosi su un arcipelago tematico, che nulla omette di quanto esperito da popolo e classe dirigente in 44 anni di vita assai accidentata. Essa poco spazio lascia all’improvvisazione o alla nostalghia, nulla omettendo di quella controversa vicenda, non lesinando per altro precise notazioni critiche di merito e metodo alla conduzione della vita di quel paese, ma dispiegando un repertorio informativo, che fa del suo lavoro un unicum, irrinunciabile nel panorama della storiografia di settore, non facile da riassumere compiutamente. Il cui “segno”, trasgressivo e per nulla conformistico, ne spiega e connota in modo eloquente anche le difficoltà di accedere ad una sede editoriale più consona, per un Autore assai prolifico, che vanta un più che cospicuo curriculum scientifico.[2]
L’acuminata e minuziosa decostruzione della “leggenda nera” della DDR si distende in un ostinato gioco di sponda tra le due realtà geo-politiche, che gradualmente e in modo apparentemente provocatorio rovescia il senso comune accumulato dal tempo (e dalle asimmetrie nel potere effettivo di intervento e incidenza sulla realtà da parte degli attori reali dell’epoca), aprendo scenari originali e sconosciuti a un pubblico medio di lettori. Letteralmente inquietanti, se solo si trasceglie tra le rispettive nomenklature, delle quali Guidi con puntiglio scandaglia storie e curricola, regalandoci informazioni preziose ed eloquenti, che gettano una luce sinistra ma chiarificatrice sulla dialettica continuità-discontinuità delle classi dirigenti germaniche, sulle ragioni e le concrete responsabilità della divisione post-bellica, sui ruoli giocati dalle singole figure nel determinare un assetto post-bellico, la cui origine remota il main stream imputa omissivamente a Stalin e all’Urss, in un’operazione, che soltanto la possanza “narrativa” dell’Occidente poteva accreditare, nella cristallizzazione di un paradigma largamente ingannevole e quanto meno riduzionista. Entrano così in scena, denudati nel e dal profilo biografico, i tanti nomi “vetrina” dei vertici (via via percolando) della BRD (la Germania occidentale), infelicemente e clamorosamente implodenti sulle scabrose biografie, che ne denunciano la conclamata organicità operativa al regime nazista, frettolosamente beneficiate di nuove, miracolose verginità morali (il Persilschein, p. 120), in quanto impegnate a trasferire la tradizionale, catastrofica nevrosi anti-comunista nelle nuove condizioni generate dal secondo conflitto mondiale (nella generale complicità di un “blocco”, che ha repentinamente riparametrato priorità e “valori”).
Ma entra in scena anche l’esame dettagliato e analitico del confronto “di modello”, il test comparativo che mette a fuoco nei vari ambiti di esercizio e di governo della vita reale, il tipo di società che, a partire dalla rovina della guerra, la DDR faticosamente costruiva muovendo da colossali svantaggi materiali, sostenendo onerosissime spese di riparazione (soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica) e subendo le manovre finanziarie destabilizzanti del gemello occidentale – mentre non solo la BRD sgusciava più o meno elegantemente dagli obblighi relativi, ma rientrava in un Piano Marshall, le cui finalità “filantropiche” impallidivano, a fronte della gigantesca operazione egemonica messa in atto dagli Stati Uniti e dai loro satelliti.
Così i “quadri d’esposizione” di Guidi trascorrono senza pregiudizi o corrività su tutti gli snodi storici dell’esistenza di quella formazione statuale, dalla fondazione dello Stato nel 1949 e dai dettagli delle circostanze della divisione territoriale, alla impervia ma vigorosa ricostruzione, agli “urti” e le asperità del dissenso sociale e culturale, alle innegabili (ma certo non solitarie o esclusive) pulsioni repressive, alla costruzione del Muro (non “un’invenzione della DDR, ma la linea divisoria dei due più potenti blocchi del pianeta” (p. 437), ai ruvidi rapporti con la Repubblica Federale, al lento ma significativo riaccredito politico nell’agone internazionale, nei chiaro-scuri di un cammino certamente non riassumibile nelle miserie “pennellate” dalla propaganda del “mondo libero”.
Che non è l’unico, a decretarne il malinconico declino, la “Reconquista della DDR per mezzo dei soldi” (p.436), se si sta all’impietosa disamina che investe direttamente la nuova dirigenza sovietica (segnatamente il labile Gorbacev e Shevarnadze, “becchino della DDR”, p. 426, oltre al tecnocrate in fasce Yakovlev), protagonista non accidentale dell’irresponsabile svendita di quel patrimonio, e alla quale un Guidi millimetrico non risparmia i dettagli di una cinica operazione opportunistica e liquidazionista, che porterà alla letterale fagocitazione del Paese, la Kolonisierung (nelle parole dello scrittore Stefan Heym, p. 208), la riduzione del Paese ad appendice servile dal “fratello maggiore” occidentale, nello shock della desertificazione sociale che rapidamente si sostituisce ai “promessi paesaggi fioriti” (p. 467), di cui aveva parlato il munifico cancelliere Kohl (lo stesso Kohl, che prometteva al leader sovietico di non allargare a Est la Nato). Il cui senso profondo riposerà tutto in quel “deve scorrere il sangue”, che il futuro presidente unificato Horst Köhler (fino al 2004 alto burocrate del FMI), a ridosso degli eventi, e parlando dei “fratelli dell’Est appena riabbracciati” (p. 486), pronuncerà in pubblico a proposito della folla delle privatizzazioni che stanno per travolgere la colonia orientale, sconvolgendone traumaticamente e a scopi speculativi equilibri e assetti esistenziali.
Un lungo processo di spoliazione e certificata deprivazione umana, uno “scempio economico” (p. 474) e un “disboscamento sociale” (p. 295), di cui oggi pienamente avvertiamo, non solo la scelleratezza politica, ma la dimensione tragica, le potenzialità involutive e i rischi immanenti.
[1] Cui vanno per la precisione associate le date del 29 settembre e del 3 ottobre dell’anno successivo, riguardanti rispettivamente il Trattato di Riunificazione e la Giornata dell’Unità tedesca (festa nazionale).
[2]Dobbiamo a Claudio Guidi, critico teatrale e noto studioso del Settecento francese e dell’Illuminismo, tra l’altro, una recente, monumentale tetralogia su Federico il Grande (Genova, il melangolo).