Forte è la continuità tra le opere di Tubinga e gli scritti composti da Hegel nei primi diciotto mesi del suo soggiorno in Svizzera; tanto che, fino alla recente pubblicazione dell’edizione critica, questi ultimi sono stati considerati la parte conclusiva di un’opera unitaria, intitolata da Nohl Religione popolare e cristianesimo. I frammenti che nella edizione critica sono stati numerati dal 17 a 26 e che “Nohl aveva interpretato come seconda, terza, quarta e quinta parte, o capitolo, di Religione popolare e cristianesimo, sono stati composti sicuramente a Berna, come testimonia la filigrana della carta usata” [1]. In questi scritti Hegel cerca di condurre fino in fondo l’analisi della religione razionale e della religione popolare, senza essere ancora in grado di individuare una sintesi dialettica tra le due. La relazione di opposizione tra questi motivi principali della sua analisi, spesso apparsi inconciliabili nella riflessione precedente, è ora portata alle estreme conseguenze, ma la contraddizione che così si sviluppa non può ancora essere risolta, mediata: Hegel non ha, in effetti, individuato una prospettiva superiore in grado di conciliarli o, meglio, di toglierli per ricomprenderli sintetizzati in una concezione superiore, in quanto più complessa e meno unilaterale.
Un discorso analogo può esser fatto a proposito dei tentativi compiuti in questi scritti per risolvere in senso catartico della tragedia dal giovane Hegel individuata nel cuore stesso della religione cristiana. È, infatti, difficile comprendere se Hegel abbia inteso limitarsi a riformare radicalmente e strutturalmente il cristianesimo, per ricondurlo alla sua primitiva purezza evangelica e riportarlo, al contempo, entro i limiti della sola ragione [2], oppure abbia creduto di poterlo rivoluzionare nel senso di politicizzare la religione per favorire la presa di coscienze a la politicizzazione della massa popolare. In realtà, in questa prima fase della riflessione hegeliana negli anni di Berna i due momenti tendono a sovrapporsi in modo inestricabile. L’analisi critica delle credenze religiose in un'ottica politica è condotta dal giovane Hegel in una prospettiva storico-filosofica, che interpreta le inevitabili carenze di razionalità del cristianesimo tanto alla luce della sua storia positiva, quanto sulla base delle esigenze proprie del mondo moderno.
Non si tratta, tuttavia, di sviluppare la critica ai limiti della religione cristiana da un punto di vista storico-fenomenico, come aveva fatto generalmente i pensatori illuministi sui cui il giovane Hegel si era venuto formando, ma di coglierne il “carattere di passatezza”, cioè la ragione del superamento storico del cristianesimo all’interno del suo stesso concetto.
Il problema decisivo per la comprensione dei frammenti hegeliani di questa fase dello sviluppo della sua filosofia deve essere ricercato nell’accezione stessa che assume il termine concetto. Negli scritti di questo periodo il significato del concetto oscilla fra il significare il fondamento trascendentale del positivo e la struttura logico-razionale sottesa ai processi storici. In altri termini, sino a che con il termine concetto è utilizzato dal giovane Hegel come poco più che un sinonimo della categoria kantiana, trascendentale e sovrastorica, l’analisi hegeliana si limita a radicalizzare, nella loro rigorosa applicazione alla storia del cristianesimo, i fondamenti stessi della filosofia critica. Al contrario, nel momento in cui il concetto comincia ad acquisire il significato propriamente hegeliano di idea, cioè di realizzazione storica del concetto, si presentano già alcuni momenti fondamentali della sua concezione del tragico.
Così, mentre nella prospettiva storico-filosofica il cristianesimo appare destinato a essere condannato come un ostacolo al pieno dispiegamento del lume della ragione, in senso trascendentale è il “commercio” con il positivo che avrebbe impedito alla fede cristiana di assurgere alla forma pura della di una religione ricondotta ai limiti della sola ragione. Come ha osservato acutamente Bourgeois: “l’ideale hegeliano di libertà, come si esprime a Tubinga e a Berna, comporta un’ambiguità, cioè una contraddizione, essenziale, che rinvia alla propria origine” nei due aspetti preminenti che hanno caratterizzato la formazione del giovane Hegel: “lo studio entusiasta dell’antichità greco-romana”. che lo porterà a bramare “il ritorno della bella totalità” etica caratteristica di questo mondo, “e lo studio non meno entusiasta del pensiero dei Lumi che gli insegna il legame tra la libertà e la ragione universale” [3].
Nel momento in cui si pone in quest’ultima prospettiva, nonostante l’interesse per l’analisi storica della religione, Hegel stabilisce, sulla scia di Kant, una netta opposizione tra una concezione pura, cioè puramente razionale della religione ed una meramente positiva. Come osserva a quest’ultimo proposito il giovane Hegel “la fede storica”, cioè positiva, “è per sua natura limitata, la sua diffusione dipende da circostanze casuali e costituisce una fonte a cui non tutti possono attingere, pur dovendone dipendere la condizione della benevolenza divina per noi, del nostro destino per l’eternità” [4], il che naturalmente sarebbe assurdo. Allo stesso modo, il giovane Hegel contrappone, radicalizzando la concezione kantiana, la fede razionale nell’aldilà di Socrate – un maestro di virtù in ciò superiore a Gesù – a quella tutta positiva e, quindi, tendenzialmente superstiziosa dei cristiani. Come osserva a tale proposito Hegel: “solo in spiriti poveri, che non hanno vive in sé le premesse per questa speranza, cioè l’idea di virtù e del sommo bene, anche la speranza dell’immortalità è debole” [5], dato che è effettivamente possibile esclusivamente come partecipazione del singolo al general intellect.
Così, in alcuni passaggi di questi scritti giovanili di Berna, sembra possibile cogliere la vicinanza di Hegel all’ideale del cristianesimo primitivo, che gli appare meno distante dalla religione antica maggiormente legata al cuore, alla semplicità, all’innocenza, secondo un modello di probabile derivazione schilleriana, la cui concezione dell’anima bella è quanto di più distante possa immaginarsi da quei compendi intellettualistici di teologia – che Hegel aveva dovuto studiare negli anni in cui era stato costretto, per proseguire gli studi, a farsi recludere nel seminario teologico di Tubinga – che restano, come è naturale, uno degli obiettivi più scontati e immediati dello spirito critico di giovane filosofo. Così Hegel contrappone al dogmatismo della precettistica del seminario l’interiorità della legge morale, razionale kantina, il cui vero modello ancora più che Gesù resta Socrate. Quest’ultimo, fa notare il giovane Hegel, “non aveva nessun modello secondo cui forgiare” il carattere dei suoi uditori – al contrario del cristianesimo che resta una religione positiva e, in quanto tale dogmatica – non aveva “nessuna regola secondo cui uniformare le loro diversità; in tal caso sarebbero stati ai suoi comandi solo spiriti meschini di cui prendersi cura; ma tali non furono certamente i suoi amici più intimi” [6], proprio all’opposto dei discepoli di Gesù, che non a caso non aspettarono nemmeno la sua morte per tradirne l’aspetto morale e, perciò, razionale del suo messaggio.
Al centro della critica degli scritti hegeliani di questi anni non è, certamente, il necessario storicizzarsi della ragione, che costituisce peraltro il significato recondito e razionale della credenza positiva che ha portato inopinatamente a divinizzare quel maestro storico di virtù che era stato in realtà Gesù, quanto piuttosto la riduzione dell’ideale evangelico al culto feticistico per un individuo storicamente limitato in un passato destinato, in quanto tale, a non tornare e, quindi, inevitabilmente positivo. Del resto per Hegel, il retroterra razionale della stessa fede dei cristiani nel Cristo non è altro che, in realtà, che “una fede in un ideale personificato” [7] e, così, positivizzato. Come osserva a tal proposito Mirri, “così, gradatamente, a partire” dalle critiche del giovane Hegel alle indulgenze e al diritto di asilo dei criminali nelle chiese, dalla critica alle rappresentazioni cristiane dell’inferno e del paradiso, dalla critica alla irrazionale credenza della “resurrezione della carne”, del peccato originale, della dottrina positiva “della provvidenza”, “si giunge infine al rifiuto hegeliano della dottrina di fondo ed essenziale di tutto il cristianesimo: quella della fede in Cristo” [8]. Come nota Finelli, secondo il giovane Hegel il cristianesimo ha avuto più nello specifico il torto di immaginarsi “il rappresentante sensibile e figurato dell’universale pratico, proprio di ogni religione, più nel senso di valorizzare il lato personificante e individualizzante che non quello metaforizzante il vero e proprio universale morale” [9]. In altri termini il cristianesimo non è criticato tanto in quanto religione, in quanto la ragione per potersi realizzare nella storia ha dovuto assumere questa configurazione per poter essere fatta propria da popolazioni ancora poco evolute, ma più nello specifico come una concezione della religione particolarmente positiva, cioè caratterizzata di un surplus di tratti accidentali e, perciò, fondamentalmente irrazionali.
Note:
[1] Mirri, Edoardo, in Hegel G.W.F., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 151.
[2] Da questo punto di vista la riflessione del giovane Hegel sulla religione è decisamente influenzata da Kant. Come scrive Finelli: “Le argomentazioni che Hegel svolge per sottolineare il carattere irreversibilmente positivo del cristianesimo si concludono in sintesi nella tesi kantiana della antropologizzazione e della personificazione, quali caratteristiche strutturali di ogni passaggio da una fede razionale pura ad una fede rivelata (…). Hegel si trova a rivendicare contro lo stesso Kant il rigore dell’universale kantiano di ragione e la sua impossibilità di principio a incarnarsi in figure individuali: e a promuovere attraverso l’idealizzazione del modello greco una critica del tempo presente che è essenzialmente critica della spiritualità e della religione cristiana concepita nella sua totalità” Finelli, Roberto, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 83.
[3] Bourgeois, Bernard, Hegel à Francfort. Judaisme, Christianisme, Hegelianisme, Vrin, J., Paris 1970, p. 113.
[4] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner 1968, vol. I, p. 157; Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 252.
[5] Ivi, p. 120; ivi, p. 206.
[6] Ivi, pp. 118-19; ivi, p. 205,
[7] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, op. cit. vol. I, p. 160; Scritti…, cit., p. 254.
[8] Mirri, Edoardo, in Hegel G.W.F., Scritti…, cit., p. 253.
[9] Finelli R., Mito e critica… op. cit., p. 75.