Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi
Segue da: Fenomenologia dello spirito V parte
La critica di Marx alla concezione idealistica che aveva Hegel del lavoro
Il lavoro, secondo G. W. Hegel – che così rovescia secolari pregiudizi, che torneranno con forza con F. Nietzsche e il Terzo Reich, per cui il lavoro in quanto tale sarebbe un’occupazione da schiavi – libera e umanizza l’uomo. Quindi il lavoro non è un’occupazione da bruti, la base materiale del vero operare spirituale dei superuomini, ma al contrario è l’attività generica fondamentale dell’uomo, che gli consente di distinguersi da ogni altro essere vivente, non essendo più costretto ad adattarsi all’ambiente in cui vive. Mediante il lavoro i subalterni creano un mondo reale-razionale non più naturale, ma storico, umanizzato, antropizzato, dove l’essere umano può sentirsi veramente a casa, al sicuro, nel suo ambiente.
L’uomo, che a differenza degli altri animali è un essere storico, che istituisce la storia ne e diviene protagonista, è il lavoratore, sebbene viva ancora in uno stato di subalternità al suo signore e padrone. Dunque, al contrario dei millenari pregiudizi non sono questi ultimi i protagonisti della storia, non sono i signori a fare la storia, ma la storia, al contrario – fondamento di ogni scienza – è la storia del lavoratore ancora asservito. D’altra parte proprio attraverso questo lavoro apparentemente da schiavo, il lavoratore asservito porta a compimento una decisiva opera di emancipazione, liberando l’uomo dall’ambiente naturale, dalla natura e dal suo stesso genere, che non si impone più mediante l’istinto si singoli individui. In effetti mediante il lavoro il servo diviene signore della natura, mediante la potenza della tecnica che pone l’uomo al di sopra di quei fenomeni naturali che precedentemente divinizzava in quanto lo atterrivano. Ora mediante la tecnica è in grado di mettere la natura al suo servizio, di farla lavorare per lui. Anche se tale essenziale sviluppo non conoscerà un reale sviluppo proprio per la grandissima disponibilità di lavoro servile assicurato dagli schiavi e dalle donne, considerate generalmente sub-umane.
Nonostante questa concezione rivoluzionaria del lavoratore, come protagonista e padre della storia umana, il lavoratore manuale resta asservito ai proprio padroni. Perciò, Karl Marx, con il suo implacabile spirito critico, mostrerà tutta l’unilateralità e l’intrinseca debolezza della concezione del lavoratore elaborata da Hegel nella Fenomenologia, sebbene fosse stata indubbiamente, per i suoi tempi, rivoluzionaria. In effetti Marx, già in degli appunti giovanili – da lui presto abbandonati e pubblicati solo postumi a Mosca dopo la Rivoluzione d’ottobre con il titolo di Manoscritti economico filosofici (oggi ridefiniti dai filologi Manoscritti parigini) – critica recisamente la concezione hegeliana del lavoro, in quanto considererebbe idealisticamente, in modo unilaterale, unicamente l’aspetto positivo del lavoro, ovvero il suo aspetto astratto. Hegel non ne comprenderebbe, così, il lato negativo, storico, concreto, materialista per cui il lavoro e il lavoratore divengono dipendenti, assoggettate e, perciò, necessariamente alienanti e alienati, estraniato.
Hegel, prigioniero del suo idealismo filosofico, non sarebbe dunque a parere di Marx in grado di affrontare in modo scientifico il suo oggetto di studio, determinandolo, storicizzandolo, ma lo coglie solo in modo astratto, con tutti i limiti del pensare astrattamente che proprio Hegel in questo stesso periodo (1807) criticava implacabilmente. D’altra parte il suo pensare ancora in modo astrattamente idealistico gli impedisce di cogliere la realtà storica specifica in cui il lavoro e lo stesso lavoratore è immancabilmente alienato.
È il signore che si scopre dipendente dal proprio servo
Per Hegel, dunque, per una eterogenesi dei fini e/o per l’astuzia della ragione è l’esperienza stessa della sottomissione, della subalternità a essere la base della liberazione dell’uomo dal resto della natura, dall’ambiente cui non è più costretto ad adattarsi per sopravvivere, dal proprio genere che non lo domina più come avviene nel mondo animale, dall’animale che è in lui e, infine, dall’altro uomo che con la violenza lo aveva asservito. In effetti, al culmine della dialettica servo-padrone i ruoli tendono a rovesciarsi in quanto è il signore a fare la tragica scoperta di essere sempre più dipendente dai propri servi, in quanto se non lo riconoscessero perderebbe la sua identità, il proprio ruolo dominante. Inoltre limitandosi a un consumo di lusso non è in grado né di lavorare e produrre, di umanizzare il mondo, di realizzarsi nel prodotto del suo lavoro, ma in tutto ciò dipende dai propri servi. Infine, non essendo in grado di tenere a freno il proprio appetito, anche da questo punto di vista si scopre completamente dipendente dai propri servi, che hanno imparato a mantenerlo sotto controllo. In effetti, al contrario dei loro padroni, proprio grazie al loro essere lavoratori, produttori, creatori del mondo umano, del regno della libertà tendono a realizzarsi sempre più come indipendenti: dall’istinto, dall’ambiente, dalla natura e dal proprio stesso padrone, di cui non hanno in realtà alcun bisogno.
La seconda triade dell’autocoscienza
Uno dei principali risultati della dialettica servo-signore è la conquista dell’indipendenza della coscienza servile o meglio della ex coscienza servile da ogni cosa che la circonda, sia di ordine naturale, che sociale. Il soggetto, che sino ad allora nella storia dell’umanità era sempre stato assoggettato all’ambiente, alla natura, tanto da divinizzarla, aggiogato al proprio mondo sociale – in quanto contava solo come parte del tutto – ora finalmente si emancipa. Sorge così la libertà e l’indipendenza dell’individuo, del soggetto, una conquista decisiva del genere umano, di cui oggi stentiamo a comprendere l’importanza dandola, in una certa misura, per scontata.
Artefice di questa conquista di enorme portata è il lavoratore subalterno, che consente per la prima volta al soggetto, all’individuo di divenire indipendente dalle cose, libero dagli oggetti che lo circondano. In tal modo. contrapponendosi all’ambiente, a tutto ciò che è oggettivo, il soggetto diviene in grado di porsi per sé, nella sua indipendenza e libertà. Questo è il punto di partenza della figura successiva, in cui, al posto del servo lavoratore che tende a emanciparsi, abbiamo lo stoicismo antico, che tende in quanto filosofia a comprendere, riflettendovi sopra, l’opera di emancipazione portata a termine dal servo. In tal modo questa decisiva emancipazione del genere umano viene tesaurizzata a livello teoretico dalla filosofia stoica prima nel mondo ellenistico e poi nel mondo romano.
Lo stoico è il primo individuo realmente libero, pienamente consapevole della sua indipendenza, quale presa di coscienza della conseguita libertà del soggetto da tutto ciò che lo circonda. Questo comporta una eccezionale valutazione della soggettività, dell’autocoscienza che si pone per sé, dell’individuo e del singolo. Più nello specifico lo stoicismo rappresenta il superamento dialettico del rapporto servo-signore, in quanto lo stoico comprende la dimensione interiore insopprimibile, del soggetto, dell’individuo, dell’autocoscienza. Ciò costituisce al contempo la sua grandezza e il suo limite, in quanto questa conseguita libertà è tutta interiore, deve essere intesa come libertà di pensiero e del pensiero, che comincia a ragionare con la propria testa, in modo autonomo. In tal modo, lo stoicismo supera la dialettica servo-padrone comprendendo che da questo punto di vista determinante, dal punto di vista della libertà interiore, di pensiero, signore e servo pari sono, il precedente rapporto di dominio, di subordinazione è così radicalmente rimesso in questione. Tanto più che il punto di vista del pensiero è più vero per gli stoici del semplice essere, proprio perché il pensiero si innalza sulla mera parvenza dell’esistente per cogliere l’essenza.
Quindi, dal punto di vista dello stoicismo viene meno, per la prima volta nella storia, la differenza fra servo e signore, dal momento che è una differenza meramente parvente, fenomenica, illusoria, in quanto in ciò che veramente conta, nella loro essenza, schiavo e padrone sono uguali. È l’opinione che si ferma alle apparenze, che continua a naturalizzare tali fenomeni storici, in quanto tali transeunti, e non coglie la verità scientifica per cui, per natura, gli uomini sono tutti eguali. È il positivo storico che ha reso gli uni asserviti agli altri, ma essendo appunto un prodotto storico e non naturale, l’uomo può evolversi superando tali rapporti di subordinazione, in modo da riconoscersi nell’altro da sé, di divenire realmente libero in quanto consapevole di vivere in un mondo, almeno potenzialmente, di liberi. Non a caso massimi esponenti dello stoicismo, giunto al culmine del suo sviluppo nel mondo romano, sono uno schiavo come Epitteto e un grande imperatore come Marco Aurelio. Alla base di questa decisiva conquista filosofica, di tale emancipazione ideale, vi è al solito una base reale, materiale e storica, ovvero il fatto che i romani, dopo aver assoggettato il mondo ellenistico, vi si sottomisero dal punto di vista culturale. Tanto che gli schiavi greci divennero i maestri della prole e spesso degli stessi dirigenti romani più avanzati. Al punto che in breve, la parte più dinamica della classe dirigente romana era stata formata da schiavi greci che, perciò, vennero liberati.
L’astratta libertà interiore dello stoico
Dall’altra parte questa assoluta libertà interiore del soggetto, di un individuo che si scopre talmente indipendente e autonomo nel suo porsi per sé di contro al mondo oggettivo, tanto da divenire indifferente al trono o alle catene, è ancora una libertà astratta, unilaterale. In effetti si tratta di una libertà puramente interiore, dal momento che non è in grado di negare, se non idealmente al livello astratto del pensiero, i condizionamenti reali, materiali e storici esterni, che continuano a opprimere l’uomo, sulla base del rapporto fra servo e padrone superato solo dal punto di vista filosofico. Così il rapporto servo-signore resta materialmente dominante, anche se lo stoico è in grado di andare al di là dei pregiudizi su cui questi rapporti di subordinazione si fondano, divenendo capace di astrarre, nel giudizio che dà di un uomo dalla sua condizione sociale, tanto che lo schiavo può divenire maestro del signore e dei suoi eredi.
Lo scetticismo antico
Lo scetticismo porta alle estreme conseguenze la libertà di pensiero stoica nei confronti del mondo esteriore, mostrando come nulla possa ormai resistere al soggetto, all’individuo. Il pensiero è in grado di togliere il mero essere conoscendolo, facendolo suo, prendendone così il controllo. Proprio per questo Hegel, di contro a una vecchia tradizione moralista antiscettica, ne riconosce in pieno il ruolo decisivo che ha svolto nel processo di emancipazione del genere umano. Tanto che Hegel lo considera – sviluppando un’intuizione già presente in Socrate-Platone – come la base, il necessario punto di partenza di ogni sapere, proprio in quanto per la prima volta è in grado di negare che la verità si fondi sulla tradizione o sul principio di autorità. Da questo punto di vista lo scetticismo antico – che Hegel contribuisce in modo decisivo a rivalutare dal punto di vista storico-filosofico – diviene l’imprescindibile fondamento dell’intero pensiero moderno, in quanto nega che la verità sia qualche cosa di posto al di fuori del soggetto, di puramente oggettivo, di dato, ovvero di creato. In questo modo rovescia per la prima volta in modo compiuto il punto di vista religioso e premoderno per cui la verità è da ricercare in qualche cosa di oggettivo al di fuori del soggetto umano, che deve limitarsi a riconoscerla, subordinandosi a essa.