Nell’Agosto del 1956, dunque appena pochi giorni prima della sua prematura e, tutto sommato, inaspettata dipartita, Bertolt Brecht confidava ai suoi allievi/collaboratori di essere ancora alla ricerca di una nuova formulazione per la sua rivoluzionaria e dirompente teoria drammaturgica, che avvertiva come impellente a causa delle incomprensioni, talvolta anche profonde, alle quali le precedenti formulazioni non erano state, di fatto, in grado di ovviare. Categoria fondamentale di questa progettata revisione – come appare dalla preziosa testimonianza di uno dei più stretti collaboratori di Brecht, Manfred Wekwert, – doveva essere il “naïf” [Naivität], un aspetto che, sino a quel momento, era stato ingiustamente sottovalutato [1].
Wekwert fa riferimento all’importanza attribuita al naïf dall’ultimo Brecht, in uno scritto pubblicato nel 1957, poco dopo la morte del grande drammaturgo [2]. Nello specifico, ricorda le parole pronunciate da Brecht in una discussione relativa alla messa in scena del suo ultimo dramma: I giorni della Comune, in cui individuava nel naïf una categoria estetica decisiva per la corretta comprensione della sua opera.
Sebbene Wekwerth non abbia adeguatamente dato seguito, dal punto di vista teorico, a queste significative notazioni sulle ultime riflessioni del suo maestro, esse hanno aperto la strada, negli anni successivi, a alcune significative reinterpretazioni dell’opera di Brecht, fra le quali è il caso di ricordare l’attento studio dedicato a questo aspetto dell’opera brechtiana da Detlev Schöttker [3]. Dal momento che tale proposta ermeneutica ha alla sua base, come abbiamo visto, alcune indicazioni che Brecht ha lasciato ai suoi collaboratori nelle ultime prove da lui dirette, si potrebbe azzardare che si tratti quasi di un testamento spirituale. Quest'ipotesi, tuttavia, non è possibile verificarla fino in fondo sulla base degli ultimi scritti lasciati da Brecht, nei quali si possono certo individuare dei passi che, in qualche modo, la suffragano, anche se mancano precise e inequivocabili indicazioni in proposito. Ferme restando le necessarie cautele critiche, la categoria del naïf resta, senza dubbio, un aspetto rilevante dell’ultima riflessione di Brecht.
È bene, però, innanzitutto chiarire che non si tratta tanto della scoperta di una nuova categoria estetica, come lo stesso titolo del saggio di Wekwert potrebbe far credere. Non si tratta, in effetti, di una categoria che avrebbero dovuto costituire il cardine della produzione futura di Brecht ma, piuttosto, di una struttura portante della sua opera, non ancora pienamente esplicitate sul piano della teoria. Come ha osservato a ragione Detlev Schöttker a questo proposito: “l’introduzione della categoria del naïf non apre una nuova fase di sviluppo della teoria brechtiana, ma è piuttosto il risultato di un processo di auto chiarimento estetico” [4].
Brecht giustificava il poco spazio dedicato al concetto di naïf nelle sue riflessioni sull’arte e il teatro, ritenendo di averlo considerato un aspetto, in qualche modo, che si poteva dare per acquisito, per il ruolo significativo che avrebbe svolto in una parte considerevole della sua poliedrica produzione artistica. Tuttavia, è probabilmente più plausibile considerare il naïf, un aspetto certamente implicito nell’opera di Brecht, della cui importanza e del cui rilievo, però, il suo stesso autore aveva cominciato a divenirne realmente consapevole solo alla fine del suo percorso.
D’altra parte, Brecht considerava necessario sottolineare questo carattere della sua opera in quanto vi vedeva quello che si potrebbe definire un efficace antidoto a certi tratti particolarmente radicali della sua teoria del teatro epico e dell’effetto di straniamento che avevano, non di rado, favorito la loro cattiva interpretazione. Senza contare che alcuni aspetti particolarmente di rottura della sua drammaturgia corrono il rischio di mettere a repentaglio la stessa corretta fruizione estetica della sua complessa opera. Vi era poi da contrastare il radicato pregiudizio, sia nel mondo socialista che borghese, per cui la concezione troppo avanguardista del teatro epico e dell’effetto di straniamento potevano divenire due barriere che rischiavano di attutire il pieno godimento estetico delle opere di Brecht.
Del resto Brecht stesso aveva sottolineato la necessità di chiarificare meglio il concetto di teatro epico, proprio in quanto non gli sembrava del tutto adeguato a dar conto degli aspetti peculiari da cui doveva scaturire il godimento estetico nella fruizione delle sue opere [5]. Si legga quanto annota, a questo proposito, nel sul suo diario di lavoro Brecht nel 1948: “le mie indicazioni relative al teatro epico spesso possono dare adito a equivoci perché hanno il carattere di un’opposizione critica e sono interamente rivolte contro l’arte drammatica del mio tempo, la quale viene trattata in maniera artificialmente non dialettica. In realtà bisogna semplicemente reintrodurre nel genere drammatico l’elemento epico, certo però in maniera contraddittoria. Bisogna appunto insediare la libertà del calcolo «all’interno della travolgente corrente» degli avvenimenti” [6].
Per quanto riguarda la rilevanza che l’ultimo Brecht dava all’esigenza di favorire il compiuto godimento estetico delle sue opere rivoluzionarie, si può ricordare una tarda notazione del suo Diario di lavoro: “leggo uno studio su Gor’kij e me, scritto da una studentessa operaia di Lipsia. Ideologia, ideologia, ideologia. Da nessuna parte un concetto estetico; il tutto fa pensare alla descrizione di una pietanza in cui non si accenni neanche al sapore che ha. Per prima cosa dovremmo organizzare delle mostre e dei corsi per educare il gusto, cioè per insegnare la gioia di vivere” [7]. Tanto più che, a suo parere, uno dei motivi fondamentali per i quali il proletariato non poteva considerarsi una classe, in quanto tale, rivoluzionaria, dipendeva dal fatto che le sue miserrime condizioni di vita gli impedivano di prendere coscienza di quanta parte di ciò che rende pienamente godibile la vita gli era preclusa dai rapporti capitalistici di produzione.
Tornando al, per quanto forse tardivo, pieno riconoscimento dell’importanza del naïf, se sembra poter risolvere alcune difficoltà della precedente riflessione di Brecht sul teatro e l’arte, ne apre, al contempo, un’altra particolarmente spinosa: come era possibile pretendere, senza cadere in una paralizzante aporia, che il nuovo dramma potesse esprimere contemporaneamente la duplice esigenza di rappresentare dialetticamente la processualità e la contraddittorietà del reale, salvaguardando, allo stesso tempo, l’assoluta necessità di garantire un adeguato godimento estetico allo spettatore?
A proposito di questo duplice e, apparentemente, contraddittorio aspetto, al quale negli ultimi anni Brecht dava sempre di più rilevanza, si consideri questa tarda annotazione: “Francoforte rappresenta l’Anima buona del Sezuan. […] Mi ci sono fermato 4 giorni per conferire allo spettacolo chiarezza e leggerezza” [8].
Tanto più che, in questi stessi ultimi anni, Brecht non ha lesinato nessuno sforzo per mostrare che la dialettica poteva essere considerata lo strumento più appropriato a salvaguardare il valore veritativo dell’arte moderna solo in quanto offriva l’opportunità di rappresentare un avvenimento nella maniera più viva, vivace e piacevole possibile [9]. La dialettica, in altri termini, poteva divenire in pianta stabile l’elemento centrale del nuovo dramma solo assumendosi, al contempo, il delicato compito di mediare il valore conoscitivo che non può mancare alla vera opera d’arte con l’immediatezza del godimento estetico, che deve in ogni caso garantire. Dunque, un teatro realmente dialettico deve divenire in grado di trasmettere al proprio pubblico una conoscenza critica della realtà storica e sociale nel modo più bello e avvincente possibile. Il godimento estetico, al quale non può in alcun modo rinunciare anche l’arte più rivoluzionaria, può essere garantito dal perfetto compenetrarsi del contenuto più avanzato dal punto di vista didattico, con la forma più dinamica ed emozionante. Dunque, il procedimento dialettico nel teatro secondo Brecht non poteva avere nulla da spartire con le pesanti elucubrazioni dell’intelletto, con l’ideologia nel senso deteriore del termine, ma deve tenere insieme l’elemento razionale con l’elemento passionale. In fin dei conti, come ricordava ancora Wekwert, “per Brecht dialettizzare era una questione di sentimento [Gefühlssache]” [10], cioè un qualcosa di realmente appassionante.
Note:
[1] Su tale questione, per limitarci alla letteratura critica tradotta in italiano, confronta Esslin, M., Brecht. A Choice of Evils. A Critical Study of the Man and his Work, Eyre and Spottiswoode, London 1959, tr. it. di D’Anna, Id., Bertolt Brecht, Dalla Volpe, Milano 1966, pp. 105-06.
[2] Wekwerth, M., “Auffinden einer ästhetischen Kategorie”, in Sinn und Form, Zweites Sonderheft Bertolt Brecht, Berlin 1957, p. 260 ss., in seguito anche in Schriften. Arbeit mit Brecht, Henschel, Berlin-Ost 1973, pp. 67-76 e, in particolare, p. 72.
[3] Schöttker, D., Bertolt Brechts Ästhetik des Naiven, J. B. Metzler Verlagsbuchhandlung, Stuttgart 1989.
[4] Ivi, p. 28.
[5] Cfr. Brecht, B., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di Castellani, E., Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 237.
[6] Id., Arbeitsjournal, a cura di Hecht, W., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973, 2 voll., annotazione del 3/1/1948, tr. it. di Zagari, B., id., Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, p. 886.
[7] Ivi, annotazione del 10/6/1950, p. 1007.
[8] Ivi, annotazione del 16/11/1952, p. 1070.
[9] Cfr., a tal proposito, Wekwerth, M., Schriften …, op. cit., p. 72.
[10] Ivi, p. 73.