Dímelo de nuevo:
“No calles la violencia”.
Escríbelo bien grande,
con letras en tinta lila:
“El silencio no nos protege”.
Hay que hacer el escrache.
Hay que señalar al agresor.
Hay que conmovernos hasta la médula
por esa mujer que ha sido rota.
Levantar las pancartas, hacer el grito.
¡Brava por la lucha, amiga feminista!
Dimmelo di nuovo:
“Non stare zitta di fronte alla violenza”
Scrivilo bello grande,
con lettere di colore viola:
“Il silenzio non ci protegge”.
Bisogna svergognarli in pubblico.
Bisogna segnalare l’aggressore.
Bisogna commuoverci fino al midollo
per quella donna che è stata rotta.
Alzare i cartelloni, far uscire le grida.
Brava per la tua lotta, amica femminista!
La poesia di Patricia Karina Vergara Sánchez nella traduzione di Silvia Favaretto restituisce bene lo stato d’animo con cui le donne di Non Una di Meno all’Assemblea di Bologna dello scorso 4 e 5 Febbraio si sono avvicendate nella discussione del tema “Narrazioni della violenza attraverso i media”, richiamando tutte all’urgenza di riappropriarsi della parola e delle parole con cui dire la violenza che le riguarda.
La riflessione e il dibattito si sono sviluppati all’interno dei 5 sotto-tavoli di lavoro, dedicati a “informazione”, “fiction”, “pubblicità”, “nuovi media”, “narrazioni artistiche”, con la presenza di tante professioniste e donne attive nella comunicazione: giornaliste, comunicatrici, artiste, ricercatrici, insegnanti, educatrici, operatrici antiviolenza e attiviste nelle associazioni.
La comunicazione tutta, analizzata in ottica transmediale – dagli articoli giornalistici alla pubblicità commerciale, dalle serie televisive alle canzoni e persino ai programmi televisivi dedicati alle donne che hanno ricevuto violenza – sono ostaggio quotidiano di un sostrato strutturale di rape culture – per usare un termine caro alla sociologia femminista – una “cultura solidale con lo stupro” che tollera, legittima, persino alimenta la violenza dell’uomo sulla donna. (https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_dello_stupro)
Se si analizzano le immagini pubblicitarie che campeggiano invasive sui cartelloni delle nostre città – definibili ormai come uno degli elementi dell’”inquinamento urbano”, sottoposto alla vista di tutti quotidianamente, adulti uomini e donne, giovani e bambini – la violenza di genere viene estetizzata ed anestetizzata: marche commerciali di prodotti come auto, borsette, abiti o crociere, ma perfino vernici e prodotti tecnologici utilizzano corpi femminili piegati alla violenza o privi di vita dai quali non traspare ed è dunque rimossa ogni traccia di dolore e sofferenza, i corpi appaiono in salute e belli, diventano oggetto di contemplazione, spesso nella forma di uno spettacolo erotico, destinato allo sguardo maschile eterosessuale. Come negare che l’an/estetizzazione contribuisca alla normalizzazione, accettabilità, persino desiderabilità sociale della violenza sulle donne?
Con una coerenza straordinaria di costruzione discorsiva il racconto della violenza sulle donne procede nei media con il punto di vista di chi la esercita: la violenza è contestualizzata e finisce per essere sublimata come parte del “mito fusionale” dell’uomo e della donna, dell’ideologia dell’amore romantico e passionale. Infatti l’uomo che agisce violenza viene rappresentato immancabilmente “innamorato” della sua vittima, e spesso il suo movente è la gelosia, considerata il vero termometro dell’amore, una passione naturale, e quindi incomprimibile, mentre essa esprime piuttosto un sentimento di “possesso minacciato” di un bene esclusivo acquisito per sempre.
A quasi cinquant’anni dall’introduzione del divorzio in Italia il gesto criminale di un uomo adulto che agisce violenza come conseguenza della sua incapacità di accettare la separazione dal suo “oggetto d’amore” viene raccontata dai media ancora come “dramma della gelosia”, con modalità che producono identificazione, empatia e assoluzione, con il risultato di deresponsabilizzare e legittimare l’autore della violenza, e di colpevolizzare la reale vittima della vicenda.
Assumendo come presupposto la bontà connaturata e intrinseca della relazione famigliare – nell’ottica del familismo caratteristica della società italiana come di quelle patriarcali in genere che “sacralizzano” la famiglia – anche i media fingono di dimenticare che le più frequenti e gravi violenze, gli abusi sessuali e i delitti su donne e bambini avvengono proprio dentro la famiglia.
Un'altra cornice mediatica per contestualizzare e narrare la violenza nella coppia è la dinamica della “relazione conflittuale” fra lui e lei, che giunge a farsi una ragione di una violenza letale come reazione a una discussione o alla divergenza di vedute nella coppia. Sottintendendo una gerarchia naturale di forze e di ragioni in gioco (quella maschile preordinata a prevalere su quella femminile) si sposta la responsabilità dall’aggressore all’ipotetica anomalia della dinamica di coppia – la donna che non rispetta la gerarchia, si permette di argomentare e dissentire – e di fatto si finisce per attribuire una corresponsabilità alla vittima: quanti “se l’è cercata” o ”ma perché non se n’è andata prima” abbiamo letto su Media e Social dopo una violenza o un femminicidio.
Nella carrellata di immagini pubblicitarie che abbiamo visionato a Bologna, la violenza di genere viene (an)estetizzata: dai corpi femminili privi di vita o sottoposti a violenza è rimossa ogni traccia di dolore e sofferenza, i corpi appaiono in salute e belli, diventano oggetto di contemplazione, spesso nella forma di spettacolo erotico, destinato ad uno sguardo maschile eterosessuale (benché si usi questa tecnica per promuovere generi commerciali destinati a un pubblico femminile, come l’abbigliamento). L’(an)estetizzazione contribuisce ovviamente alla normalizzazione, accettabilità, persino desiderabilità sociale della violenza sulle donne.
Da qualche tempo i media e le giornaliste in particolare si mobilitano per adeguando il lessico, ma non ancora l’interpretazione dei fatti, e se l’impiego del termine femminicidio è certamente aumentato da 4 articoli nel 2006 a 5000 articoli nel 2013, il modo di affrontare e descrivere il fenomeno rimane sostanzialmente ancorato alla percezione della violenza come questione puramente privata e individuale.
Anche nelle campagne di comunicazione sociale resistono stereotipi di genere, quali la vittimizzazione della donna, protagonista solo al negativo, intanto in quanto passiva, inerme e priva di autodeterminazione mentre la donna che reagisce diventa “un’eroina eccezionale”, un caso straordinario; oppure l’ irrapresentabilità del maschio violento, che resta assente, un’ombra oscura sullo sfondo, un fantasma malato o un “mostro”, permanentemente rimosso dalla consapevolezza sociale collettiva.
A Bologna le donne hanno invece ribadito la necessità di ripartire da se stesse per costruire altre narrazioni della violenza, e hanno passato in rassegna alcune buone pratiche ed esperienze positive sul terreno della produzione di immaginario, nate in campo educativo, ad esempio il video “Questo non è amore” e la campagna “Che cos’è l’amor”. Ancora è stato citato anche il lavoro educativo/comunicativo della campagna NoiNo.org sul maschile ragionando su come lavorare sulla rappresentazione del maschile.
Dalla discussione della due giorni al Tavolo Narrazioni della Violenza è emerso che i media e la società nel suo insieme devono fare uno sforzo per uscire dalle trappole narrative di un vecchio ordine discorsivo: è prioritario rifiutare il paradigma psico-patologizzante dell’uomo nevrotico e malato, e smetterla di collocare l’episodio violento in una cornice allarmistica ed emergenziale: non si tratta mai di un episodio imprevedibile ed isolato nel tempo perché nelle storie dei femminicidi gli antecedenti e i precedenti della violenza emergono sempre. E’ obbligatorio interrogarsi sull’eterno assente dal discorso: l’uomo, e chiedersi cosa ha da dare la parte maschile in tutto questo. Solo riammettendo il rimosso sociale del discorso potremo trovare gli strumenti per contrastare la microfisica della violenza che innerva le vite delle donne.