L’Italia è un paese denso di storie e di storia, ed è anche il paese delle sagre, delle feste tradizionali pagane o religiose, delle rievocazioni storiche e delle rappresentazioni che si svolgono in scenari autentici: i paesi di origine medioevale, le rovine e le antiche piazze quasi intatte.
Bisogna in qualche caso accertarsi che ci sia una tradizione autentica, perché molte in realtà sono state inventate ad hoc, per scopi turistici e non per amore della storia e della tradizione. I viaggiatori italiani e i turisti stranieri si spostano dalle sagre alle piazze, con semplice curiosità e a volte con vero interesse. Ci sono turisti stranieri o italiani emigrati che dicono di apprezzare molto tutto ciò, che, quasi mai, trovano nei loro paesi.
Quale sia il senso di tutto questo fare, rientra in un discorso di ricerca territoriale ‘identitaria’, un discorso sociologico complesso al quale mi riferisco solo per alcuni punti utili al ragionamento che intendo proporre, cioè la relazione tra localismi e globalizzazione, in questa fase in cui sembra contare solo ciò che può essere proposto e conta a livello globale. Ma un altro aspetto ritengo importante, cioè il fatto che queste ricerche compiute per divenire consapevoli di sé e della propria storia comunitaria, sono una forma di resistenza nei confronti dei processi da cui siamo presi e che non possiamo non tenere presenti.
“…nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. [Marx, Per la critica dell'economia politica, Ed. Riuniti, 1974, p. 5].
Quindi, al riproporsi la domanda sul significato di questi avvenimenti più o meno popolari (tipo: che senso ha tutto ciò in un mondo globalizzato, in cui bisogna sapere tutti l’inglese, conoscere e utilizzare la tecnologia, essere flessibili per saper fare qualsiasi lavoro e potersi spostare ovunque, senza avere legami e radici?) abbiamo già una risposta.
Prende forma il discorso sul valore che non è unicamente quello folklorico-turistico, fatto per passare il tempo che dura una vacanza o un momento di svago. Anzi spesso non lo è per niente, proprio perché c’è una storia con delle tradizioni che vengono riprese e ricordate. Non solo, gran parte di queste feste tradizionali e delle manifestazioni, sono preparate con cura e attenzione da persone che sono raccolte in gruppi che hanno una vita sociale e delle attività che consentono una grande condivisione di spazio e di tempo delle loro vite. E penso che le relazioni siano una delle parti più importanti del senso della Vita. Della questione identitaria, vorrei prendere solo l’aspetto che riguarda la sua importanza per la formazione della personalità. Ci sono studi di medicina e psicologia transculturale che mettono in luce proprio quanto la mancanza di legami con le proprie radici socio-culturali, fondamenta e mattoni della costruzione dell’identità, sia la causa di depressione, psicosi e altre forme di comportamenti non equilibrati. Ne abbiamo conoscenza per quanto riguarda i fenomeni del disagio che portano a scelte estreme. Certo, si cresce evolvendosi, ma la maturazione avviene quando non si siano perse o camuffate o recise parti di sé fondamentali. Dalle radici alle fronde ai fiori…
Senza un’identità che, come in una tavola in bassorilievo, sia messa in evidenza, proprio dai suoi rilievi e dai suoi tratti di confine, come può esserci dialogo e scambio? Ci sarebbe una sorta di dispersione in più direzioni di un sé che non trova forma. Cosa che può valere a livello individuale ma anche nelle luci e ombre nel campo sociale della comunità. Non si tratta di costruire frontiere, anzi di rendere possibili comunicazione e interconnessioni.
Per chiarire il ruolo della Storia, mi ispiro a Nietzsche, perché trovo la sua Seconda inattuale illuminante per il contesto di questo discorso. In “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”,divide la storia in tre tipi di approccio: Monumentale, Antiquario e Critico. Solo con l’ultimo degli approcci si sarà in grado di non farsi bloccare o soffocare dalla storia, ma si sarà in grado di comprendere e progredire.
Per arrivare a “La terra dei Briganti, festival della cultura meridionale, di San Severino”, che ha proposto in cartellone alcuni interessanti appuntamenti per parlare di emigrazione e di Sud.
Il monologo creato dall’attrice Egidia Bruno, è stato un pezzo di teatro forte e commovente, denso di storia e di citazioni di avvenimenti particolari, dal processo dell’unificazione italiana all’attualità. L’intervista a Saverio De Marco, autore di “La strada per la città”, (che allego) già recensito su lcf, presentato a Roma presso Assaggi a giugno, ci narra non solo la sua storia, ma l’attualità dei giovani, lo spaesamento della metropoli, il legame che esiste con il sentire di un Sud che non si sente del tutto riconosciuto e che invece avrebbe molto da dare e anche da fare per riprendersi il suo posto.
Lo spettacolo costruito dalla comunità locale è stata un’esperienza coinvolgente e divertente, ma che fa riflettere e che parla a tutti, girando per le strade, cantando canti tradizionali e raccontando storie vissute da un gruppo di famiglie emigranti che devono prendere la nave. La partecipazione è molto sentita. Infine la riflessione di uno degli organizzatori, Serafino Ciminelli della Pro loco, di cui riporto alcune parti dell’intervento, proprio perché c’è una grande consapevolezza, un grande impegno e la volontà di valorizzare ciò che è storia e che ha anche valore di Bene comune, proprio perché, in senso nietzschiano, non ci si assopisca sulla rassegnazione di una condizione soffocante data per unica possibile, ma si agisca nella direzione che sia quella di uno sviluppo vero, autentico e consapevole.
“Il festival sul brigantaggio nasce a San Severino dall'esigenza di mettere a conoscenza soprattutto dei popoli meridionali quella che è la storia del nostro territorio, storia che viene spesso volutamente alterata o occultata...) D'altronde è scomodo per tutti ricordare che il meridione è stato venduto alle organizzazione criminali per favorire la marcia garibaldina e la caduta dei Borboni.”
(…Ci sono molti pregiudizi nei confronti dei meridionali, questo è diventato un modo di pensare stereotipato, dimenticando che sono solo meridionali quelli morti combattendo la mafia.)
“Il vero riscatto del meridione passa dalla presa di coscienza di quella che è la storia del nostro territorio, la storia dello stato più ricco, antico, pacifico e tecnologicamente evoluto di tutta la penisola italica. Nel 1860 il potere di acquisto di un Borbone era 60 volte superiore a quello di un Sabaudo, a oggi non esiste un divario così ampio tra nessun stato. Nel 1860 il Regno delle due Sicilie è stato semplicemente vittima di una congiura ordita dall'alta finanza. Il contesto internazionale nel 1860 è chiaro: si sta preparando la II rivoluzione industriale e i francesi devono rientrare dei crediti che avanzano dai Savoia mentre per i britannici è fondamentale smantellare i cantieri navali di Napoli (che dominano il Mediterraneo) visto che erano iniziati i lavori per l'apertura del canale di Suez che avrebbe reso il Mediterraneo uno dei mari commercialmente più importanti.”
“Il prezzo che il Sud ha pagato e paga all'Italia unità è immane: pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della tragedia di Marcinelle dove persero la vita oltre 250 minatori, 130 italiani di cui 100 meridionali. Si chiamava patto uomo-carbone e prevedeva che per ogni minatore mandato in Belgio (in condizioni disumane) l'Italia riceveva in cambio 200 kg al giorno di carbone, essenziale per alimentare le industrie del triangolo Milano-Torino-Genova. Soldi, sangue e cultura: questo il prezzo che il Sud paga da oltre 150 anni. Se dalle tragedie si può imparare qualcosa allora noi meridionali abbiamo il dovere di comprendere il dramma dell'emigrazione e capire che essere stati trattati come gli animali (es Marcinelle dove i figli dei minatori non potevano manco sedersi ai banchi di scuola ma dovevano seguire le lezioni in piedi) non ci autorizza a fare la stessa cosa bensì ci impone di attuare giorno per giorno i valori dell'accoglienza.”
“La strada per la città”: intervista all’autore di Elisabetta Ciminelli
L’11 agosto, nell’ambito della prima serata del Festival della Cultura Meridionale a San Severino Lucano è stato presentato, dopo la pièce teatrale di Egidia Bruno, il libro di Saverio De Marco, “La strada per la città”. Qui di seguito si riporta l’intervista rilasciata dall’autore a Elisabetta Ciminelli nel corso della presentazione.
Luciano, dal protagonista del tuo fumetto è diventato il protagonista de “La strada per la città”. Cosa ti ha portato dopo tanti anni a dare forma narrativa al tuo personaggio?
Prima di rispondere voglio ringraziare la Pro Loco di San Severino Lucano e in particolare te e Francesco Ciminelli, per avermi dato la possibilità di presentare il mio libro nella cornice del Festival della Cultura Meridionale.
Luciano, è vero, è anche il nome del protagonista del fumetto che pubblicai anni fa: “Le avventure di Luciano lo studente lucano”, in collaborazione con Nicozazo, edito da “Kalura”. Negli ultimi anni ho un po’ abbandonato il fumetto dedicandomi alla narrativa. Nel fumetto il personaggio è più di fantasia e rappresenta un po’ (forse inconsciamente) lo studente che avrei voluto essere. Il libro è più realistico e qui Luciano rappresenta in qualche modo il mio alter-ego. Ciò che accomuna sia il fumetto che il libro è uno stile ironico. Con riguardo al fumetto si può però parlare di vera e propria satira. I racconti sono stati scritti comunque in periodi diversi, per poi essere rivisti e raccolti in questo libro. A un certo punto ho deciso di pubblicarli, incoraggiato anche da amici come Luciano Pulerà, che ha presentato il libro a Roma e Antonio Vitale, che è anche l’autore della foto di copertina.
In un passo del tuo libro leggiamo: “Eccolo, uno studente di Scienze della Comunicazione, storia contemporanea, attivista politico, ambientalista, tipo creativo, famiglia del sud, onesta e lavoratrice e contadina, a 500 chilometri di distanza, che non sa dove sia, né se ha dormito a casa… anzi, non lo sa nessuno; eccolo, da solo se ne esce dall’ospedale, a smaltire una grande sbornia, liquidato come un qualsiasi barbone trovato ubriaco per strada… e trattato come tale”. Qui sottolinei i chilometri di distanza che separano Luciano, ma anche uno studente fuorisede qualunque. La solitudine in un’avventura in ospedale, quando i familiari lo credono tranquillamente a casa. E poi scrivi anche: “Dopo mesi trascorsi in città, quando si approssimava il ritorno a casa per le vacanze di Pasqua cominciava a sognare le montagne… A volte svegliava il compagno di stanza nella notte, perché sognava di scivolare da una cima ghiacciata cadendo nel vuoto… Certe notti ululava. “Quando cominci ad ululare di notte è segno che vuoi tornare a casa” gli diceva Francesco, il compagno di stanza”. Il riferimento alla famiglia e alla terra lontana è sempre presente nelle tue parole, attraverso le avventure di Luciano. Cosa puoi dirci della tua avventura di studente sradicato dalla sua famiglia e dalla sua terra?
Avevo molti amici e l’esperienza universitaria è stata positiva. Fu un periodo di socialità e partecipazione. Aggiungo che a tenere uniti i fili narrativi di questi racconti sono i legami di amicizia tra studenti con la medesima origine e condizione sociale. Non frequentavo all’epoca solo la cerchia ristretta dei fuorisede, ma ho conosciuto molte persone, di Roma e di altre regioni. Il protagonista principale del libro è uno studente “integrato”, nel senso che si è aperto alla dimensione della metropoli, partecipa alla vita sociale capitolina, fa politica nel movimento studentesco e antifascista.
Vive però anche il disagio di un fuorisede proveniente da una famiglia non benestante: stanze doppie e appartamenti sgangherati nei quartieri popolari, i lavoretti infimi per guadagnare qualche soldo, il disagio di trovarsi a tanti chilometri di distanza da casa, come dici tu. Dopo 3 mesi Luciano comincia a non sopportare più il caos metropolitano, è insofferente e vuole tornare al paese d’origine. Nel libro è descritto proprio questo legame istintivo e profondo con la terra d’origine. Per esprimere questo sentimento si può ricorrere a un concetto espresso dal filosofo tedesco Martin Heidegger, l’Heimat, il quale non si riferisce alla Patria intesa come “sangue e suolo”, ma alla piccola comunità, al luogo in cui si è nati e cresciuti o in cui ci si sente a casa. È un concetto che possono ben capire appunto quelli come noi che provengono da un piccolo paese circondato dalle montagne.
Nelle giornate di Luciano intervengono spesso Antonio, Dario, Tonino, tutti studenti del Sud. Sembra quasi che si formi cerchia ristretta tra studenti fuorisede. Ed è un po’ quello che penso che tu abbia vissuto. E nei tuoi racconti ho intravisto anche la mia esperienza e quella di altri come noi che si sono allontanati dalle loro case per studiare. A questo punto mi chiedo, e ti chiedo, perché ce ne andiamo a studiare fuori quando abbiamo università vicino casa che ci permetterebbero di tornare più spesso e di vivere di più la nostra amata terra?
Penso che si andava a studiare nelle Università del centro-nord, non solo perché si era costretti, ma per vivere e confrontarsi con realtà diverse. Almeno per me, se ho scelto Roma è però anche per motivi pratici, perché là avevo amici e conoscenti del mio paese, che mi hanno supportato nel salto dal piccolo paese alla metropoli. Devo dire in proposito che preferisco le realtà “estreme” (o metropoli o paesino appunto!). Anche se ci ho vissuto per pochi mesi, non ho mai trovato appagante la vita della piccola città di provincia… per fare un esempio.
L’aggressione dei fascisti, la Casa dello Studente, il vino e l’olio di giù, i lavoretti in nero, la solidarietà di classe, l’amico “intrallazziero”. Quanto c’è di autobiografico in tutti questi pezzi di vita di vita quotidiana di Luciano?
Si può dire che il libro è in gran parte autobiografico, e quindi ciò che si racconta è praticamente quasi tutto vero. Mi sono basato soprattutto su aneddoti che mi riguardano personalmente ma anche su esperienze di amici. In base alle necessità narrative comunque, mescolo aneddoti che riguardano periodi diversi e li assemblo per dare corpo ai racconti.
Nel penultimo racconto, “La natura selvaggia è meglio della droga” scrivi: “Passarono vicino ad un pino bruciato anni prima da qualcuno. “Questo era spettacolare, aveva delle radici magnifiche. Ho una vecchia diapositiva dove ci sono io che vi sto appoggiato” dice Luciano, e continua: “Ma tutto scorre, per la natura questo è niente, nei millenni a venire si riprenderà il mal tolto.” L’ottimismo o la consolazione del nostro protagonista è fondata sulla fiducia verso la natura. Il discorso si fa un po’ diverso se pensiamo all’essere umano. Luciano cosa direbbe di un Sud che ancora non si è pienamente riscattato dal mal tolto? Riesci ad essere altrettanto positivo e fiducioso?
Il discorso è ovviamente complesso. Si può citare Gramsci che parlava di “Pessimismo della Ragione e Ottimismo della Volontà”. La realtà del Meridione è difficile, inutile nasconderlo… e sbagliato sarebbe distorcerla in base ai nostri desideri. Prima hai citato il passo del libro in cui si parla del pino loricato bruciato. Ecco, quando succedono queste cose subentrano amarezza e disillusione. Ciò che si può fare è andare avanti, partecipare, coinvolgere i giovani. Non bisogna far andare via i giovani capaci, ma per raggiungere questo risultato bisogna dargli delle opportunità. Ci sono tante “risorse umane” nei nostri paesi. Anche quest’estate abbiamo avuto un esempio lungimirante di ragazzi che vivono qui o sono tornati per le vacanze che hanno collaborato ad organizzare eventi e manifestazioni come questa, tra l’altro di un notevole spessore culturale.
Un’ultima curiosità: la “strada per la città” è una strada di sola andata?
“La strada per la città” non è di sola andata, perché i fuorisede possono sempre tornare al paese di origine. In qualche modo tuttavia oggi tutti noi subiamo gli effetti dello sradicamento, che caratterizza la società moderna, come osservava sempre Heidegger, citato in precedenza. Siamo in una fase caratterizzata dalla precarietà, in tutte le sue accezioni. Esistono tante strade, l’importante è che la strada che porta ai luoghi di origine sia sempre presente nel nostro cuore, anche quando le circostanze della vita ci portano lontani da essi…