Sono in quattro e la fanno da padroni nelle nostre vite, usufruendo di quella vita virtuale, ormai parallela alla reale. Chi glielo permette? Noi, noi stessi. Come? Navigando in rete e accedendo ai servizi che illusoriamente ci offrono. E la nostra vita viene clonata, solo che tutto ciò non ci viene estorto. Ѐ la nostra volontà a decidere di cedere informazioni personali. Forniamo informazioni di ogni tipo. Scheda anagrafica, curriculum, relazioni sentimentali, appartenenze politiche, associazioni, emozioni, pensieri azioni, scelte di mercato, abitudini quotidiane, antipatie, simpatie, empatie…e così via. Troppo facile essere schedati, o meglio profilati. E questi profili sono la manna per chi li gestisce in un database, selezionando e aggregando i dati. Il risultato è la nostra vita clonata. Ma chi è l’utilizzatore finale? Ѐ il capitalismo, noi forniamo dati che si trasformano in merce per i tycoon di mega aziende, tutte made in Usa. Come fanno? Monitorano ì nostri dati che noi abbiamo ceduto loro, mentre nell’oppio dello schermo che ci fissa pensiamo di vivere una condizione di privacy che in realtà perdiamo ad ogni post , ad ogni click, ad ogni commento che rilasciamo su Facebook.
Ѐ un paradosso e l’astruso ulteriore è che sembra proprio impossibile arrestarne il processo, tanto ci siamo infilati in full immersion nella dimensione digitale. Se ci pensiamo siamo in un loop. Come uscirne? Intanto ci si può riflettere su e si può mettere in moto il pensiero critico su questo fenomeno che ha doppiato la nostra realtà. Non cederemmo la nostra vita ad un misterioso signor x che si affacci improvvisamente alla nostra porta o ad un tavolino di un bar, o mentre facciamo la spesa e ci chieda, così d’emblèe, se apparteniamo a questo o a quel partito. Né gli confideremmo le nostre emozioni, i sogni, né gli affideremmo la foto dei nostri figli o di nostra madre. In rete tutto ciò lo facciamo, consapevoli (?) che siamo esposti in una vetrina planetaria e stiamo dando precise informazioni a tanti signor X che si stropicciano le mani ad ogni dato che forniamo volontariamente, ma inconsapevoli degli utilizzi.
Qualcosa nella nostra mente si è stravolto, mutando radicalmente la visione della realtà. Abbiamo volutamente perso la privacy, ma in cambio di cosa? Quali benefici ne riceviamo? Ci basta essere gratificati dai like che ci appaiono come il segno che non siamo invisibili e che qualcuno finalmente ci riconosce come validi, autorevoli e ci fa sentire finalmente importanti. Sembra che sia così. Se poi i click sono tanti e i commenti esprimono apprezzamento per la foto della happy family al ristorante, o quella della laurea di nostro figlio, o in viaggio con amici, avvertiamo un moto di autostima che ci fa fare quasi un balzo, un sussulto di emozione. Ma ci sentiamo davvero così soli e disconosciuti nella vita reale, da sentire necessità dei like in rete? Ci appare davvero così insoddisfacente la nostra vita reale da non voler scegliere un tempo e uno spazio diverso da quello della rete per appagare le nostre esigenze di relazione?
Il lungo preambolo forse ci può far riflettere sul perché abbiamo abboccato all’amo della rete e ci siamo infilati in un inestricabile groviglio. Forse il tiro possiamo ancora correggerlo e dirottare la nostra quotidianità verso un tempo e uno spazio reali. Ѐ fondamentale, soprattutto, conoscere nel dettaglio l’opera sottile e infida di chi detiene le fila del potere online e monitora le nostre vite attimo per attimo, grazie ai dati che spontaneamente forniamo e che vengono istantaneamente trasformati in profitto per i quattro padroni della rete con sede centrale nella Silicon Valley: Google, Amazon, Facebook e Apple. Ѐ notizia di questi giorni ed è al clamore delle cronache, il caso Facebook e “Cambridge Analytica”.
Il caso
I frequentatori assidui della rete sono spesso intrigati da link che annunciano esperienze indimenticabili di viaggi in offerta, di promozioni per il fitness o quiz rompicapo e analisi delle personalità. E capita di accedere alla app che promuove l’offerta. Si fa il login e ci si trova ad accettare le condizioni e a cedere dati anagrafici e preferenze. Da qui piovono spam e phishing a palate verso chi per curiosità si è infilato nei meandri della app. Spesso il servizio è a pagamento e non sempre l’utente ne è consapevole. Succede milioni di volte al giorno, così come milioni sono i frequentatori della rete.
Il caso Cambridge Analytica occupa in questi giorni le prime pagine della stampa mondiale, nonché lo spazio delle tv mondiali, meno in quelle italiane, occupate dai rebus per la formazione del nuovo governo. La notizia si riferisce a quanto l’agenzia ha imbastito nella rete con una app mirata a raccogliere dati di milioni di iscritti. Dati trasformati in messaggi politici da inviare agli utenti, diversificandoli a secondo delle esigenze già espresse dall’utente stesso. Ma a questo ci ha pensato l’abile Robert Mercer, fondatore della Cambridge Analytica e sostenitore di Trump, e il suo staff.
La finalità non è la scoperta dell’acqua calda, ovvero gli scopi commerciali, ma si tratta qui di ben altro. I dati degli utenti del network Fb sarebbero stati canalizzati e strumentalizzati per sostenere la vittoria di Trump, durante la campagna elettorale delle presidenziali del 2016, ma avrebbero contribuito anche ai risultati del referendum sulla Brexit. E sembra proprio che questo sia stato il percorso che ha dato luogo alla Brexit e alla vittoria di Trump. In mezzo ci sono milioni di dollari che hanno potenziato i sistemi e assicurato i risultati. “Il vaso si scopre” quando Christopher Wilye, ex dipendente dell’agenzia, rivela la violazione della privacy di milioni di utenti, con l’utilizzo della app “thiisyoudigitalllife” e denuncia che la app è stata illegalmente utilizzata per scopi politici dalla Cambridge Analytica.
Il raggiro
Per supportare Trump nella corsa alle presidenziali, l’agenzia, dopo aver raccolto i dati degli utenti, inviava loro messaggi mirati. Ad esempio, chi denunciava nel suo profilo Fb disagi nell’attività lavorativa visualizzava il banner di propaganda “Aumenterò l’occupazione e favorirò le imprese”. Chi invece mostrava insofferenza e paura per gli attacchi terroristici si trovava “Cacceremo gli immigrati che arrivano da Paesi nemici”. Utilizzando gli slogan che Trump ha adottato in campagna elettorale. Un tiro al bersaglio mirato per modificare le opinioni degli elettori sui candidati in corsa, in questo caso a favore di Trump. Un’ingiunzione sottile, ma neanche tanto. Fili abilmente mossi da Robert Mercer.
Le responsabilità di Zuckerberg
L’ad di Facebook, il giovane Marck Zuckerberg, creatore del network più accreditato, fa il vago sulla questione e chiede scusa. Dice di non sapere e di non aver concesso questa libertà all’app di Analytica e che, comunque, agli utenti è data la facoltà di scegliere se fornire i dati personali o meno. Ma è dichiarazione pleonastica, poiché tutti gli utenti, a prescindere da ogni app che circola su Fb per accalappiare informazioni, sono già automaticamente profilati per indagini di mercati e i dati sono la merce di molte aziende che ne fanno profitto. Intanto Mark, per mostrare la sua estraneità alla finalità dell’agenzia, chiude l’accesso ad Analytica, ma dovrà rispondere dei fatti entro 15 giorni alla sottocommissione della Camera per l’energia e il commercio e alla sottocommissione Giustizia del Senato e della Camera. Il sospetto sulla responsabilità di Zuckerberg resta, in quanto il personale dipendente che ruota intorno al sistema Facebook ottimizza l’opera di raccolta dati e li mette a disposizione dei clienti/inserzionisti che per averli versano quote di denaro. Pertanto quanto è innocente Zuckerberg sulla questione dell’Analytica? Fino a che punto ne è coinvolto, se ha favorito, in qualche modo, la raccolta dati di 50 milioni di utenti? Perché non ha chiuso prima l’accesso a quella app?
I 4 Tycoon della rete
La strumentalizzazione a fini politici dei dati che gli inconsapevoli utenti hanno fornito alla app di Cambridge Analityca induce ancor più a riflettere su quanto la nostra privacy in rete sia compromessa e la volontà di scegliere sia fortemente condizionata anche dall’uso strategico delle app. Come si è già detto si corre il rischio, navigando in full immersion, di sdoppiare la nostra esistenza e di confondere il tempo e lo spazio virtuali con la vita reale e di trasformarci in merce cedendo i nostri dati personali, affinché i database possano poi trasformarle in informazioni utili per l’andamento dei mercati. Sono le quattro aziende più influenti del mondo a determinare l’economia mondiale e ad incrementarne i flussi. Le ragioni del loro potere, ma anche del successo, visti i milioni di utenti convinti di utilizzare a loro vantaggio i servizi online, mentre in realtà vengono essi stessi utilizzati, dovrebbero produrre curiosità e far scaturire domande basilari.
Come hanno fatto queste aziende a entrare nella nostra vita, nel nostro privato ed appropriarsene, sforando il muro della privacy e gestendo i nostri dati a loro uso e consumo? E perché nonostante i vari errori gestionali che avrebbero fatto fallire qualsiasi altra impresa sono sempre più in auge sui mercati mondiali? E a quali strategie ricorrono per sfruttare il capitale umano in rete? Ne parliamo nel prossimo numero, iniziando ad analizzare le strategie di Facebook, forse l’azienda di maggior successo nella storia dell’umanità, perché in fondo tutto quello che desideriamo lo troviamo lì. Facebook però è solo l’imbuto per altre aziende. Ci fa vedere cosadesideriamo, lasciando a Google come possiamo averlo, mentre Amazon ci dice che possiamo possederlo e quando. Per questo, una volta entrati nel loop della rete e constatandone gli illusori benefici, sarà difficile uscirne. In ogni caso, pur uscendo definitivamente dal sistema, lasciamo lì per sempre le tracce indelebili del nostro passaggio.
(Continua sul prossimo numero)
Fonti:
1. S. Galloway, The four- I padroni, Hoepli, 2018.
2. Facebook e il caso Cambridge Analytica, spiegato bene - Panorama
3. Cambridge Analytica, Ue a Facebook: “Chiarimenti entro 15 giorni” - Il Fatto quotidiano