Nella implacabile critica di Karl Marx all’uso sofistico delle categorie da parte delle classi dirigenti, allo scopo di naturalizzare le determinazioni storiche del loro domino, trova posto anche l’analisi dei diritti umani [1]. In tale prospettiva la posizione di Marx appare scontatamente liquidatoria: ogni classe ha bisogno d’ammantare la propria volontà di potere d’una veste universalista e, dunque, “solo a nome dei diritti generali della società una classe particolare può rivendicare per sé il dominio generale” [2]. Tanto più che i diritti umani hanno rappresentano uno strumento utile alla borghesia nella sua lotta per la conquista del potere e per il suo consolidamento e tutta la riflessione marxiana, o quasi, è dedicata a porre in luce le contraddizioni di tale dominio e dell’ideologia che lo sostiene. Tuttavia, a uno sguardo più attento, la riflessione su tale problematica, in quanto espressione teorica del domino borghese, è indissolubilmente connessa al giudizio storico formulato da Marx su Stato e società borghese. Tanto esso appare complesso, quanto complessa si presenta la riflessione sui diritti umani.
Netta, come sottolinea Bernard Bourgeois, è la distinzione fra la concezione dei diritti dell’uomo di Immanuel Kant e Johann Gottlieb Fichte, rispetto a quella successivamente elaborata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Marx: “un grande divario oppone alle teorie che fanno dell’affermazione teorica dei diritti delle persone il principio dell’edificazione e organizzazione volontarista della loro comunità, quelle che fanno dello sviluppo storico della nazione, dello Stato o della società, il garante della realizzazione pratica di tali diritti” [3]. Nel primo caso abbiamo, dunque, la concezione ancora liberal-democratica secondo cui “la consacrazione, mediante lo Stato, dell’agire di individui che non riconoscono come appartenente allo Stato la loro particolarità, non riconoscendovi che dei puri cittadini uguali, si esprime mediante dei diritti, i diritti dell’uomo che fondano lo Stato come Stato legale, ovvero l’Io elevato a legge” [4]. Da questo punto di vista, come osserva a ragione Eustache Kouvélakis “i diritti sociali (o diritti-credito secondo la terminologia liberale) hanno solo un ruolo subalterno, con il pretesto che la loro messa in discussione, che (…)neppure la Thatcher e Reagan avrebbero operato «in via di principio», non equivale a una soppressione della democrazia e non ha perciò carattere irreversibile (contrariamente alla soppressione delle libertà negative)” [5].
Al contrario il giovane Marx muove dal dualismo intrinseco allo statuto dei diritti umani, che ne lede l’universalismo, in quanto risultano sdoppiati – sin dalla prima Dichiarazione – in diritti de l’homme e du citoyen [6]. Ma c’è poco da stupirsi, tale dualismo riproduce il dualismo, la scissione caratteristica dell’età moderna fra società civile e Stato, evidenziata già da Hegel.
Perciò “i diritti dell’uomo sono i diritti dell’individuo egoista, mentre i diritti del cittadino sono i diritti dell’individuo che si apre a una preoccupazione di carattere universale” [7]. Dunque, i diritti del cittadino sono “politici, diritti che vengono esercitati solo nella comunità con altri. La partecipazione alla comunità, cioè alla comunità politica, alla statualità costituisce il loro contenuto” [8]. Si tratta, dunque, di diritti che scaturiscono dalla partecipazione alla comunità politica e alla formazione della volontà generale. Sono il prodotto della conseguita emancipazione politica dell’uomo dalla gabbia gerarchica in cui era costretto nel feudalesimo. Da essi si differenziano, anzi vi si oppongono, dal momento che si definiscono solo per contrasto, i diritti dell’uomo in quanto tale, prodotti dell’emancipazione dell’individuo dai vincoli socio-politici del Medioevo. Perciò, i diritti dell’uomo in senso stretto sono costituiti da tutte quelle libertà, garantite dalla legge, che attengono alla vita dell’individuo come privato. A parere di Kouvélakis “in primo luogo Marx si lascia obnubilare dall’ideologia del testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, prendendo in certo modo per oro colato questa immagine, vera solo in parte, di un individuo sovrano, proprietario, che trova nell’enunciato dei diritti dell’uomo la finzione che corrisponde alla separazione fra il suo stato sociale atomizzato e la comunità ideale dei cittadini rappresentata dallo Stato” [9].
Il dualismo fra diritti dell’uomo e del cittadino è ben chiarita da Umberto Cerroni: “gli individui naturalmente indipendenti, portatori di propri imprescrittibili valori (diritti), entrano volontariamente nella società: l’associazione politica pertanto è una costruzione storica, umana, che ha come piattaforma la volontà degli uomini in quanto decidono di costituirsi in popolo. Con ciò stesso la figura dell’individuo resta scissa in due: egli infatti, in quanto naturalmente indipendente dalla società, si caratterizza come un dato originario – l’Uomo o la persona – munito di un patrimonio di attributi che sovrastano la società; in quanto uomo decide di entrare in società, in quanto stipulatore del patto sociale, diviene invece cittadino” [10]. In altri termini, per dirla ancora con Cerroni: “al dualismo religioso fra città di Dio e città terrena subentra il dualismo laico fra stato di natura e stato di civiltà” [11].
Tornando al giovane Marx, dal momento che l’esercizio del diritto di cittadinanza necessita della cooperazione sociale, interindividuale, esso entra necessariamente in conflitto con il fondamento individuale del diritto umano. Come è stato scritto, a ragione, a questo proposito: “i diritti del cittadino «non possono essere esercitati che in associazione con altri». Essi negano dunque direttamente con il loro esercizio i diritti dell’uomo come diritti della particolarità fissata in se stessa” [12]. Una volta messa in luce tale incresciosa contraddizione, del resto non nascosta dagli stessi estensori della dichiarazione, si tratta di stabilire, allora, quale diritto abbia la preminenza, ovvero se ad avere il sopravvento sia l’uomo politico, identificato e riconosciuto nella comunità statale, o l’uomo della società civile dominata, almeno sul piano ideologico, dalla differenza, un uomo che riconosce l’altra autocoscienza solo quale mezzo e limite alla propria libertà. Dal punto di vista liberale “da una parte si allinea il mondo della coscienza-natura e dei suoi valori supremi, dall’altra il mondo storico e mutevole dell’associazione del genere umano. Il primo è il punto di riferimento del secondo, il secondo è un’estrinsecazione necessaria del primo. Il primato dell’uno è inevitabilmente la subordinazione dell’altro, ma una subordinazione mediata dal bisogno naturale di associarsi, dall’appetitus societatis, dal «desiderio» del mondo sociale” [13]. Proprio al contrario, per la scuola giovane-hegeliana, da cui Marx proviene, l’opposizione è ricomposta in un’identità dell’identità – lo Stato politico – e della differenza – la società civile – in cui prevale appunto il momento dell’identità, dello Stato che riassume in sé la differenza sociale. Da parte sua Marx, seguendo Hegel, considera la società civile: “uno stato d’interdipendenza generalizzato, benché inconscio, strutturato dalla divisione del lavoro e il sistema dei bisogni, e che opera in maniera (precisamente) non cosciente, alle spalle degli agenti, per mezzo della mano invisibile del mercato” [14]. Non si tratta di un’illusione politica, ma di un’illusione reale della società civile colta nel movimento delle sue contraddizioni interne.
D’altra parte, sulla scia di Ludwig Feuerbach i giovani hegeliani, come Bruno Bauer, ritenevano che: “lo Stato politico, laico, ateo, democratico, realizza effettivamente il fondo umano che esprime idealmente (e cela, necessariamente) il cristianesimo, il postulato cristiano della sovranità di ogni uomo, in quanto la sua realtà (contingente, corrotta) è quella dell’individuo separato dal suo essere generico: «Il compimento dello Stato cristiano, è lo Stato che si proclama puro Stato e si disinteressa della religione dei suoi membri” [15]. Mentre per Marx l’alienazione dello Stato politico non si spiega sulla base dell’alienazione religiosa, ma è la prima che consente di rendere comprensibile la seconda, in quanto ne rappresenta l’origine. Dunque, in contrapposizione alle illusioni di Bauer, Marx ritiene che attraverso la critica dell’emancipazione politica dello Stato liberal-democratico si sarebbe risolta anche la questione dell’emancipazione dalla religione, in quanto sono entrambe il risultato di un’alienazione sul piano economico e sociale dell’essenza umana. In tal modo, si sarebbe potuto criticare non solo lo stato cristiano (prussiano), come faceva Bauer, ma lo Stato in generale, quindi anche lo Stato liberaldemocratico.
Perciò, non è vero che il giovane Marx, come vogliono i suoi critici borghesi, non si rendesse conto dell’aspetto progressivo che ha avuto la Dichiarazione dei diritti umani, in quanto in Su la questione ebraica “Marx si sofferma sui diritti dell’uomo solo nella misura in cui differiscono dai diritti del cittadino. E procede in questo modo perché il suo scopo è di rispondere a Bauer, che pensa che l’universalismo dei diritti dell’uomo equivale a un superamento della coscienza religiosa in quanto tale” [16].
Note:
[1] Ciò è indispensabile per comprendere la dura critica a tali diritti fatta in particolare dal giovane Marx, ma riscontrabile anche nel maturo.
[2] Karl Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione [1843], in Id., Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi, Torino 1975, p. 408.
[3] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 131.
[4] Ivi, p. 107.
[5] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, p. 56.
[6] L’analisi di Marx segue un doppio binario storico e concettuale, che tendono costantemente a intrecciarsi.
[7] Bernard Bourgeois, op. cit., p. 104.
[8] Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 191.
[9] Eustache Kouvélakis, op. cit., p. 50.
[10] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 242. “E – prosegue Cerroni – in pari tempo la nuova coscienza religiosa protestante, specie con Calvino, elabora la interiorizzazione della religione, premessa della separazione della Chiesa dallo Stato: nasce quella che Troeltsch ha chiamato «la doppia morale: morale dell’ufficio e morale della persona». Lo stesso autore ha ben sottolineato il contatto teorico che si stabilisce fra questa versione moderna dell’ascesi cristiana e la teoria kantiana della persona: la convergenza teorica, dunque, della nuova religiosità e della nuova coscienza teorica laica. Donde la possibilità di ricercare un fondamento comune oggettivo: quello che appunto Marx persegue nella sua analisi” (ibidem).
[11] Ivi, p. 241.
[12] Bernard Bourgeois, op. cit., p. 105.
[13] Umberto Cerroni, op. cit., p. 244.
[14] Eustache Kouvélakis, op. cit., p. 50.
[15] Bernard Bourgeois, op. cit., pp. 102-03.
[16] Eustache Kouvélakis, op. cit., p. 51.