Un Paese che importa dalla Francia una mostra, peraltro mediocre, sulla propria arte e cultura è un Paese che non può che meritarsi il suo attuale declino. Tanto più che la mostra esalta acriticamente un “carattere italiano” dell’arte e del design senza interrogarsi sul suo rapporto con la società del tempo, caratterizzata dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale e del Ventennio fascista.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
La mostra attualmente esposta al Palaexpò di Roma, “Una dolce vita? Dal liberty al design italiano 1900-1940”, è l’ennesima mostra di importazione, stavolta proveniente dalla Francia. La cosa è alquanto paradossale visto che le opere esposte sono tutte italiane, aspetto sottolineato anche dal pannello introduttivo alla mostra. Si esalta quindi il “carattere italiano” che ancora oggi contraddistinguerebbe il design, la moda e l’arte, ma si tace sul fatto che siamo costretti a importare la loro esposizione in modo del tutto acritico dall’estero, mantenendo persino le etichette con i titoli italiani delle opere tradotti in francese dai curatori d’oltralpe.
L’importazione acritica non è purtroppo una peculiarità unicamente della nostra triste epoca: anche gli artisti italiani del primo novecento avevano questa attitudine da epigoni e ciò è ben attestato nella prima sezione della mostra: La stagione del liberty. Le opere esposte appaiono delle brutte copie che ricalcano in modo esteriore i capolavori austriaci, ancora più che francesi, a cui si rifanno in modo pedissequo. L’unica opera realmente originale qui esposta è la locandina di Cabiria, film del 1914 sceneggiato da Gabriele D’Annunzio, opera comunque di dubbio gusto di Leopoldo Metlicovitz, cittadino dell’allora Impero asburgico.
Più originale, ma egualmente di dubbio gusto, è la seconda sala pomposamente intitolata la Ricostruzione futurista dell’universo, dove è possibile vedere accanto a opere pittoriche, peraltro quelle minori di grandi pittori futuristi come Balla e Boccioni, alcuni esempi del design futurista, a ragione meno noti. In essi emerge il limite principale del futurismo italiano, ovvero la sua esaltazione irrazionalistica della modernità; le opere esposte sono, infatti, decisamente lontane dal funzionalismo che caratterizza la reale innovazione del design dell’epoca. Ciò evidenzia, ancora una volta, la provincialità dell’ “intellighenzia” italiana e il carattere tradizionale dei suoi intellettuali, del tutto alieni al mondo della produzione e inguaribilmente malati di retorica. I futuristi sembrano brillare, nelle arti applicate, solo nella realizzazione di cartelli pubblicitari, ossia in qualcosa di decisamente poco produttivo.
Ancora più imbarazzante è la sala dedicata alla Metafisica, perché ci ricorda come il “carattere italiano” dell’arte e del design dell’epoca così conservatore, se non reazionario, abbia anticipato quel prodotto così tipicamente made in Italy ed esportato in tutto il mondo, rappresentato dal fascismo. In tali opere appare evidente lo spirito antimoderno e nemico giurato delle avanguardie dominante fra gli intellettuali tradizionali italiani del tempo, anche fra i maggiormente dotati come Alberto Savinio o Giò Ponti.
Il passaggio successivo, lungo questo percorso di progressiva distruzione della ragione, non può che essere il Ritorno al classicismo, che per l’intellettuale italiano tradizionale non può che significare il ritorno alla forma espressiva che gli è più connaturata, ossia il Secentismo programmatico, in cui eccellono in questa sala i Ponti e i Piacentini. Da qui all’arte programmaticamente fascista, il passo non può che essere breve, tanto da apparire in qualche modo “naturale”, “necessario” considerate le premesse. Non a caso, l’opera selezionata come copertina del catalogo della mostra è di Antonio Donghi, uno dei pittori che esprime nel modo più esemplare la brutale mancanza di gusto del fascismo.
Si procede così con la sala dedicata al Realismo magico, tipico esempio della natura antinomica dell’ideologia fascista, quale espressione della natura scissa della piccola borghesia: da un lato lavoratrice, dall’altro proprietaria e sfruttatrice. Da qui l’esigenza di tenere insieme, in modo contraddittorio, le prospettive di destra e di sinistra. Abbiamo così l’assurdità di un’arte che pretende di essere al contempo realista e il suo contrario: magica, fantastica. In altri termini, ci si trova di fronte a un’arte che pretende di rappresentare al contempo la realtà e l’evasione da essa. Ciò che ne viene fuori è un ibrido irrazionale, un vero e proprio scherzo di natura che ha come massimi rappresentanti Sironi e Donghi, per la pittura, e Arturo Martini, per la scultura.
La sala seguente, dedicata ad Astrazione e razionalismo, che dovrebbe rappresentare la parte più sana, razionale e moderna della produzione artistica del Ventennio, è invece la sala più deludente di una mostra tutto sommato mediocre. Del massimo esponente del razionalismo italiano del tempo, Giuseppe Terragni, sono esposte un paio di opere decisamente minori e il pezzo più significativo della sala è il Mobile radio di Franco Albini. Interessante osservare la produzione razionalista di Piacentini, il più famigerato artista di regime, per la sua pomposa retorica neoclassica. Anche in questo caso ci troviamo di fronte un valido esempio della natura camaleontica, opportunista, eclettica, trasformista del fascismo e del suo artista, capace di produrre negli stessi anni opere apertamente reazionarie e antimoderne e opere di gusto modernista.
Decisamente migliore è il secondo spazio espositivo dedicato ad astrazione e razionalismo dove è possibile ammirare i pezzi più significativi dell’esposizione, come ad esempio la notevole Lampada Bilia di Gió Ponti del 1931, talmente bella e funzionale da risultare non commercializzabile nella gretta Italia fascista, a ulteriore dimostrazione di come il capitalismo, nell’epoca della sua crisi, costituisca un oggettivo ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Notevole è la macchina da scrivere Olivetti MP1 di Aldo e Alberto Magnelli del 1932, testimonianza di una grande azienda creativa e di avanguardia italiana, andata anch’essa in seguito perduta per le dinamiche irrazionali di rapporti di produzione finalizzati a interessi sempre più privatistici che non possono che ostacolare forze produttive sempre più sociali. Interessanti anche i vasi di Carlo Scarpa realizzati alla vigilia della Seconda Guerra imperialistica mondiale. Decisamente meno significative, dinanzi a questi gemme di razionalismo che sono riuscite a germogliare, un po’ come le ginestre, anche nel clima asfittico dell’Italietta in camicia nera, sono le opere di pittura astratta, di natura meramente formalistica.
A questo punto, è possibile rispondere all’interrogativo con cui si apre la mostra, espresso sin dal titolo: Una dolce vita? Nell’arco temporale preso in considerazione (1910-1940) – che racchiude quasi interamente la terribile guerra inter-imperialista dei trent’anni, che doveva segnare il definitivo tramonto dell’egemonia europea a livello globale, e il tragicomico ventennio fascista – lo stesso interrogativo non può che apparire provocatorio. Il Paese era, infatti, destinato a uscire con le ossa rotte da questo tragico quarantennio, alla totale mercé dei nuovi padroni americani e, anzi, quanto di vivo e innovativo vi sarà nella vita culturale italiana nascerà proprio dal rifiuto e dalla lotta contro quest’epoca storica così oscurantista. Questa dolce vita, che nei fatti non poteva riguardare che una esigua minoranza, a spese della grande maggioranza massacrata da due spaventose guerre mondiali e dal gretto e sanguinario totalitarismo fascista, non può che configurarsi, già ai tempi della belle epoque, come un Grand hotel abisso.
Dalle rovine di questo Grand hotel fatichiamo ancora oggi a uscire sani e salvi. Anzi, nonostante sia sempre più evidente l’incendio che lo sta consumando e che non può che portarci a soffocare sotto le sue rovine, i suoi clienti paiono più preoccupati dal pensiero di cosa li aspetti fuori, piuttosto che dalla necessità di uscirne quanto prima. Dinanzi a un’attitudine tanto irrazionale non ci resta che concludere, citando Bertolt Brecht: “Non molto tempo fa vidi una casa. Bruciava. Il tetto era lambito dalle fiamme. Mi avvicinai e m’avvidi che c’era ancora gente, là dentro. Dalla soglia li chiamai, ché ardeva il tetto, incitandoli ad uscire, e presto. Ma quelli parevano non aver fretta. Uno mi chiese mentre la vampa già gli strinava le sopracciglia, che tempo facesse, se non piovesse per caso, se non tirasse vento, se un’altra casa ci fosse, e così via. Senza dare risposta uscii di là. Quella gente, pensai, deve bruciare prima di smettere con le domande. Amici, davvero, a chi sotto i piedi la terra non gli brucia al punto che paia meglio qualunque cosa piuttosto che rimanere, a colui io non ho nulla da dire” [1].
Note
[1] B. Brecht, “La parabola di Budda sulla casa in fiamme”, in Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Torino, Einaudi, 1971, pp. 87-88.