Segue da “Migrazioni climatiche (prima parte)”
Le preoccupanti proiezioni future
Appurata l'aggravarsi della crisi climatico-ambientale con i suoi riflessi sempre più rilevanti sulle condizioni di vita delle persone, il mondo scientifico, le istituzioni e le organizzazioni nazionali e internazionali vi stanno focalizzando in maniera crescente la loro attenzione con studi, dossier e convegni nel tentativo di indurre la leadership politica mondiale ad implementare efficaci strategie di contenimento del riscaldamento globale. Fra i vari, anche il rapporto dell'Ipcc [1], gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite dell'8 agosto 2019, “Cambiamento climatico e territorio”, conferma che a seguito di fenomeni naturali sempre più frequenti e intensi aumenteranno sia la fame che le migrazioni. Le zone più vulnerabili saranno quelle tropicali e subtropicali: si prevede che in Asia e Africa si registri ad esempio il maggior numero di persone colpite dalla desertificazioni. Nell'area del Mediterraneo, come anche in Nord e Sud America, nell’Africa meridionale e nell’Asia centrale osserveremo invece un preoccupante aumento degli incendi. Conseguentemente, conclude il rapporto, il fenomeno delle migrazioni subirà gli effetti dei cambiamenti climatici, sia all’interno dei Paesi che fra paesi diversi, presagendo un inevitabile incremento degli spostamenti oltre frontiera.
Della crescente rilevanza e gravità del fenomeno delle migrazioni ambientali sembra che stiano prendendo atto anche gli Stati che hanno iniziato, seppur recentemente, a discutere di inserire nelle politiche migratorie anche la sfera climatica e ambientale. In questa direzione deve essere interpretata la "Dichiarazione di New York su rifugiati e migranti", adottata il 19 settembre 2016 nell'ambito della 71°’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha formalmente riconosciuto l’impatto dei cambiamenti climatici e ambientali quali fattori significativi nelle migrazioni forzate.
Un fenomeno destinato in futuro ad assumere maggiore consistenza, sia nella sua dimensione interna che internazionale, come denunciato anche dal rapporto emesso 19 marzo 2018 dalla Banca Mondiale, in base al quale entro il 2050, fino a 143 milioni di persone che attualmente vivono nei paesi dell’Africa Sub-sahariana (86 milioni), dell’Asia meridionale (40 milioni) e dell’America Latina (17 milioni), potrebbero infatti essere costrette a muoversi all’interno dei propri paesi, fuggendo dalle aree meno vitali con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, o da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e dalle mareggiate, creando inevitabili problemi di gestione del fenomeno a governi già afflitti da rilevanti difficoltà economiche e sociali. Preoccupante scenario che, a grandi linee, ricalca quello previsto da Norman Myers negli anni '90.
Il razzismo ambientale
Gli effetti della crisi climatico-ambientale non si declinano esclusivamente attraverso l'alterazione e la distruzione degli ecosistemi naturali ma anche tramite gli aspetti economici e sociali dell'ingiustizia ambientale. Un gruppo di studiosi che ha indagato le correlazioni fra cambiamenti climatici erazzismo ambientale,fra i quali l'autorevole ambientalista statunitense William Ernest "Bill" McKibben [2], osservando che la crisi sta incidendo, e probabilmente continuerà ad incidere, su alcuni gruppi sociali maggiormente che su altri, sono arrivati a comprovare che gli effetti più gravosi vengono subiti da coloro che hanno minori responsabilità in termini di emissioni e di consumi. Secondo le loro ricerche la traiettoria della disuguaglianza sociale si sviluppa conseguentemente a quella del degrado ambientale, pertanto più lasciamo che l’emergenza climatica si aggravi, più le disparità sociali ed economiche si amplieranno. Ad analoghe conclusioni sono giunti anche gli scienziati dell’Ipcc, i quali, sempre nel rapporto “Cambiamento climatico e territorio” evidenziano la dimensione sociale dei cambiamenti climatici affermando che "gli impatti del cambiamento climatico saranno più severi non solo per i più poveri, ma anche per (…) gli anziani, i giovani, i più vulnerabili, gli indigeni e gli immigrati recenti".
Tale dinamica discriminatoria ha alimentato sin degli anni ‘80 il movimento di giustizia ambientale, che si è concentrato su una sfera particolare del degrado ambientale: il razzismo ambientale, o eco razzismo (eco racism). Termine che sta ad indicare il meccanismo in base al quale le comunità socialmente marginalizzate hanno accessibilità limitata, se non addirittura alcuna, ad acqua, aria e terra non contaminata.
Il razzismo ambientale benché agisca su due dimensioni distinte, quella sociale e quella territoriale, evidenzia correlazioni fra i due ambiti. Infatti, da un lato, le discariche e gli impianti inquinanti tendono ad essere costruiti nelle aree di comunità marginalizzate, popolate da famiglie a basso reddito e da minoranze sociali con elevati tassi di disoccupazione, come ad esempio in Italia gli impianti siderurgici di Bagnoli e Taranto. Negli Stati Uniti esiste, invece, una dinamica declinata in particolare su una discriminazione di tipo razziale. Uno studio ventennale, condotto da Robert Bullard, noto come il padre della giustizia ambientale americana, ha analizzato le caratteristiche razziali e socio-economiche delle comunità che vivono nelle vicinanze di discariche di rifiuti tossici concludendo che un numero sproporzionato di afroamericani risiede in aree con strutture per lo smaltimento di rifiuti chimici. D’altra parte, nelle aree più colpite dagli effetti del cambiamento climatico vi risiedono le comunità marginalizzate dove la povertà aggrava la loro vulnerabilità, come confermato anche dal rapporto "Tendenze minoritarie e indigene 2019" del Minority Rights Group che affronta gli effetti del cambiamento climatico su minoranze e popolazioni indigene e dal quale si evince che a causa dell'ancestrale rapporto con la terra e l’ambiente in cui vivono (addirittura definita Pachamama, Madre Terra, dalle comunità amerindie), queste risultano le comunità più vulnerabili in assoluto.
La nuova frontiera dell'Apartheid climatico
Al concetto di razzismo ambientale o eco razzismo, si sta recentemente affiancando quello più articolato di Apartheid climatico poiché alle crescenti disparità socio-economiche globali si sovrappone, acuendone gli effetti, la differente capacità di risposta delle comunità di fronte alle conseguenze del riscaldamento globale. Come abbiamo precedentemente rilevato, tutte le aree geografiche terrestri risultano interessate, seppur con intensità e forme diverse, dagli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici, ma ciò che differenzia i vari stati e gruppi sociali interni appare la capacità di risposta a tali fenomeni che, infatti, risulta proporzionale alle risorse a disposizione per difendersene e contrastarle. Mentre gli stati a basso reddito, i gruppi sociali marginali ed i popoli autoctoni ne subiscono i maggiori effetti in quanto privi di capacità di adattamento e di mitigazione – come visto anche la sola migrazione – viceversa, come afferma anche il rapporto presentato lunedì 24 giugno 2019 al Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu da Philip Alston [3], solo i paesi più sviluppati "riusciranno ad operare gli aggiustamenti necessari ad affrontare temperature sempre più estreme". Lo studio in questione, che supporta le proprie affermazioni su dati oggettivi, afferma che i cambiamenti climatici rischiano di annullare i progressi conseguiti a livello globale negli ultimi 50 anni per lo sviluppo, la salute e la lotta alla fame. Tali mutamenti produrranno, entro il 2030, almeno 120 milioni di nuovi poveri, mentre "i benestanti potranno pagare per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti, il resto del pianeta sarà lasciato a soffrire". A tal proposito è stato introdotto dalla comunità scientifica il concetto di vulnerabilità che l’Ipcc definisce come “la propensione o predisposizione ad essere affetti negativamente” dai cambiamenti climatici, e “la mancanza di capacità di far fronte e adattarsi” a tali cambiamenti. Alla vulnerabilità è contrapposta la resilienza, vale a dire “la capacità dei sistemi sociali, economici e ambientali di far fronte a un evento, tendenza o disturbo pericoloso”.
L'entità dell'impatto degli eventi climatici estremi risulta sovente proporzionale alle condizioni economiche e sociali, delle comunità colpite che, se in condizioni di fragilità, subiscono un aumento della vulnerabilità e una riduzione della capacità di adattamento a situazioni in fase di mutamento. Frequentemente i cambiamenti climatici amplificano, infatti, condizioni preesistenti di vulnerabilità socio-economica fungendo da acceleratori della povertà e dell'ingiustizia sociale. Le persone malate e ferite, i bambini, i disabili, gli anziani, sono spesso tra i sopravvissuti più gravemente colpiti dagli eventi estremi, soprattutto nei paesi meno sviluppati. Sono infatti principalmente le comunità dei Sud del mondo a subire le conseguenze degli effetti del degrado ambientale e dei cambiamenti climatici, vittime da un lato di fenomeni a cui hanno scarsamente contribuito, e dall’altro anche di attività di sfruttamento di risorse o della costruzione di infrastrutture figlie di un modello di sviluppo imposto con poca attenzione ai fabbisogni delle popolazioni locali. In molti casi, soprattutto in società rurali del Sud del mondo, tale vulnerabilità è stata prodotta o amplificata da politiche neocoloniali o di “sviluppo” e globalizzazione capitalista che hanno ridotto la varietà di colture, ridotto la fertilità dei suoli, creato dipendenza economica dall’esportazione di pochi prodotti, indebolito le strutture sociali tradizionali di reciprocità e mutuo supporto a livello locale, così come la capacità degli stati di rispondere a situazioni di emergenza e provvedere a servizi sociali di base come infrastrutture sanitarie e mediche. (D. Andreucci e A. Orlandi 2019). [4]
In sintesi, riconducendo l'analisi a scala globale, il Sud del mondo che è responsabile del solo 10% delle emissioni, si prevede che dovrà subirne il 75% delle ricadute negative, precipitando di fatto in una situazione di “apartheid ambientale”. La riduzione delle emissioni non risulta pertanto una questione prettamente di carattere ambientale ma una strategia funzionale al rispetto dei diritti umani e sociali, in quanto giustizia sociale e giustizia climatica sono concetti interdipendenti ed i movimenti che le sostengono non possono agire separatamente se aspirano ad ottenere risultati tangibili.
Dall'Antropocene al Capitalocene
Il concetto di Antropocene, proposto per la prima volta negli anni '80 dal biologo Eugene Stroener, ha iniziato a diffondersi, travalicando i confini disciplinari ed accademici, ad opera del premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, per rimarcare l'intensità e la pervasività che l'attività umana aveva assunto nei confronti del processi biologici terrestri (Crutzen, 2005). In ambito ambientalista il concetto evidenza invece il passaggio di stato del nostro Pianeta causato dal manifestarsi su scala globale della crisi climatico-ambientale di origine antropogenica, assurta ad elemento caratterizzante di una nuova era geologica. Tale accezione del concetto di Antropocene risulta tuttavia avulsa da significative connotazioni storico-politiche poiché rapporta il cambiamento climatico all’azione umana, nel suo complesso, senza distinzioni.
La pluricausalità alla base dei flussi migratori contemporanei riconduce invece a fattori economici e sociali, oltre che a quelli ambientali, chiamando in causa le relazioni fra il Nord e il Sud del mondo e i concetti di giustizia sociale e ambientale legati, come visto, alla vulnerabilità e all'accesso alle risorse e, dunque, alle classi sociali di appartenenza.
Una corrente accademica di pensiero e alcuni contesti scientifici sostengono che la crisi climatico-ambientale in atto sia il frutto del sistema economico dominante a livello mondiale, nel cui ambito la volontà di una parte nettamente minoritaria di popolazione mondiale di perpetrare lo sfruttamento delle risorse nell'intento di salvaguardare il proprio, ormai insostenibile, livello di consumi [5] (Bush figlio docet), si concretizza in un forte deficit ecologico che impatta, sotto varie forme, prevalentemente nelle aree geografiche economicamente e socialmente meno sviluppate. Prendere in considerazione esclusivamente gli aspetti climatici come causa migratoria significa di fatto rimuovere il ruolo e le responsabilità del sistema dominante di produzione e consumo, che secondo quest'area di studiosi, può assumere più opportunamente una denominazione di matrice geologica diversa: il Capitalocene (Moore, 2017).
Questo nuovo concetto mette maggiormente in risalto gli aspetti degenerativi della struttura capitalistica che, in modo sempre più "classista", polarizza le vulnerabilità non solo intergenerazionali, in ottica futura, ma soprattutto quelle odierne all'interno e fra società diverse (Amato, 2019).
Il sistema economico globalizzato, neoliberista e sviluppista, funziona da garanzia per il capitale transnazionale nell'ambito di un modello di sviluppo lineare fondato sul ciclo estrazione, produzione, consumo, sulla concentrazione di immensi profitti e la socializzazione dei costi ambientali. Tuttavia, l'adozione di politiche indirizzate verso un modello economico circolare (Circular economy) in grado parzialmente di rigenerarsi riducendo l'impatto sull’ecosistema terrestre può, a nostro avviso, non essere sufficiente a risolvere la triplice crisi in atto (ambientale, economica e sociale) in quanto non vengono messi in discussione i paradigmi della crescita economica infinita e dell'accumulazione capitalistica.
La tematica del superamento delle strutture economiche e sociali del Capitalocene, con i suoi insostenibili modelli di produzione, di consumo e di ripartizione della ricchezza, si propone, alla luce della crisi ambientale sull'orlo del punto del non ritorno e delle disuguaglianze sociali sempre più marcate, in modo ancor più attuale, a causa dei suoi effetti degenerativi sempre più pervasivi, arrivati ormai a mettere a repentaglio il futuro del Pianeta e dell'intera umanità.
Note:
[1] Intergovernmental Panel On Climate Change è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. È stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall'United Nations Environment Program (UNEP) come uno sforzo da parte delle Nazioni Unite per fornire ai governi di tutto il mondo una chiara visione scientifica dello stato attuale delle conoscenze sul cambiamento climatico e sui suoi potenziali impatti ambientali e socio-economici. Migliaia di scienziati di tutto il mondo contribuiscono al lavoro dell'IPCC, su base volontaria.
[2] Bill McKibben autore primo libro sul cambiamento climatico (pubblicato nel 1989) e co-fondatore di "350.org".
[3] Esperto di diritto internazionale e relatore speciale per le Nazioni Unite sulla povertà estrema.
[4] Migranti e cambiamenti climatici. Chi emigra, perché e come intervenire per porvi rimedio?, 26 giugno 2019.
[5] Come certificano i dati dell'impronta ecologica. L’impronta ecologica media pro capite mondiale sostenibile è 1,8 ha mente quella effettiva è invece di 2,7 ha. Fra i singoli paesi: Qatar (11,68), Kuwait (9,72), Emirati Arabi Uniti (8,44), Usa (8,1).